Congiunti delle vittime di omicidio: l’Italia deve garantire una tutela indennitaria equa ed adeguata

27 Agosto 2025

Il recente arresto della Corte di Giustizia indicato in epigrafe nuovamente censura l'Italia per non garantire alle vittime di reati violenti, ed in particolare ai congiunti delle vittime di omicidio, una tutela indennitaria conforme ai dettami della direttiva 2004/80/CE: la norma incriminata è l'art. 11, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 7 luglio 2016 n. 122, la quale - per mezzo di un sistema “a cascata” - automaticamente esclude la tutela indennitaria di taluni congiunti della vittima per la sola presenza di altri, ritenuti più prossimi, ciò a prescindere dalle conseguenze del reato da ciascuno effettivamente subite in termini di sofferenza e gravità

Massima

«L'articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, deve essere interpretata nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro che prevede un sistema di indennizzo per i reati intenzionali violenti che subordina, in caso di omicidio, il diritto all'indennizzo dei genitori della persona deceduta all'assenza di coniuge superstite e di figli di tale persona e quello dei fratelli e delle sorelle di quest'ultima all'assenza di detti genitori».

Il caso

La vicenda approdata in Corte di giustizia riguardava il tragico omicidio di una donna, madre di due figli, da parte del suo convivente.

Sul versante penale l’autore del femminicidio era stato condannato in via definitiva a corrispondere le seguenti rilevanti provvisionali: Euro 400.000,00 per ciascun figlio, Euro 120.000,00 per ciascun genitore e per la sorella, nonché Euro 30.000,00 per il marito della donna, separato da due anni ma non ancora divorziato.

Stante la comprovata nullatenenza del reo, i famigliari della vittima richiedevano l’indennizzo statale ai sensi della legge n. 122/2016, tuttavia ottenendo gli assai modesti indennizzi ad oggi previsti dalla normativa italiana, per giunta soltanto in favore di solo alcuni dei congiunti colpiti dalla tragedia: lo Stato riconosceva Euro 20.000,00 per ciascun figlio, e - importo liquidato successivamente ai primi - Euro 16.666,66 al coniuge separato.

I congiunti “esclusi”, dunque i genitori e la sorella della vittima, così come i figli di quest’ultima, in ragione dell’esiguità dell’indennizzo percepito, adivano il Tribunale di Venezia lamentando la violazione della tutela disposta dalla direttiva 2004/80/CE, nello specifico domandando, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE oppure rimessione alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., in via principale di disapplicare la normativa domestica con conseguente liquidazione di indennizzi equi ed adeguati ai sensi della direttiva, tenendo conto dei pregiudizi effettivamente subiti da loro e di quanto liquidato a titolo di provvisionale in sede penale, a prescindere dalle eventuali disponibilità del fondi di cui all’art. 14 della legge n. 122/2016, ed in via subordinata, il pagamento delle medesime somme loro accordate dal giudice penale, ciò a titolo di risarcimento dei danni da responsabilità statale ex Francovich.  

Il giudice veneziano optava per la remissione della questione alla Corte di Giustizia, esprimendo numerose considerazioni critiche non solo rispetto all’automatica esclusione di genitori e sorella della vittima, ma anche in merito:

i) agli importi liquidati a titolo di indennizzo, determinati con parametri assai distanti da quelli comunemente utilizzati a livello interno, in sede sia civile che penale, per il ristoro dei danni da perdita del congiunto;

ii) alla ripartizione dell’indennizzo tra i congiunti legittimati secondo le disposizione codicistiche in materia di successione;

iii) al contenimento dell’indennizzo nei limiti del Fondo per l’indennizzo in favore delle vittime.

La questione

Nonostante le interessanti premesse, alcuni dei punti critici rilevati dal Tribunale di Venezia non rientravano poi nella formulazione finale del primo quesito rimesso alla Corte di Giustizia,  ossia: «se la corresponsione dell'indennizzo stabilito in favore dei genitori e della sorella di una vittima dei reati intenzionali violenti, nel caso [di] omicidio, dall'articolo 11, comma 2 bis, della [legge n. 122/2016], essendo subordinata all'assenza di figli e coniuge della vittima (quanto ai genitori) ed all'assenza dei genitori (nell'ipotesi di fratelli o sorelle), risulti conforme a quanto prescritto dall'articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 nonché agli articoli 20 (uguaglianza), 21 (non discriminazione), 33 comma 1 (protezione della famiglia), 47 (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale) della Carta dei diritti fondamentali dell'[U]nione [e]uropea ed articolo 1 prot. 12 della [Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950] (non discriminazione)», dunque con esclusione dello specifico tema dell'equità ed adeguatezza degli indennizzi previsti dalla legge italiana come liquidati nel caso di specie.

