Codice Penale art. 85 - Capacità d'intendere e di volere.

Geppino Rago

Capacità d'intendere e di volere.

[I]. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile [87].

[II]. È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere [70 s. c.p.p.].

Inquadramento

L'art. 85, rubricato come “capacità d'intendere e di volere” inaugura il Capo I del titolo IV del c.p. a sua volta rubricato come “della imputabilità” costituito da tredici articoli (artt. 85, 98) in cui il legislatore ha individuato una serie di status dai quali conseguono, ove presenti nel soggetto nel momento in cui delinque, determinati effetti.

La “capacità d'intendere e di volere” coincide con l'imputabilità in quanto, come stabilisce il secondo comma della norma in commento «è imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere».

C'è, innanzitutto, un gruppo di norme che, nel prendere in considerazione determinati status (art. 88: vizio totale di mente; art. 91, comma 1: ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore; art. 93: fatto commesso sotto l'azione di sostanze stupefacente; art. 95 cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; art. 96, comma 1: sordomutismo) in cui si trova il soggetto nel momento in cui ha commesso il fatto, stabiliscono la non imputabilità assoluta “per incapacità d'intendere e di volere”, ossia la non punibilità.

C'è poi, un gruppo di norme che, pur in presenza di quei particolari status si limitano a prescrivere la diminuzione della pena (art. 89: vizio parziale di mente; art. 91, comma 2: ubriachezza non piena; art. 96, comma 2; minore degli anni diciotto anche capace d'intendere e volere: art. 98).

C'è, ancora, un altro gruppo di norme che funge da aggravante: si tratta di quei casi in cui il legislatore ha voluto evitare che l'agente, appositamente, si procurasse uno stato d'incapacità al fine di commettere un reato e sfuggire alle conseguenze (artt: 87, 92, 93, 94).

C'è una norma (artt. 97) che stabilisce la non imputabilità assoluta per il minore infraquattordicenne indipendentemente da ogni accertamento sulla sua capacità d'intendere e volere.

Come si può quindi notare, l'imputabilità è stata strutturata come il genus all'interno del quale si trovano, da una parte, le norme raggruppate dentro il concetto della capacità d'intendere e volere (a loro volta, graduate o come vere e proprie cause di esenzione dalla punibilità, o come attenuanti o come aggravanti), dall'altra, una norma (l'art. 97) completamente sganciata dal suddetto concetto.

Già da questa breve ricostruzione della normativa, appare del tutto evidente che l'imputabilità, costituisce una delle pietre angolari del diritto penale: infatti, come si è visto, se manca, un soggetto, pur se nella sua condotta siano ravvisabili gli estremi di un qualsiasi reato, non può essere punito, fatta salva però, nel caso in cui risulti pericoloso socialmente (art. 203), l'applicazione, nei suoi confronti, di misure di sicurezza (artt. 199 ss. al cui commento si rinvia).

La ratio dell'imputabilità va rinvenuta per la dottrina (fra gli altri, Antolisei, PG, 1975, 495; Fiandaca-Musco, PG, 344; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 383) e giurisprudenza nel principio della responsabilità personale (art. 27 comma 1 Cost.), in base al quale un fatto, in sé antigiuridico, può essere rimproverato e, quindi, attribuito ad un soggetto solo se è stato commesso in una situazione in cui era pienamente cosciente del disvalore dell'atto e delle sue conseguenze: infatti, solo se il soggetto era compus sui nel momento del compimento del reato, la pena può svolgere la sua funzione rieducativa (art. 27, comma 3 Cost.) non avendo altrimenti senso alcuno la “rieducazione” di chi, non avendo la coscienza dei propri atti, non ha bisogno di essere rieducato non potendo neppure comprendere la ragione della pena inflittagli (Corte cost. n. 364/1988; Corte cost. 313/1990).

Ed è proprio in tale ottica che anche la Cass. S.U., n. 9163/2005, recependo la dottrina, hanno ritenuto che «la configurazione personalistica della responsabilità esige che essa si radichi nella commissione materiale del fatto e nella concreta rimproverabilità dello stesso. Il che è quanto dire che deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all'ambito della facoltà di controllo e di scelta del soggetto, al di fuori delle quali può prendere corpo unicamente un'ascrizione meccanicistica, oggettiva dell'evento storicamente determinatosi».

La capacità d'intendere e volere

L'imputabilità, come si è detto, è definita dall'art. 85 come “la capacità d'intendere e volere”.

