Regolamento - 25/06/2019 - n. 1111 art. 29Procedura successiva al diniego del ritorno del minore ai sensi dell'articolo 13, primo comma, lettera b), e dell'articolo 13, secondo comma, della convenzione dell'Aia del 1980 1. Il presente articolo si applica qualora una decisione che nega il ritorno del minore in un altro Stato membro si basi unicamente sull'articolo 13, primo comma, lettera b), o sull'articolo 13, secondo comma, della convenzione dell'Aia del 1980. 2. L'autorità giurisdizionale che rende una decisione ai sensi del paragrafo 1 rilascia d'ufficio un certificato utilizzando il modello di cui all'allegato I. Il certificato è compilato e rilasciato nella lingua della decisione. Il certificato può anche essere rilasciato in un'altra lingua ufficiale delle istituzioni dell'Unione europea richiesta da una parte. Ciò non crea l'obbligo per l'autorità giurisdizionale che rilascia il certificato di fornire la traduzione o la traslitterazione del contenuto traducibile dei campi di testo libero. 3. Se, nel momento in cui l'autorità giurisdizionale rende una decisione ai sensi del paragrafo 1, un'autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento illecito o mancato ritorno è già stata investita di un procedimento di merito relativo al diritto di affidamento, l'autorità giurisdizionale, se è al corrente di tale procedimento, provvede, entro un mese dalla data della decisione di cui al paragrafo 1, a trasmettere all'autorità giurisdizionale di quello Stato membro, direttamente o tramite le autorità centrali, i documenti seguenti: a) una copia della sua decisione di cui al paragrafo 1; b) il certificato rilasciato ai sensi del paragrafo 2; e c) se del caso una trascrizione, una sintesi o un verbale delle udienze dinanzi all'autorità giurisdizionale e qualsiasi altro documento reputi pertinente. 4. L'autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento illecito o mancato ritorno può, se necessario, chiedere a una parte di fornire la traduzione o la traslitterazione, a norma dell'articolo 91, della decisione di cui al paragrafo 1 e di qualsiasi altro documento allegato al certificato in conformità del paragrafo 3, lettera c), del presente articolo. 5. Se, al di fuori dei casi di cui al paragrafo 3, una delle parti adisce, entro tre mesi dalla notificazione della decisione di cui al paragrafo 1, un'autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento illecito o mancato ritorno affinché accerti nel merito il diritto di affidamento, la parte in questione presenta all'autorità giurisdizionale i documenti seguenti: a) una copia della decisione di cui al paragrafo 1; b) il certificato rilasciato ai sensi del paragrafo 2; e c) se del caso una trascrizione, una sintesi o un verbale delle udienze dinanzi all'autorità giurisdizionale che ha negato il ritorno del minore. 6. Nonostante la decisione contro il ritorno di cui al paragrafo 1, le decisioni di merito relative al diritto di affidamento risultanti dai procedimenti di cui ai paragrafi 3 e 5 che comportano il ritorno del minore sono esecutive in un altro Stato membro a norma del capo IV. InquadramentoLa particolare attenzione alla problematica della sottrazione dei minori – settore nel quale l'esperienza ha mostrato che la fiducia reciproca affermata a livello teorico si scontra maggiormente con le prassi delle corti nazionali che, sovente, operano in modo poco conforme a tale principio (Lupoi 2020, § 5) – ha indotto il legislatore europeo a dedicare alla materia l'apposito Capo in esame, che consta di otto articoli (a fronte del solo art. 11 del Reg. CE n. 2201/2003), le cui disposizioni, come viene espressamente precisato, sono integrative della disciplina dettata dalla Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori. Il procedimento, nel quale deve essere disposto l'ascolto del minore capace di discernimento, rientra, nel nostro ordinamento, nell'ambito di quelli in camera di consiglio in materia familiare, alla medesima stregua di quello già disciplinato dalla Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 per l'analoga situazione (Corbetta). Le disposizioni del Capo III del Regolamento in commento si preoccupano di indicare specificamente per ogni fase della procedura, compresa quella di esecuzione, i tempi entro i quali l'autorità giudiziaria adita deve provvedere, in omaggio a quel principio di celerità coessenziale ad assicurare l'effettività del giudizio sul rientro del minore che è stato condotto all'estero in violazione alle disposizioni concernenti il suo affidamento (Lupoi 2020, § 5). Novità di grande rilievo contemplata dall'art. 25 è l'invito – mutuato dall'esperienza positiva di alcuni Stati membri (come l'Olanda) – che il prima possibile, e comunque in ogni fase del procedimento, l'autorità giudiziaria, anche assistita dall'autorità centrale, può invitare le parti a valutare se siano disposte a ricorrere alla mediazione familiare o ad altri mezzi di risoluzione alternativa delle controversie nella prospettiva della ripresa di un dialogo tra i genitori nell'interesse superiore dei minori. A differenza di quanto era stato prospettato nel corso dei lavori dalla Commissione, non è stata invece prevista la competenza per la decisione sui casi di sottrazione internazionale concentrata in poche sedi territoriali, che avrebbe favorito, in base alla maggiore specializzazione dei giudici, una maggiore celerità e professionalità (Honorati, 259). Ai fini della decisione sul rientro del minore trovano applicazione gli artt. 12 e 13 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. L'onere di provare la sussistenza di una delle condizioni ostative al rientro previste da dette norme incombe sul