Seguiva poi un secondo quesito, così formulato: «se la condizione posta alla erogazione dell'indennizzo prevista nell'articolo 11, comma 3, della l. n. 122/2016 […] consistente nelle parole comunque nei limiti delle disponibilità del Fondo di cui all'articolo 14”, senza che alcuna norma imponga allo Stato italiano l'accantonamento di somme concretamente idonee a corrispondere gli indennizzi, anche determinate su base statistica ed in ogni caso risultanti concretamente idonee ad indennizzare in tempi ragionevoli gli aventi diritto, possa reputarsi “indennizzo equo ed adeguato delle vittime” in attuazione di quanto prescritto dall'articolo 12, paragrafo. 2, della direttiva 2004/80».

Le soluzioni giuridiche

In primo luogo, si evidenzia come la Corte UE si sia pronunciata esclusivamente in merito al primo dei quesiti sopra riportati, dichiarando il secondo irricevibile, causa l'asserita estraneità al caso di specie della questione relativa ai limiti dell'indennizzo secondo le disponibilità economiche del Fondo: nel caso di specie gli indennizzi dovuti ex lege erano stati concretamente elargiti senza che il Ministero avesse eccepito alcunché a livello di risorse finanziarie in cassa.

Ristretto il campo al primo dei quesiti ricevuti, la Corte di Giustizia si è soffermata sulla corretta interpretazione da conferire all'art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE, così addivenendo alla censura della normativa italiana di riferimento, con cui il legislatore nazionale aveva ecceduto nella discrezionalità concessagli, discostandosi da quelli che erano i primari fini di tutela della norma sovrannazionale.

Sinteticamente, la motivazione della Corte si articola nei seguenti passaggi argomentativi:

  • innanzi tutto la Corte di Giustizia, in netto contrasto con la tesi, alquanto azzardata, della Presidenza del Consiglio Ministri, secondo cui le “vittime” concepite dalla direttiva sarebbero soltanto quelle primarie, dunque con un vuoto di tutela rispetto ai congiunti delle persone decedute per omicidio, o per conseguenza di altro reato, e dunque - paradossalmente - in presenza delle violazioni più gravi, si è soffermata sul concetto di “vittima” in senso conforme ai principi espressi dalla direttiva 2004/80;  
  • in particolare, anche nel rispetto dell'art. 17 («Disposizioni più favorevoli»), lett. a), della direttiva 2004/80, disposizione preclusiva, per ciascuno Stato membro, dell'introduzione di misure e, quindi, anche di nozioni più restrittive, in termini di protezione delle vittime di reati violenti intenzionali, rispetto a quelle fornite dall'ordinamento nazionale, l'Italia è tenuta a ricomprendere nel concetto di vittime anche quelle secondarie, già tutelate - proprio come rammenta il caso di specie - a livello di giustizia interna;
  • ciò premesso, e rimandando a diversi contesti, come il concetto di “vittime” in seno ai lavori preparatori alla direttiva ed altresì la nozione di “vittime” rinvenibile nel linguaggio comune, la Corte di giustizia è fondatamente pervenuta alla seguente conclusione: «la nozione di «vittime», ai sensi di tale disposizione, a vantaggio delle quali gli Stati membri devono istituire, in forza di detta disposizione, un sistema nazionale di indennizzo, deve essere intesa nel senso che può includere le vittime indirette di un atto qualificato come reato intenzionale violento, quali i familiari stretti della persona deceduta a causa di tale reato, quando subiscono, di riflesso, le conseguenze di quest'ultimo» (punto 55): nessun dubbio, dunque, in forza di tale disposizione, che nella nozione di “vittima” rientrino anche i congiunti della persona uccisa;
  • tale definizione, peraltro, trova sostegno anche all'interno della direttiva 2012/29/UE, art. 2, para. 1, lett. a) (ii) e b), ove il concetto di “vittime” è esteso proprio ai familiari delle persone la cui morte è riconducibile ad un reato, intendendosi per “familiare” «il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima», istituendo la direttiva del 2012 norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato ed opportunamente richiedendosi, per ragioni di coerenza, che sussista un'unica definizione di questa categoria (su questo specifico richiamo della Corte alla direttività 2012 ci si soffermerà infra, nella sezione delle osservazioni);
  • passando alla limitazione operata dal legislatore italiano nell'ambito dell'art. 11, legge 7 luglio 2016 n. 122, senza più addentrarsi sull'identità delle possibili vittime secondarie richiamate, bensì optando per il riferimento ad un concetto di “parente stretto” colpito della tragica perdita del proprio congiunto, la sentenza Burdene pone l'attenzione, ai fini indennitari, sulle conseguenze pregiudizievoli in concreto patite dai famigliari richiedenti tutela;
  • ancora più nello specifico la Corte di Giustizia, nell'affrontare il tema delle esclusioni automatiche di parenti, afferma che i diritti nazionali, pur avendo facoltà in astratto di restringere il campo dei soggetti destinatari della tutela indennitaria, non possono farlo per principio, cioè a priori privando taluni familiari della possibilità di conseguire l'indennizzo, specie allorquando a livello interno «un giudice penale abbia concesso a tali familiari un risarcimento danni, per giunta non trascurabili, per il pregiudizio subito a causa della morte della persona che ha subito un reato intenzionale violento, ma l'autore del reato non sia in grado, a causa della sua insolvenza, di pagare esso stesso tale risarcimento»;
  • l'esclusione automatica, prosegue la pronuncia della Corte, è parimenti non consentita in forza di criteri di priorità istituiti dagli Stati membri, proprio come nel caso italiano, finalmente rispondendo al quesito principale posto dall'ordinanza veneziana nei seguenti termini   «un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può […] escludere automaticamente taluni familiari dal beneficio di qualsiasi indennizzo per il solo fatto che siano presenti altri familiari, senza che possano essere prese in considerazione considerazioni […] quali, in particolare, le conseguenze materiali derivanti, per tali familiari, dalla morte per omicidio della persona di cui trattasi o il fatto che detti familiari fossero a carico della persona deceduta o conviventi con essa»; infatti, è necessario tenere conto «della sofferenza e della gravità delle conseguenze del reato» (punto 65);
  • ciò affermato, e risiedendo l'unica soluzione percorribile nella rimozione della selezione imperniata sulla priorità tra famigliari, a prescindere - in maniera radicalmente incompatibile con gli obiettivi minimi perseguiti dal legislatore eurounitario - dalle conseguenze pregiudizievoli in concreto patite dai famigliari della vittima, la Corte d Giustizia chiude la sentenza con un principio  inequivocabile: «L'articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, dev'essere interpretato nel senso che: esso osta a una normativa di uno Stato membro che prevede un sistema di indennizzo per i reati intenzionali violenti che subordina, in caso di omicidio, il diritto all'indennizzo dei genitori della persona deceduta all'assenza di coniuge superstite e di figli di tale persona e quello dei fratelli e delle sorelle di quest'ultima all'assenza di detti genitori».

Nessun dubbio, dunque, può vertere sulla piena bocciatura, a 360°, da parte della Corte di Giustizia, della struttura “a cascata” recata dall'art. 11, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 122/2016 e retta sul ricorso alla logica della devoluzione successoria: di essa nulla potrà salvarsi, giustappunto dal modello a priorità discendenti sino al trattamento del danno (personale) dei congiunti alla stregua di un danno iure successionis.

Osservazioni

Il risultato cui è pervenuta la sentenza commentata non può che essere accolto positivamente, essendo numerosi i casi - a far data dall'entrata in vigore della legge n. 122/2016 - in cui congiunti certamente muniti di legittimazione per invocare una tutela statale a seguito della perdita subita, sono stati aprioristicamente esclusi per mera applicazione del criterio “a cascata” oggi censurato dalla Corte di Giustizia.

Tuttavia la piena condivisibilità del giudizio espresso dalla Corte non esime la sentenza Burdene da alcune considerazioni critiche, sia per un passaggio motivazionale non particolarmente felice (in occasione del richiamo alla nozione di “vittime” di cui alla direttiva 2012/29/UE) sia per la presenza di questioni - per vari motivi - non toccate dal giudice europeo, il quale avrebbe forse potuto, per connessione delle tematiche esaminate, discostarsi dalle strette maglie dei quesiti contenuti nell'ordinanza di remissione.    