Giurisprudenza e dottrina (Cass. I, n. 13202/1990; Cass. S.U. n. 9163/2005, cit.; Cass. I, 18458/2012; Antolisei, PG, 1974, 489; Fiandaca-Musco, PG, 347; Romano-Grasso, 14; Mantovani, PG, 1979, 577, Marini, § 11), sono concordi nel ritenere che:

a) la capacità di intendere consiste nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad «orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà», e quindi nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi "una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta;

b) la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto medesimo ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l'azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore «nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore» nella attitudine a gestire l'una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione", in sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum);

c) l'imputabilità, essendo la risultante di entrambi i suddetti concetti, dev'essere congiuntamente riferita ad entrambe tali attitudini, sicché, in mancanza anche di una sola delle stesse, deve ritenersi mancante;

d) deve sussistere un nesso eziologico tra la capacità d'intendere e volere e la condotta criminosa;

e) l'imputabilità deve sussistere in tutti e tre i momenti in cui si sviluppano il reato e le sue conseguenze: quello attuativo, quello del suo accertamento, quello della esecuzione della relativa sanzione penale (detentiva). La sua mancanza produce conseguenze diverse a seconda del momento cui interviene: nel primo momento, si ha la non punibilità dell'autore per mancanza di imputabilità; nel secondo, la sospensione del procedimento (artt. 70, 71, 125 c.p.p.); nel terzo, il differimento o la sospensione della esecuzione della pena (art. 148 c.p.): Cass. I, n. 1204/1983.

In relazione al secondo momento (quello accertativo), va rilevato che la Corte cost.  n. 45/2015, ponendo fine alla questione dei cd. eterni giudicabili, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 159, comma 1, c.p., nella parte in cui, ove lo stato mentale dell'imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile: il che comporta che il procedimento penale, per gli incapaci irreversibili, non è più soggetto alla sospensione illimitata nel tempo (come lo era, in virtù del combinato disposto degli artt. 159, comma 1, c.p. e 71 c.p.p.) in quanto, la prescrizione decorre regolarmente, sicché, una volta che sia maturata, il giudice dovrà dichiarare l'improcedibilità per estinzione del reato.

Casistica

La prima questione che il concetto di imputabilità (e, quindi, quello della capacità d'intendere e volere) pone è quello di verificare se le cause previste negli artt. 86 ss del c.p. sia o meno tassative, e cioè se oltre quelle in esse previste (vizio di mente, ubriachezza, ecc..) ve ne possano essere altre.

La dottrina maggioritaria (Fiandaca-Musco, PG, 346; Mantovani, PG, 1979, 578; Romano-Grasso, 8) ipotizzando casi come il selvaggio, i cd. uomini-lupo o quelli dei soggetti tenuti in segregazione fin dall'infanzia e poi liberati, oppure cresciuti in un isolamento socio culturale, impeditivo di un normale sviluppo intellettuale, sostiene che il concetto di non imputabilità dev'essere ad essi esteso per analogia.

In tal senso ha anche concluso la giurisprudenza (Cass. S.U. n. 9163/2005, cit.) secondo la quale gli artt. 88 e 89 c.p., per quanto nella specie interessa, costituiscono specificazioni e puntualizzazioni di quel generale principio, ponendo parametri normativamente predeterminati per la disciplina dell'istituto, unitamente ad altri (art. 95, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; art. 96, sordomutismo; artt. 97,98, l'età del soggetto, pur avvertendosi che le cause codificate di esclusione della imputabilità non possono considerarsi tassative).

A tale opinione si è, tuttavia, opposto che «il ragionamento analogico in materia penale, sia in bonam sia in malam partem, deve ritenersi comunque inammissibile [...]. Dato il valore attribuito alla capacità o all'incapacità naturalistiche, infatti, nella specie noi ci troviamo dinanzi non a lacune sostanziali dell'ordinamento, ma a discipline formalmente e sostanzialmente “complete” che, per motivi magari commendevoli, vengono giudicate non conformi a giustizia (sostanziale) [...] Va ancora aggiunto che, specie tenendo conto della disciplina dettata dal codice in materia di misure di sicurezza, informata al principio del loro perdurare sino alla cessazione della condizione di pericolosità sociale del soggetto, deve ancor oggi dimostrarsi che l'applicazione delle disposizioni dettate per i «non imputabili» sia più favorevole al reo di quella delle disposizioni dettate per i naturalisticamente capaci » (Marini, § 22).

Ulteriore problema si è posto in ordine ai reati a struttura complessa (reati continuati, permanenti, abituali) essendosi chiesto se la capacità d'intendere e volere si debba richiedere per tutti i reati o solo per il primo.