soggetto che si oppone al ritorno (Cass. I, n. 19544/2003). Peraltro un'autorità giurisdizionale non può rifiutare di ordinare il ritorno di un minore in base all'art. 13, lett. b), della Convenzione de l'Aja del 1980 qualora sia dimostrato che sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno: tale previsione costituisce per le Autorità dello Stato di originaria residenza abituale del minore un vero e proprio obbligo di valutare la necessità di adottare misure cautelari al fine di ottenere la «restituzione senza pericolo», ossia il ritorno del minore presso la sua residenza abituale, con la garanzia di permanervi in una situazione protetta (Caamiña Dominguez, 63 ss.). Una significativa novità del Regolamento UE n. 1111/2019, in esame, è l'attribuzione, in una prospettiva di collaborazione, al giudice che dispone il rientro del minore del potere, in caso di necessità, di adottare provvedimenti provvisori che siano in grado di proteggere il minore dal grave rischio ex art. 13, primo comma, della richiamata Convenzione dell'Aja: l'individuazione delle misure di protezione più adeguate nel caso concreto è quindi rimessa anche all'autorità che decide sul rientro (art. 27, comma quinto). L'art. 29, mutuando alcune disposizioni contemplate dall'art. 11 (§§ 6-8) del Regolamento CE n. 2201/2003, disciplina il procedimento di «riesame» che segue dinanzi all'autorità giurisdizionale competente del luogo della residenza abituale del minore prima del trasferimento illecito a fronte di un provvedimento di diniego del ritorno del minore adottato in base all'art. 13, primo comma, lett. b) o 13, secondo comma, della Convenzione dell'Aja. Importanti sono le precisazioni oggi operate dal legislatore europeo quanto alla più ampia ed approfondita valutazione a tal fine demandata all'autorità giurisdizionale del luogo di residenza abituale del minore, valutazione che, invero, deve riguardare complessivamente la decisione sull'affidamento e non solo quella sul ritorno del minore. Procedimento per la decisione sul rientro del minoreTale procedimento è regolato essenzialmente dagli artt. da 24 a 27 del Regolamento in esame. Il primo e fondamentale principio cui lo stesso è informato è quello della celerità che impone che la decisione, sia nella prima fase che in quella di impugnazione, nonché in sede esecutiva, venga emanata, salve circostanze eccezionali, entro sei settimane dal momento nel quale l'autorità giurisdizionale è stata adita (v. Honorati, 262-263, la quale precisa che le sei settimane sono la durata massima di ciascun grado di giudizio e che lo stesso termine è concesso alle autorità centrali). Il termine in questione è derogabile solo in presenza di circostanze eccezionali. La coessenziale esigenza di celerità del procedimento in esame è coerente con la scelta, nel nostro sistema processuale interno, dello schema duttile del procedimento in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. (cfr. Lupoi 2020, § 5). Si ritiene, infatti, anche in dottrina, che il modello processuale di riferimento sia quello di cui alla legge n. 64/1994, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori e che, pertanto, il procedimento volto al rientro del minore trasferito illegittimamente all'estero sia modellato, almeno nel nostro sistema nazionale, sul rito camerale e sommario tipico della giurisdizione volontaria (Corbetta). Analogamente, si è sottolineato, rispetto al procedimento, di volontaria giurisdizione, previsto dalla l. n. 64/1994 (che costituisce il diretto antecedente del procedimento in esame) inquadrabile nello schema generale dei procedimenti speciali in materia di famiglia e di stato delle persone, e quindi soggetto, per quanto in essa non previsto, alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio, e nel contempo caratterizzato dall'estrema urgenza di provvedere nell'interesse del minore, non sono normativamente previsti – per deposito di atti, citazione di testimoni, preavvisi alle parti, controdeduzioni – i termini e le modalità ordinariamente posti a garanzia del contraddittorio, essendo questo assicurato dalla fissazione dell'udienza in camera di consiglio e dalla comunicazione alle parti del relativo decreto (Cass. I, n. 12293/2010). Pertanto, tenuto conto di quanto previsto dall'art. 738 c.p.c. con riferimento al modello generale dei procedimenti in camera di consiglio, l'istruttoria ha carattere inquisitorio e si svolge con le modalità ritenute congrue dal giudice, entro i limiti consentiti dalla cognizione sommaria che caratterizza il procedimento. Invero, l'ultimo comma dell'art. 738 c.p.c., secondo cui «il giudice può assumere informazioni», implica che il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, risulta di fatto svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso l'assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata all'istanza di parte. Inoltre, tale assunzione, essendo oggetto di una mera facoltà, non implica alcun obbligo per il giudice, sicché la mancata estensione dell'indagine non determina l'inosservanza delle norme disciplinanti il procedimento camerale e risulta incensurabile in Cassazione, sotto il profilo della violazione di legge, in ordine al mancato esercizio della predetta facoltà, soprattutto quando la decisione si fondi sopra elementi istruttori raccolti aliunde rispetto alle informazioni dell'art. 738 c.p.c. e dei quali il giudice, attraverso la motivazione, abbia dato esauriente conto (v., tra le altre, Cass. n. 14227/2004; Cass. n. 1947/1999). Tuttavia, resta fermo l'onere del ricorrente di allegare in modo specifico i fatti costitutivi della fattispecie invocata, che il giudice non può integrare d'ufficio (Cass. n. 