Quanto al primo punto, l'elencazione dei congiunti di cui alla direttiva 2019/29/UE risulta certamente apprezzabile laddove amplia l'elencazione dei congiunti meritevoli di tutela, includendo - per esempio - parenti in linea diretta, fratelli e sorelle, nonché persone comunque a carico della vittima, ma nel fare ciò parimenti afferma una serie di principi dai quali la sentenza Burdene ben avrebbe dovuto discostarsi, anziché richiamarli: si tratta della facoltà per gli stati membri di stabilire procedure per limitare il numero di familiari ammessi a beneficiare dei diritti previsti dalla medesima direttiva.  

Dunque, parrebbe che in assoluto è consentito agli Stati membri di prevedere delle limitazioni rispetto agli aspiranti a conseguire l'indennizzo, essendosi la Corte UE espressa negativamente soltanto in merito allo specifico criterio adottato dall'art. 11 della legge n. 122/2026; eppure così non dovrebbe essere, tenuto conto che le previsioni di cui alla direttiva del 2012, ratione materiae, dovrebbero rimanere circoscritte ai diritti contemplati da quella specifica direttiva, la quale in alcun modo contempla sistemi di indennizzo statale simili a quelli di cui alla direttiva del 2004.

Fortunatamente, dopo tali (illogiche) considerazioni di cui ai punti 63 e 64, la sentenza sembra tornare sulla retta via ai punti successivi, fra cui il 66, ove certamente il novero dei soggetti indennizzabili si allarga a fronte del richiamo ai soggetti che penalmente potrebbe trovare una tutela risarcitoria nel sistema interno; tale prospettiva consente di includere tra i soggetti titolati ad ottenere l'indennizzo non solo le più frequenti ipotesi di un genitore, o di un fratello, richiedenti tutela, bensì anche di un nonno, di un parente collaterale o di un affine.

Nondimeno, si potrebbe ed anzi si dovrebbe andare anche oltre l'ipotesi contemplata dal punto 66, non convincendo nemmeno la limitazione dei soggetti legittimati al contesto dei partecipanti alla fase processuale penale, risultando più equo e tutelante il riferimento a tutti coloro i quali potrebbero azionare una richiesta risarcitoria in sede civile, non pregiudicando così chi, anche per strategia, ha scelto di non adire il giudice penale nazionale, o che pur avendolo fatto potrebbe non aver trovato soddisfazione a fronte dell'espletamento di riti alternativi: d'altronde un riferimento alla condanna risarcitoria in sede penale in alcun modo risulta dalla direttiva 2004/80/CE.  

In ogni caso, palese è la non conformità dell'art. 11, commi 2 e 2-bis, della legge n. 122/2016 alla direttiva del 2004, ciò stante l'adozione di un criterio di selezione automatica dei parenti privo non solo di un valido fondamento giuridico, ma anche di senso logico, e comunque in palese contrasto con gli obiettivi prefissati dalla direttiva cui si ispira, ciò nella misura in cui va ad escludere automaticamente l'indennizzo anche per famigliari strettissimi della vittima, sovente portatori di immani sofferenze.    

Un primo traguardo è stato dunque raggiunto; ma come anticipato, tale lodevole censura del predetto art. 11 non riesce a celare una serie di questioni non risolte da parte della sentenza Burdene, che meritano di essere brevemente esaminate.

L'esito della causa Burdene indubbiamente impone al legislatore interno di ripensare, e riscrivere, la norma censurata, frutto di un inadempimento da parte dello Stato e, in quanto tale, fonte di una responsabilità risarcitoria di quest'ultimo nei confronti di congiunti indebitamente estromessi dal versante indennitario.  

Eppure la Corte di Giustizia non ha preso posizione in ordine alla sussistenza della responsabilità da inadempimento dello Stato italiano, rimettendo la questione al giudice del rinvio, nonostante la sussistenza delle seguenti tre condizioni poste per l'affermazione della “responsabilità Francovich” della Presidenza del Consiglio:

1) il risultato prescritto dalla direttiva deve implicare l'attribuzione di diritti a favore dei singoli;

2) il contenuto di tali diritti deve potersi individuare sulla base delle disposizioni della direttiva, ossia la violazione deve risultare sufficientemente qualificata (o caratterizzata);

3) deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

Infatti, per quanto evincibile dalla direttiva stessa, dai suoi lavori preparatori e dai precedenti interventi della Corte di Giustizia, nonché a fortiori in ragione dei noti principi di diritto interno operanti in relazione alla tutela dei diritti risarcitori delle vittime secondarie, il legislatore interno aveva tutti gli strumenti per realizzare che con l'art. 11, legge n. 122/2016, si sarebbero violati quei precetti improntati alla corresponsione di un equo ed adeguato indennizzo statale per le vittime di reati violenti intenzionali, quali anche i congiunti nei casi di omicidi, ciò negli esatti termini di una violazione “qualificata” di cui alla responsabilità Francovich.