La soluzione che la dottrina (Romano-Grasso, 18) ha dato alla suddetta questione può essere riassunta in tali termini: a) reati permanenti: ove, al momento della consumazione iniziale, l'agente sia capace, il sopravvenuto stato d'incapacità, non esclude la punibilità; e, viceversa, alla stessa soluzione si perviene, ove, ad un iniziale stato d'incapacità, sopravvenga uno stato di capacità senza che l'agente faccia cessare il reato; b) reati abituali: si dovrà distinguere fra reato e reato, dovendosi quindi dichiarare la non imputabilità solo per quei reati in cui l'agente ha agito in stato di incapacità d'intendere e volere; c) reati continuati: vale la stessa soluzione per i reati abituali, nel senso che la capacità d'intendere e volere non può essere accertata e valutata in relazione a tutti i reati ma solo per ciascuno dei reati.

Alla stregua di tale linea interpretativa, Cass. IV, n. 5076/2019, ha ritenuto che «in materia di riparazione per ingiusta detenzione, fuori dalle ipotesi di ingiustizia formale del titolo, disciplinate dal comma 2 dell'art. 314 c.p.p., il diritto alla riparazione sorge solo in presenza di una delle formule di proscioglimento tassativamente previste dal comma 1 della citata norma, con la conseguenza che deve escludersi il diritto alla riparazione in caso di sentenza di proscioglimento per difetto di imputabilità per vizio totale di mente. ».

Profili processuali

L'accertamento dell'imputabilità

L'accertamento della capacità d'intendere e volere si sviluppa attraverso la seguente dialettica processuale:

il minore degli anni quattordici è presunto, iuris et de iure, incapace d'intendere e volere (art. 97 al cui commento si rinvia);

nei confronti del minore degli anni diciotto, l'imputabilità va accertata di volta in volta e l'obbligo di motivazione va sempre osservato (art. 98 al cui commento si rinvia);

il maggiorenne si presume iuris tantum, capace d'intendere e volere (ex plurimis, Cass. I, n. 5347/1993);

proprio perché la capacità d'intendere e volere, nel maggiorenne, si presume, il giudice non è tenuto ad effettuare, d'ufficio, accertamenti sull'imputabilità dell'imputato, salvo vi siano elementi per dubitare dell'imputabilità (Cass. III, n. 19733/2010; Cass. VI, n. 38454/2017;Cass. II, n. 50196/2018); grava, quindi, su costui, ove eccepisca di essersi trovato, al momento del fatto, in uno stato di incapacità d'intendere e volere (ad es. un malore improvviso: Cass. II, n. 50196/2018;  Cass. IV, n. 12149/1991; Cass. IV, n. 14357/1990); Cass. IV, n. 11142/2015 (con nota di Amato sulla collocazione del malore improvviso all'interno della teoria generale del reato), nel ribadire il suddetto principio, ha, però, rilevato che il malore, oltre che essere provato dev'essere anche imprevedibile, sicché ha affermato che la dedotta crisi ipoglicemica, dovuta al diabete mellito di tipo 2 di cui era affetto l'imputato, non poteva condurre all'esclusione della responsabilità per il sinistro occorso, essendo al medesimo ascrivibile la responsabilità di essersi posto alla guida proprio nelle ore in cui era più alto il rischio del verificarsi delle menzionata crisi ipoglicemica, tra l'altro viaggiando anche a velocità elevata), un onere di allegazione a seguito del quale il giudice, anche d'ufficio, deve riscontrarlo gravando sull'accusa l'onere della prova della sussistenza dell'imputabilità al momento del fatto (Cass. IV, n. 7652/1982; Cass. IV, n. 8357/1989; Cass. IV, n. 12149/1991);

La questione della rilevabilità d'ufficio, diventa importante in sede di appello. Sul punto, relativamente alla rinnovazione del dibattimento, ex art. 603 c.p.p. al fine di accertare la capacità d'intendere e volere dell'imputato (anche se dedotta con un motivo nuovo, di per sé inammissibile), la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere « ammissibile la richiesta di rinnovazione del dibattimento per disporre perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e volere dell'imputato anche nel caso in cui la decisione di primo grado sul punto non abbia formato oggetto di specifico e tempestivo motivo di gravame, in quanto l'accertamento dell'idoneità intellettiva e volitiva dell'imputato non necessita di richiesta di parte, potendo essere compiuto anche d'ufficio dal giudice di merito allorquando ci siano elementi per dubitare dell'imputabilità» (Cass. III, n. 25434/2016; Cass. VI, n. 8316/2019Cass. V, n. 1372/2022; contra: Cass. I, n. 33353/2015).