19197/2015). Inoltre, mediante l'esercizio dei poteri istruttori officiosi il giudice non può supplire all'onere probatorio vertente in capo alle parti, né svolgere indagini di carattere esplorativo (Cass. n. 4412/2015). Più in generale, sulla questione, nella recente giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che nel procedimento camerale, il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio richiedendo i necessari chiarimenti ex art. 183, comma 4, e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi ex art. 738, comma 3, sempreché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all'onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Cass. n. 4412/2015). Rientra invece nel potere-dovere del giudice verificare l'attendibilità di tali allegazioni attraverso indagini di ufficio e, in particolare, acquisizioni di informazioni e documenti (v., di recente, Cass. n. 7333/2015). Sotto altro profilo, nei procedimenti camerali non operano le preclusioni istruttorie proprie del giudizio ordinario di cognizione, sicché documenti nuovi possono essere prodotti anche nel corso dell'udienza di comparizione delle parti (con onere della controparte di chiedere un eventuale termine o rinvio dell'udienza per contro dedurre: Cass. n. 20670/2005). Pertanto, è possibile decidere in base a documenti depositati tardivamente, a condizione che sui medesimi si sia instaurato pieno e completo contraddittorio (Cass. n. 5876/2012). I procedimenti in camera di consiglio sono decisi dal collegio: peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da lungo tempo chiarito che il principio generale, secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell'organo collegiale, in difetto di esplicite norme contrarie trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato, tenuto anche conto del fatto che la delega comunque non concerne l'ammissione delle prove, demandata al giudice collegiale, il quale Soltanto può valutarne l'ammissibilità e la rilevanza, bensì la loro mera assunzione (Cass. S.U., n. 5629/1996). Sotto altro profilo, la S.C. ha chiarito che la disposizione di cui all'art. 38 c.p.c., nel testo di cui all'art. 4 l. n. 353/1990 ed ora nel nuovo testo modificato dalla l. n. 69/2009, applicabile ratione temporis, che ha introdotto una generale barriera temporale alla possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti (Cass. I, n. 5257/2012). In ogni caso nei procedimenti camerali è ammessa la proposizione, avverso la decisione, del regolamento di competenza ed essendo detta competenza inderogabile può essere esperito anche il regolamento di competenza d'ufficio. Sul punto è stato invero affermato che è ammissibile il regolamento di competenza, ad istanza di parte o d'ufficio, proposto avverso provvedimenti che non abbiano carattere definitivo e decisorio, quali devono ritenersi quelli emessi in sede di volontaria giurisdizione, anche ove pronuncino solo sulla competenza, attesa la necessità di garantire ai titolari dei diritti che ne chiedono il riconoscimento una risposta pronta e sicura del giudice di legittimità circa l'applicazione delle regole e dei criteri sulla competenza (Cass. n. 2259/2016). È poi consolidato il principio per il quale il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma 2, c.p.c. di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in Cassazione (Cass. n. 24965/2011). Taluni mezzi istruttori si ritengono incompatibili con la peculiare celerità e duttilità di forme propria del procedimento in camera di consiglio. In dottrina, è stato osservato che il giudizio, nell'ambito di un procedimento camerale, si potrà fondare su mezzi di prova che di per sé non hanno alcuna efficacia probatoria ove una siffatta possibilità sia prevista dal legislatore (come avviene nel caso della disposizione della prova testimoniale senza previa formulazione di capitoli) e, più radicalmente, che la decisione finale potrà fondarsi anche su una semiplena probatio (Cecchella, 226). Il regolamento – a differenza dell'originaria proposta di “rifusione” della Commissione – non interviene direttamente sulla disciplina del procedimento di ritorno prevista in ogni Stato, ma il considerando 42 contiene un invito agli Stati membri a considerare l'opportunità di limitare a uno il numero di impugnazioni possibili avverso una decisione che dispone o nega il ritorno di un minore ai sensi della convenzione dell'Aia del 1980. Nel nostro ordinamento processuale, in effetti, vi è già un unico rimedio esperibile avverso il decreto pronunciato dal Tribunale per i minorenni nel giudizio in esame, ossia il ricorso per cassazione (cfr. Lupoi 2020, § 5). La Corte di Giustizia dell'Unione europea ha chiarito, sotto altro profilo, che l'ordine di ritorno del minore emesso da parte del giudice dello Stato della residenza abituale dello stesso prima del trasferimento illecito ai sensi del § 8 della disposizione in esame non presuppone una decisione definitiva sull'affidamento, poiché tale interpretazione non trova fondamento testuale nell'art. 11 del Regolamento (CGUE 1° luglio 2010, in causa C-211/10). L’ascolto del minore L'art. 26 del Regolamento UE n. 1111/2019 ribadisce – magari in modo superfluo ma per evidenziare ancor più l'importanza di tale adempimento spesso trascurato nella prassi degli Stati membri (cfr. Lupoi 2020, § 5) – che l'art. 21 dello stesso, che prevede il diritto del minore ad essere ascoltato, trova applicazione anche nei procedimenti in esame (cfr. Carpaneto, 970). È opportuno ricordare che in ordine all'ascolto del minore, previsto già dall'art. 11 del Regolamento CE n. 2201/2003, in una prima fase si era affermato, con riguardo