Ciò detto, se la risoluzione al primo quesito rimesso alla Corte di Giustizia sarebbe parso più completo laddove si fosse esteso alle possibili conseguenze risarcitorie per la Presidenza del Consiglio dei ministri, ancora meno apprezzabile è risultata la pronunciata irricevibilità del secondo quesito, motivato con il mancato ricorrere, nel caso di specie, di problematiche relative alle disponibilità economiche del Fondo di cui all'art. 14 della legge n. 122/2016 che abbiamo inciso sull'ammontare degli indennizzi corrisposti né tantomeno sul novero di famigliari esclusi.

Non ci si può esimere però dal rilevare che un accoglimento delle richieste indennitarie da parte dei famigliari della vittima di femminicidio ingiustamente esclusi, così come l'auspicata corresponsione in loro favore di indennizzi “equi” ed “adeguati” nel senso della direttiva  2004/80 almeno in astratto potrebbe eccome riflettersi, anche significativamente, sulle disponibilità del Fondo: ecco perché una pronuncia anche relativamente al quesito 2 sarebbe stata più che opportuna e per nulla fuori contesto.

Sul punto basti qui limitarsi a segnalare come risulti contraria all'obiettivo della direttiva 2004/80/CE di garantire indennizzi equi ed adeguati l'idea stessa che la tutela indennitaria, imposta dalla direttiva agli Stati membri a prescindere da questioni di finanza pubblica, possa soggiacere a limiti di esposizione dello Stato dovuti a mere ragioni di bilancio, limiti, peraltro, cangianti nel tempo e, quindi, incerti e variabili (con possibili disparità di trattamento fra vittime).

Insomma l'apprezzabile e condivisa sentenza Burdene per alcuni profili costituisce una sorta di “occasione persa” da parte della Corte di Giustizia, la quale - a fronte dei numerosissimi profili di censura della normativa exlegge n. 122/2016 - non potrà che tornare a prendere posizione sulle numerosi questioni ancora aperte, dalla titolarità dei soggetti invocanti la tutela indennitaria (solo in parte risolta dalla sentenza in commento) all'esiguità degli indennizzi ad oggi corrisposti (questione non approfondita dalla pronuncia Burdene, al pari di cosa era accaduto con la precedente sentenza del 2020, B.V., Corte giust. Ue, Grande Sezione, 16 luglio 2020, causa C-129/19, per quanto entrambe esplicitanti il concetto per cui legislatore comunitario ha imposto agli Stati membri un preciso obbligo di assicurare alle vittime degli indennizzi equi ed adeguati).   

Un primo pronunciamento perverrà verosimilmente a seguito del rinvio pregiudiziale da parte della Corte di Cassazione tramite l'ordinanza interlocutoria del 27 settembre 2024, n. 25872, avente per oggetto un caso simile, ma non coincidente, con quello di cui alla causa Burdene, originandosi il rinvio nuovamente da una fattispecie di congiunti esclusi dalla tutela indennitaria; la soluzione da parte della Corte di Giustizia sarà però interessante, ed a suo modo innovativa, riguardando quest'ultimo rinvio la specifica posizione dei nonni e, soprattutto, degli zii delle “vittime principali”, categorie non espressamente considerate dalla sentenza della Corte di Giustizia del 7 novembre 2024.

In conclusione la strada è ancora lunga e perigliosa per le “vittime secondarie” di reato, la cui nozione nel senso di persone concretamente pregiudicate dalle gravi conseguenze di un reato, ed il raffronto con la tutela che tali soggetti trovano a livello interno, potrebbe e dovrebbe condurre - tra il resto - a discutere anche della tutela indennitaria in favore dei congiunti non solo delle vittime di omicidi, ma anche di soggetti macrolesi, o vittime di stupro, dunque prescindendo dal profilo della sopravvivenza delle vittime primarie.

La sentenza qui commentata, per quanto ancora molto distante da quegli scenari, certamente si pone nella suddetta direzione, ossia del doveroso e necessario allargamento della tutela imposta dalla normativa eurounitaria verso tutta una serie di soggetti meritevoli di ristoro per le sofferenze patite, ingiustificatamente ed inspiegabilmente esclusi dal legislatore interno tramite un mero criterio automatico.   

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