L'accertamento della capacità d'intendere e volere, dev'essere effettuato in relazione al tempo in cui è stato commesso il reato da giudicare, perché può ben darsi il caso che il vizio di mente, riscontrato in relazione ad un determinato reato, venga successivamente escluso in relazione ad altro reato (Cass. II, n. 50196/2018; Cass. IV, n. 3164/1996; Cass. VI, n. 1865/1992), e l'indagine già esperita in altro procedimento non è vincolante nel successivo giudizio poiché la malattia precedentemente diagnosticata può essere al momento guarita o attenuata o localizzata ad una determinata sfera di attività (Cass. II, n. 13778/2019;Cass, II, n. 50196/2018;Cass. I, n. 13010/1988);

ai fini dell'accertamento dell'imputabilità derivante da immaturità, l'indagine sulla personalità del minore non richiede necessariamente l'audizione di esperti o di soggetti che abbiano avuto rapporti con l'imputato — attività indicate dall'art. 9, comma 2, d.P.R. n. 448/1988, solo quali strumenti eventuali ai quali si consente il ricorso ove necessario a tali fini — ma può essere condotta in base a tutti gli elementi desumibili dagli atti e, tra questi, alle modalità del fatto, esaminate anche in considerazione dell'età del minorenne: Cass. V, n. 27243/2011;

per l'accertamento della capacità di intendere e di volere dell'imputato maggiore di età non è necessaria una specifica indagine tecnica, quando non risultino particolari stati patologici (Cass. I, n. 6234/1989): peraltro, ove vengano disposti più accertamenti peritali ed i medesimi siano contrastanti «il controllo di legittimità sulla motivazione del provvedimento concernente la capacità di intendere e di volere deve necessariamente riguardare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche; il che equivale a verificare se il giudice del merito abbia dato congrua ragione della scelta e si sia soffermato sulla tesi che ha creduto di non dovere seguire e, nell'effettuare tale operazione, abbia tenuto costantemente presenti le altre risultanze processuali e abbia con queste confrontato le tesi recepite»: Cass. V, n. 686/2013;

costituisce valutazione di fatto che compete esclusivamente al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata, stabilire se l'imputato, al momento della commissione del reato, fosse o meno imputabile (Cass. II, n. 34913/2013).

Infine, quanto alle modalità di accertamento ed ai rapporti con altri istituti giuridici, cfr. i §§ seguenti.

L'imputabilità nella sistematica del codice

Il commento all'art. 85 non può chiudersi se non si esamina una questione molto dibattuta che attiene alla natura giuridica dell'imputabilità e che può essere racchiusa nei seguenti interrogativi:

a) se l'imputabilità attenga o meno alla dogmatica del reo o del reato;

b) in caso di risposta affermativa, quali siano i rapporti fra imputabilità e colpevolezza.

Prima di illustrare le varie tesi che, in proposito sono state proposte, non si può prescindere dall'accennare, sia pure brevemente, al concetto di colpevolezza.

Il suddetto concetto è uno dei più sfuggenti e complessi di tutta la dogmatica del diritto penale perché, com'è stato ben evidenziato da autorevole dottrina (Pagliaro, 131 ss.), designa almeno tre entità diverse tra loro:

a) il principio di colpevolezza: «esso indica l'esigenza etica, in base alla quale deve considerarsi vietato al legislatore prevedere la punizione di fatti che non siano espressione dell'uomo come “persona”. Perciò occorrerà che il fatto punibile sia realizzato da un soggetto capace d'intendere e di volere; che il soggetto sia, nella situazione concreta, in grado di controllare, attraverso un suo possibile attivarsi finalistico, l'accadere esteriore in quegli aspetti che risultano offensivi dei beni protetti; che al soggetto si possa umanamente richiedere il comportamento conforme alla norma e che a lui non sia impossibile riconoscere la illiceità penale del fatto»: il suddetto principio (che riguarda solo gli illeciti sanzionati con una pena e non quelli sanzionati con misure di sicurezza) si desume dall'art. 27 comma 1 Cost. che va «inteso non soltanto nel significato minimo di “divieto di responsabilità per fatto altrui”, ma nel senso, ben più pregnante di responsabilità per fatto proprio colpevole [....] l'applicazione della pena presuppone l'attribuibilità psicologica del singolo fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto» (Fiandaca-Musco, PG, 325; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 307).