alla Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori, che nel procedimento per il mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale l'audizione del minore non è imposta per legge, in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio della situazione di tale procedura; anche in tale procedura, peraltro, l'audizione è opportuna, se possibile come specificamente previsto dall'art. 11, comma 2, Regolamento CE n. 2201/2003. Ne deriva, secondo detta impostazione interpretativa, anche nel procedimento in questione l'audizione del minore è in via generale necessaria, onde poter valutare, ai sensi dell'art. 13, comma 2, della Convenzione dell'Aja l'eventuale opposizione del minore al ritorno, salvo ragioni di inopportunità per età o grado di maturità e, a fortiori, di danno per quest'ultimo (Cass. I, n. 12293/2010). In seguito è decisamente prevalsa nella giurisprudenza della S.C. – anche in ragione del generale principio enunciato da Cass. S.U.,n. 22238/2009 – la diversa e più garantista impostazione interpretativa per la quale nel procedimento per la sottrazione internazionale di minore, l'ascolto di quest'ultimo (che può essere espletato anche da soggetti diversi dal giudice, secondo le modalità dal medesimo stabilite) costituisce adempimento necessario ai fini della legittimità del decreto di rimpatrio ai sensi dell'art. 315-bis c.c. e degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata con l. n. 77/2003), essendo finalizzato, ex art. 13, comma 2, della Convenzione de L'Aja del 25 ottobre 1980, anche alla valutazione della sua eventuale opposizione al rimpatrio, salva la sussistenza di particolari ragioni (da indicarsi specificamente) che ne sconsiglino l'audizione, ove essa possa essere dannosa per il minore stesso, tenuto conto, altresì, del suo grado di maturità (Cass. I, n. 3319/2017). Poiché la decisione sul rientro deve essere sempre ispirata al principio del “superiore interesse del minore”, anche ove questi si opponga al rientro, l'autorità giudiziaria, che pure ha l'obbligo di tenere conto della sua opinione, può anche, in applicazione del predetto principio ed all'esito di un esame approfondito di tutti gli aspetti che vengono in rilievo, di cui deve essere data adeguata motivazione, discostarsi dalla contingente manifestazione di volontà del minore medesimo, al fine di salvaguardare il suo interesse a coltivare una relazione appagante con entrambi i genitori (Cass. I, n. 8229/2023). Pertanto, l'omessa audizione del minore nel procedimento per la sottrazione internazionale dello stesso costituisce lesione del diritto al contraddittorio, da far valere in sede d'impugnazione nei limiti e secondo le regole fissate dall'art. 161 c.p.c. (Cass. I, n. 7479/2014). Tuttavia resta ferma la possibilità dell'autorità giudiziaria di procedere all'ascolto diretto del minore come a quello indiretto, ossia tramite un rappresentate o un organismo appropriato (cfr. Liuzzi, 886). L’invito alla mediazione Novità di grande rilievo contemplata dall'art. 25 è l'invito – mutuato dall'esperienza positiva di alcuni Stati membri (come l'Olanda) – che, il prima possibile e comunque in ogni fase del procedimento l'autorità giudiziaria, anche assistita dall'autorità centrale, può invitare le parti a valutare se siano disposte a ricorrere alla mediazione o ad altri mezzi di risoluzione alternativa delle controversie: ciò si pone in una prospettiva collaborativa tra la coppia genitoriale disgregata volta alla ripresa di un dialogo nell'interesse superiore dei minori (Honorati, 261). Il rischio della mediazione è, peraltro, quello di allungare la durata del procedimento. In questa prospettiva lo stesso art. 25 del Regolamento in esame demanda all'autorità giurisdizionale la valutazione se disporre o meno l'invito, nel senso che lo stesso può non essere effettuato qualora contrasti con l'interesse superiore del minore, non sia appropriato nel caso specifico (ad esempio, nelle ipotesi di violenza domestica: Lupoi 2020, § 5) o non ritardi troppo la definizione del procedimento (cfr. Honorati, 262, la quale pure ricorda alcune esperienze, come quella dell'ordinamento olandese, nelle quali la mediazione è realizzata in tempi brevissimi). Il rispetto del termine di sei settimane per la decisione sul rientro del minore comporta, secondo attenta dottrina, che la mediazione debba svolgersi parallelamente al relativo procedimento (Lupoi, 2020, § 5). Si è osservato che è criticabile, nella prospettiva di incentivare la mediazione nella quale pure si pone il nuovo Regolamento, l'assenza di riferimenti alle proposte delle istituzioni al Mediatore europeo, istituito dal Parlamento nel 1987, per i casi di sottrazione internazionale (cfr. Carpaneto, 970, per la quale un riferimento in tale direzione avrebbe consentito di renderne almeno nota l'esistenza). Norme applicabili ai fini della decisione sulla domanda di rientroSebbene non espressamente richiamato, come avveniva ad opera dell'art. 11 del Reg. CE n. 2201/2003, deve ritenersi che continui a trovare applicazione per la decisione sul ritorno del minore anche l'art. 12 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Il principio espresso dalla norma è in sostanza quello secondo cui il giudice dello Stato in cui il minore è stato illecitamente condotto ha l'obbligo di disporne l'immediato rientro nella residenza abituale, salvo si configurino le circostanze eccezionali, tassativamente previste dalla convenzione, che renderebbero il ritorno non più corrispondente all'interesse dello stesso. In particolare, si tratta del caso in cui la domanda di ritorno sia presentata dopo un anno dal trasferimento illecito, ove il minore si sia nel frattempo integrato nel nuovo ambiente nel quale si trova (art. 12, § 2), e delle tre ipotesi previste dal successivo art. 13 della medesima Convenzione, ossia: il genitore affidatario di fatto non esercitava il diritto di custodia al momento della sottrazione o aveva prestato il proprio consenso al trasferimento; il ritorno nella residenza abituale esporrebbe il minore al rischio di pericoli fisici o psichici o di trovarsi in una situazione intollerabile; il minore ha manifestato, nel corso del procedimento di rimpatrio, la propria opposizione al rientro nella residenza abituale (cfr. Pesce, 1016). In accordo con la giurisprudenza di legittimità, il ritorno del minore può essere disposto, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, purché vengano concretamente accertati dal tribunale per i minorenni l'effettivo esercizio, al momento del trasferimento, del diritto di affidamento da parte del richiedente, che prescinde da ogni rilievo in ordine al ripristino della situazione corrispondente all'affidamento legale, nonché l'insussistenza di una situazione intollerabile e di pericolo, non solo fisico ma anche psicologico, per il minore (cfr. Cass. I, n. 16043/2015, la quale ha cassato il decreto del Tribunale per i Minorenni con il quale veniva disposto il rimpatrio della figlia di un'italiana e di un cittadino statunitense affetto da alcolismo, tratto in arrestato e più volte ricoverato in centri di riabilitazione). Invero, sempre nella giurisprudenza di legittimità, si è precisato, che, in tema di sottrazione internazionale di minori, il ritorno del minore può essere disposto, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, purché ricorra l'indispensabile presupposto dell'effettivo esercizio, in modo non episodico ma continuo, del diritto di affidamento da parte del richiedente al momento del trasferimento del minore, sicché il giudice è tenuto ad accertare la sussistenza di tale presupposto puntualmente ed in concreto, non essendo sufficiente una valutazione solo in astratto, sulla base del regime legale di esercizio della responsabilità genitoriale (Cass. I, n. 6139/2015). In particolare, l'Autorità giudiziaria od amministrativa dello Stato estero richiesto di rimpatriare il minore, illecitamente colà trasferito, non è tenuta ad ordinare il ritorno del minore qualora sussista la situazione intollerabile di cui all'art. 13 § 1 lett. b) della convenzione de L'Aja del 25 ottobre 1980, situazione che può essere determinata anche da rapporti, fra i genitori, connotati da un conflitto irrimediabile, oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile, poiché un conflitto siffatto è concretamente idoneo ad incidere in modo estremamente negativo sul benessere psicofisico del minore, che è puntualmente tutelato anche dal regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 (Cass. I, n. 16549/2010, in Dir. fam. 2012, n. 1, 83, con nota di Salzano). In sede applicativa si è osservato, a riguardo, che le situazioni ostative, anche nel caso di minori neonati o di età tenerissima, non devono ridursi a meri disagi temporanei od a transitorie reazioni emotive, ma consistere in oggettivi rischi di pericolo psicofisico, poiché, diversamente opinando, si dovrebbe sempre negare il rimpatrio degli infanti condotti arbitrariamente altrove dalla madre, in ragione dell'ovvio rapporto che sussiste in questi casi tra la genitrice ed il piccolo nato (Trib. min. Milano 30 aprile 2010, in Dir. fam. 2011, n. 1, 220, con nota di Salzano). La pronuncia appare conforme al più generale orientamento affermato all'interno della giurisprudenza di legittimità per il quale, in tema di sottrazione internazionale del minore, il giudice, cui sia stato richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente sottratto, nell'accertare se sussista il fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo rientro, a pericoli psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile (ai sensi dell'art. 13, comma 1, lett. b, della Convenzione de L'Aja 25 ottobre 1980, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 15 gennaio 1994, n. 64), deve attenersi ad un criterio di rigorosa interpretazione della portata della condizione ostativa al rientro, sicché egli non può dar peso al mero trauma psicologico o alla semplice sofferenza morale per il distacco dal genitore autore della sottrazione abusiva, a meno che tali inconvenienti non raggiungano il grado – richiesto dalla citata norma convenzionale – del pericolo psichico o della effettiva intollerabilità da parte del minore (Cass. n. 6081/2006). Al contempo, tuttavia, al fine di escludere ai sensi della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 la sussistenza delle condizioni ostative al rientro del minore nello Stato dove abitualmente risiede ed in particolare al fine di ritenere non sussistente il fondato rischio per il minore di essere esposto a pericoli fisici o psichici o, comunque di trovarsi in una situazione intollerabile, non sono sufficienti le valutazioni (ancorché approfondite) compiute dalle autorità competenti dello Stato di residenza del minore, ma sono necessari ulteriori accertamenti (da svolgere anche mediante indagine tecnica) da parte del giudice italiano, tanto più necessarie alla luce del fermo rifiuto del minore espresso univocamente in sede di audizione, ancorché a una età (nella specie dieci anni e mezzo) nella quale ancora non si presume la capacità di discernimento e ancorché il minore stesso pur affermando di avere paura del padre affidatario non sia stato in grado di spiegarne le ragioni e avendo lo stesso dimostrato, in occasione di incontri protetti una buona relazione con il padre stesso, improntata a confidenzialità e alla esclusione di segni di disagio (Cass. I, n. 18848/2016). In sostanza la nozione di rischio enucleata dalla giurisprudenza di legittimità richiede un consistente livello di gravità dei pericoli prospettati, non essendo sufficiente il profilarsi di meri inconvenienti quali conseguenze del rimpatrio (Corbetta). L'onere di provare la sussistenza della condizione ostativa al rientro incombe sul soggetto che si oppone al ritorno (Cass. I, n. 19544/2003). In ogni caso, l'autorità giurisdizionale adita non può disporre il ritorno del minore se la persona che lo richiede non ha avuto la possibilità di essere sentita (art. 27, § 1), né se tale parte fornisce prove sufficienti o la stessa autorità giurisdizionale è altrimenti convinta che sono state previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno (art. 27, § 3). Secondo una parte della dottrina quest'ultima previsione, sostanzialmente contemplata anche dall'art. 11 del Regolamento CE n. 2201/200, pone a carico delle Autorità dello Stato di originaria residenza abituale del minore un vero e proprio obbligo di valutare la necessità di adottare misure cautelari al fine di ottenere la «restituzione senza pericolo», ossia il ritorno del minore presso la sua residenza abituale, con la garanzia di permanervi in una situazione protetta (Caamiña Dominguez, 63 ss.). Per alcuni le misure adeguate cui fa riferimento l'art. 27 del Regolamento in commento devono essere concrete, effettivamente applicate e finalizzate alla protezione giuridica, materiale e psicologica del minore, sicché non è di per sé sufficiente che l'ordinamento giuridico dello Stato di residenza abituale preveda la possibilità di adottare, in astratto, provvedimenti di protezione (De La Rosa Cortina, 201). Peraltro, si è evidenziato, in una differente prospettiva interpretativa, che, se le Autorità dello Stato nel quale il minore è stato illegittimamente condotto adducessero, a fondamento del diniego di rimpatrio, la mancata dimostrazione circa l'effettiva adozione di misure protettive, prima del rientro del minore, da parte dell'Autorità dello Stato di residenza abituale, ciò finirebbe per svalutare il principio di fiducia reciproca che deve sussistere tra le autorità degli Stati Membri dell'Unione Europea. La negazione del ritorno per tale motivo, invero, equivarrebbe a sfiducia nella capacità e prontezza delle autorità giurisdizionali dello Stato di origine di applicare prontamente le misure di tutela e, quindi, nell'intero sistema di protezione (Jiménez-Blanco, 141 ss.). In virtù di quanto precisato dal considerando 45 al Regolamento in esame, tali misure possono includere, ad esempio, un provvedimento giudiziario dello Stato membro in cui il minore dovrebbe far ritorno che vieti all'istante di avvicinarsi al minore, un provvedimento provvisorio, anche di natura cautelare, di quello Stato membro che consenta al minore di restare con il genitore sottrattore che ne ha l'affidamento effettivo fino a quando non sia adottata una decisione di merito relativa al diritto di affidamento in quello Stato membro dopo il ritorno, o la dimostrazione della disponibilità di strutture mediche per un minore bisognoso di cure (Lupoi 2020, § 5, il quale sottolinea che la scelta dovrà cadere sulla misura più adeguata ad evitare la concretizzazione del rischio nell'ipotesi di rientro del minore). Una significativa novità del Regolamento UE n. 1111/2019, in esame, è l'attribuzione, in una prospettiva di collaborazione, al giudice che dispone il rientro del minore del potere, in caso di necessità, di adottare provvedimenti provvisori che siano in grado di proteggere il minore dal grave rischio ex art. 13, primo comma, della richiamata Convenzione dell'Aja: l'individuazione delle misure di protezione più adeguate nel caso concreto è quindi rimessa anche all'autorità che decide sul rientro (art. 27, comma quinto). Ciò comporta che anche quando il giudice dello Stato di rifugio ritenga che il rientro del minore possa determinare per lo stesso un grave rischio per come individuato dal primo comma, lett. b), dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 1980, non dovrebbe rifiutare il ritorno solo per tale ragione potendo, in forza del nuovo Regolamento, non solo collaborare attivamente nell'individuazione delle misure di protezione ma assumere egli stesso provvedimenti provvisori necessari ad assicurare un ritorno sicuro del minore (cfr. Honorati, 267, la quale sottolinea che quindi è soprattutto il giudice che abbia accertato l'esistenza di una situazione di rischio che deve farsi carico di evitare che lo stesso si concretizzi così riducendo le ipotesi nelle quali il rientro viene negato per tale ragione). A titolo esemplificativo il considerando 46 del Regolamento Bruxelles III- bis in esame annovera, tra i provvedimenti provvisori, la previsione che il minore debba continuare a risiedere con l'effettivo affidatario o la determinazione del modo in cui dovrebbero essere intrattenuti i contatti con il minore dopo il suo ritorno fino a quando l'autorità giurisdizionale della residenza abituale del minore non abbia adottato i provvedimenti che ritiene appropriati. Riesame del provvedimento di diniego del rientro del minore da parte dell’autorità dello Stato di residenza abitualeL'art. 11 del Reg. CE n. 2201/2003 – applicabile ai procedimenti incardinati sino alla data del 31 luglio 2022 – aveva introdotto un meccanismo integrativo rispetto alle norme della convenzione dell'Aja del 1980, volto a consentire che, nei rapporti tra gli Stati membri dell'Unione, dopo una decisione di diniego del ritorno da parte del giudice dello Stato “di rifugio” del minore, la parola finale, al riguardo, fosse comunque riservata al giudice dello Stato d'origine. In particolare, l'art. 11 stabiliva che qualora un giudice nazionale respingesse la richiesta di ritorno di un minore in base all'art. 13 della convenzione del 1980, tale giudice non si potesse limitare ad emanare un provvedimento di rigetto della relativa istanza. Doveva invece, ai sensi del par. 6, immediatamente trasmettere (direttamente ovvero tramite la sua autorità centrale) una copia del proprio provvedimento e dei pertinenti documenti (in particolare, una trascrizione delle audizioni svoltesi dinanzi a lui) all'autorità giurisdizionale competente o all'autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell'illecito trasferimento o mancato ritorno, come stabilito dalla legislazione nazionale. A questo punto, salvo che l'autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell'illecito trasferimento o del mancato ritorno non fosse già stata adìta da una delle parti, l'autorità giurisdizionale o l'autorità centrale che riceveva le informazioni appena menzionate doveva informarne le parti e invitarle a presentare le proprie conclusioni, conformemente alla legislazione nazionale, entro tre mesi dalla data della notifica, affinché l'autorità esaminasse la questione dell'affidamento del minore. Qualora tali conclusioni non fossero fatte pervenire entro il termine stabilito, l'autorità giurisdizionale in questione archiviava il procedimento e, ai sensi dell'art. 10, lett. b), iii) di Bruxelles II-bis, la competenza giurisdizionale si spostava alla corte della “nuova” residenza abituale del minore. In mancanza, o veniva instaurato un procedimento di mero riesame sommario delle valutazioni compiute dal giudice straniero con nuova e globale valutazione degli elementi probatori acquisiti da quest'ultimo, eventualmente da integrare con quelli ulteriormente acquisiti a séguito di sommarie informazioni, ed una autonoma interpretazione della pertinente disciplina sostanziale, al cui esito era emessa una decisione o confermativa del provvedimento di diniego del ritorno – eventualmente anche per ragioni diverse od ulteriori da quelle addotte dall'altro giudice –, ovvero “sostitutiva” dello stesso provvedimento, prescrivendo il ritorno del minore, senza che del procedimento stesso fosse oggetto necessario il diritto di affidamento come questione preliminare da decidere prima di esaminare la questione del ritorno del minore. Con tale procedimento, in effetti, il regolamento n. 2201 mirava ad assicurare non solo il ritorno immediato del minore nello Stato in cui risiedeva prima della sottrazione abduction , ma anche a mettere in condizione le corti d'origine di valutare le ragioni e le prove alla base dell'eventuale decisione di non rientro (così LUPOI 2020, § 5). L'art. 29 del Regolamento UE n. 1111/2019 innova la disciplina ora richiamata. La norma trova applicazione, come evidenziato dal primo comma, qualora una decisione che nega il ritorno del minore in un altro Stato membro si basi unicamente sull'art. 13, comma 1º, lett. b ) (norma che esclude il ritorno se sussiste un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile) o sull'art. 13, secondo comma (in tema di opposizione del minore stesso al ritorno qualora abbia raggiunto un'età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere) della Convenzione dell'Aja del 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori. Il meccanismo quindi è destinato a non trovare più applicazione anche nell'ipotesi, invece contemplata dall'art. 11 § 6 del precedente Regolamento, qualora il ritorno sia negato avendo il giudice dello stato “di rifugio” valutato, ai sensi dell'art. 13, lett. a ) della convenzione che la persona, l'istituzione o l'ente cui era affidato il minore non esercitasse effettivamente il diritto di affidamento al momento del trasferimento o del mancato rientro, o avesse consentito, anche successivamente, al trasferimento o al mancato ritorno (Lupoi 2020, § 5). In particolare, il terzo comma precisa che, se quando è resa la decisione di diniego del ritorno l'autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale prima della sottrazione internazionale il minore aveva la propria residenza abituale era già stata investita di un procedimento di merito sul più ampio diritto di affidamento e l'autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento di non ritorno ne è a conoscenza deve trasmettere all'altra, direttamente o tramite le autorità centrali, una copia della decisione, il certificato rilasciato in relazione alla stessa e, se del caso, una trascrizione, una sintesi, un verbale o qualsiasi altro documento pertinente del procedimento svoltosi per la decisione sul ritorno. Se invece è una delle parti ad adire, entro tre mesi dalla notificazione della decisione che denega il rientro, un'autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la propria residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento illecito o mancato ritorno trasmette la medesima documentazione. Si precisa, poi, che nonostante l'emanazione di un provvedimento contro il ritorno in base all'art. 13 della convenzione dell'Aia del 1980, una successiva decisione che prescrive il ritorno del minore emanata da un giudice competente ai sensi del presente regolamento è esecutiva in un altro Stato membro in conformità al Capo IV del presente regolamento. In sostanza, il provvedimento di diniego di ritorno del minore illecitamente sottratto viene nuovamente esaminato dall'autorità giurisdizionale competente del luogo della residenza abituale del minore prima del trasferimento illecito, tuttavia nell'ambito di un procedimento che comporta una cognizione più estesa, avente ad oggetto il merito dell'affidamento (cfr. Honorati, 269; Lupoi 2020, § 5). In dottrina, quindi, si è osservato che, in base all'art. 29 del Reg. UE n. 1111/2019, l'autorità giudiziaria deve considerare l'interesse superiore del minore e le ragioni che hanno giustificato una decisione di non ritorno da parte del giudice dello Stato di rifugio, compiendo un esame approfondito delle circostanze del caso concreto (Carpaneto, 973-974, la quale ricorda che ciò determina un allineamento ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nei noti casi Neuliger e Kampanella circa la necessità di un approfondito esame della vita familiare nelle fattispecie di minori oggetto di illecita sottrazione). In sostanza per limitare il ricorso all'art. 13 della convenzione dell'Aia, che consente al giudice di rifugio di rifiutare il ritorno del minore quando vi ravvisi un pregiudizio, il Regolamento ha rafforzato la competenza del giudice di residenza abituale del minore, consentendogli di adottare una decisione relativa al suo affidamento che sia idonea a prevalere anche sulla contraria decisione del giudice dello Stato di rifugio (così Honorati, 268). È stato così superato l'orientamento espresso dalla Corte di cassazione, nella vigenza dell'art. 11 del Reg. CE n. 2201/2003, per il quale il procedimento in esame «si configura come un vero e proprio giudizio di “riesame” del giudizio svoltosi dinanzi al giudice del luogo dove il minore è stato illecitamente trasferito e conclusosi con un provvedimento di diniego del ritorno», e che pertanto la «questione dell'affidamento» del minore menzionata dall'art. 11 par. 7 del regolamento «concerne soltanto l'eventuale violazione del “diritto di affidamento” del “titolare della responsabilità` parentale”, inteso appunto quale “diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo [del minore] luogo di residenza (Cass. I, n. 16549/2010; conf. Trib. min. Firenze, decreto 15 maggio 2014; Trib. min. Milano, decreto 23 marzo 2016). La stessa Corte di Giustizia aveva affermato, nel caso Povse, che l'autorità giudiziaria dello Stato di residenza abituale del minore avrebbe potuto, alla luce dell'interesse superiore dello stesso, “postergare” la decisione di affidamento onde adottare più celermente quella sul rientro del minore (Corte di giustizia, 1° luglio 2010, in causa C-211/10, Povse c. Alpago). Nel sistema configurato dall'art. 29 del Reg. UE n. 1111/2019 la decisione deve essere sempre assunta dal giudice competente per l'affidamento sul merito sicché si è evidenziato che, nel nostro sistema processuale, la relativa competenza dovrebbe essere demandata al Tribunale ordinario e non a quello per i minorenni come è stato sinora (Honorati, 271). Il procedimento di riesame costituisce una valida alternativa all'impugnazione del provvedimento che non ha disposto il rientro del minore, pur non essendo preclusa in astratto la possibilità di detta impugnazione che contrasta, tuttavia, con le esigenze di peculiare celerità sottese al procedimento (Pesce, 1018). Ne deriva che il provvedimento di rigetto della domanda di ritorno ha valenza meramente provvisoria (Salzano, 2011, 228). Nel nostro sistema processuale la decisione assunta ai sensi della disposizione in esame non è definitiva, in quanto ricorribile per cassazione. A riguardo, invero, la S.C. ha chiarito che, in tema di sottrazione internazionale del minore, il giudizio del Tribunale dei minorenni che, in qualità di giudice «naturale» del minore in quanto giudice della residenza abituale del medesimo, ai sensi dell'art. 11 reg. Ce 27 novembre 2003 n. 2201, si pronunci sul provvedimento di diniego di ritorno emesso dal giudice dello Stato in cui il minore è stato illecitamente trasferito, si configura come un procedimento di riesame completo ed esaustivo del provvedimento impugnato, non appellabile e direttamente ricorribile per Cassazione, attesa l'analogia tra il procedimento sommariamente descritto nell'art. 11 reg. Ce 2201 del 2003 e quello regolato dall'art. 7 della legge n. 64 del 1994 con la quale è stata data esecuzione alla Conv. dell'Aja del 25 ottobre 1980 (Cass. n. 16549/2010; Cass. n. 6319/2011). Il riferimento all'analogo procedimento previsto dall'art. 7 della legge n. 64 del 1994 dovrebbe far ritenere, quanto ai termini per la proposizione del ricorso per Cassazione contro detto provvedimento, applicabile l'orientamento già affermato dalla S.C. con riferimento a detta legge nel senso che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. avverso i decreti del tribunale dei minorenni in tema di illecita sottrazione internazionale di minore (adottati ai sensi della l. n. 64/1994) aventi contenuto decisorio e carattere definitivo decorre – in difetto di ragioni, connesse alla particolarità del procedimento o alla qualità degli interessi sottesi, che giustifichino la deroga all'enunciato principio – solo a seguito della notificazione ad istanza di parte, mentre è irrilevante, al predetto fine, che i ricordati provvedimenti siano pronunziati in udienza o, se pronunziati fuori udienza, siano stati comunicati dal cancelliere, con la conseguenza che, in assenza di tale notifica, è legittima l'applicazione del più lungo termine di cui all'art. 327 c.p.c. (Cass. I, n. 746/1999). BibliografiaBeaumont - Walker - Holliday, Conflicts of EU courts on child abduction: the reality of article 11(6)-(8) Brussels IIa proceedings across the EU, in Journ. Priv. Int. Law, 2016, 211 ss. ; Beaumont, Walker, Shifting the Balance Achieved by the Abduction Convention: The Contrasting Approaches of the European Court of Human Rights and the European Court of Justice, in Journ. Priv. Int. 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