Per chiarezza è opportuno precisare che la definizione appena illustrata costituisce l'approdo ultimo della concezione c.d. normativa della colpevolezza intesa come un giudizio di rimproverabilità che l'ordinamento muove alla condotta antigiuridica tenuta dall'agente a seguito della quale si verifica una divergenza fra volontà e norma giuridica, sicché l'agente dev'essere giudicato non solo sulla base della volontarietà del fatto, ma anche sulla base dell'antidoverosità dell'agire valutata secondo il canone normativo. Tale concezione, a sua volta, costituì, il superamento della cd. concezione psicologica per la quale, essendo sufficiente, per la colpevolezza, solo il dolo o la colpa, sono irrilevanti le spinte interiori ed il carattere antidoveroso della volontà (sull'illustrazione della questione, fra gli altri, Fiandaca-Musco, PG, 330 ss.).

b) il concetto dogmatico di colpevolezza: sotto questo angolo visuale, che poi costituisce il riflesso del “principio di colpevolezza” (nel senso appena illustrato), la colpevolezza costituisce il terzo elemento della struttura del reato, insieme al fatto tipico (o gli elementi identificativi di ogni singola fattispecie di reato) ed alla antigiuridicità (intesa come assenza di alcuna causa di giustificazione);

c) la colpevolezza come parametro della gravità del reato: «in una ulteriore accezione, la colpevolezza viene indicata come elemento che fonda la pena (se si muove da una concezione retributiva o da una concezione di prevenzione generale allargata) oppure come elemento che limita, in vista di ragioni etiche, una pena che altrimenti potrebbe essere eccessivamente pesante (se si muove da una concezione di prevenzione speciale oppure di prevenzione generale ristretta, intesa cioè come mera deterrenza)».

Ai ristretti fini che interessano in questa sede, la nozione di colpevolezza alla quale si farà riferimento è quella indicata sub a).

Segue. L'imputabilità come teoria del reo

È questa la tesi sostenuta dall'Antolisei, PG, 1975, 256 ss. (ma anche, fra gli altri, da Crespi, 766; Marini § 6; Pagliaro, 56 ss), il quale, innanzitutto, parte da una concezione restrittiva della colpevolezza definendola come «l'atteggiamento antidoveroso della volontà che ha dato origine al fatto materiale richiesto per l'esistenza del reato». L'autore, in pratica, identifica la colpevolezza con l'elemento soggettivo o psicologico del reato (dolo e colpa), ossia in un atteggiamento della volontà dell'agente indice di «una manifestazione di indisciplina sociale. La violazione dell'obbligo, infatti, dimostra sempre la riluttanza dell'individuo ad adempiere le prescrizioni dell'ordinamento giuridico, ad obbedire ai dettami della legge».

Partendo da questo presupposto dogmatico, l'autore, quindi ritiene che, poiché le regole del dolo e della colpa (che formano la colpevolezza) si applicano anche alle persone non imputabili, l'imputabilità non può essere considerata un presupposto o un elemento della colpevolezza. Di conseguenza, «l'imputabilità è un modo d'essere, uno status delle persona: è una qualificazione soggettiva» che rientra, a tutti gli effetti, nella teoria del reo e non del reato.

La suddetta affermazione, riposa:

a) sul piano fattuale, sull'osservazione secondo la quale «il dolo e la colpa possono riscontrarsi anche nella condotta degli infermi di mente. Forse un ragazzo di tredici anni non può ferire un compagno intenzionalmente? Forse non può colpirlo per imprudenza maneggiando, ad esempio, una rivoltella carica?»;

b) sul piano normativo, sulle seguenti circostanza:

b1) «il codice Rocco, non si occupa dell'imputabilità a proposito dell'elemento soggettivo del reato, che è disciplinato negli artt. 42 ss., ma in sede del tutto diversa, e precisamente nel titolo IV del libro I che non riguarda il reato, bensì il reo»;

b2) «le norme che riflettono la riferibilità psichica del fatto all'autore (art. 42, 45 e 46 del codice) valgono in generale anche nei confronti delle persone non imputabili, giacché, per ovvie ragioni, non potrebbe essere applicata, ad esempio, la misura del riformatorio giudiziario ad un minore che sia stato costretto da altri a commettere un furto mediante violenza fisica irresistibile [...]»;

b3) gli artt. 222 e 224 «fissano dei minimi di durata che dipendono dalla gravità del reato. Ora, siccome per stabilire tale gravità nel sistema del nostro codice ha un peso decisivo l'elemento del dolo o della colpa, il giudice non può applicare quelle disposizioni senza accertare se il fatto compiuto dall'infermo di mente o dal minore sia doloso o colposo» perché, ove fosse dovuto solo a colpa non si potrebbe applicare alcuna misura di sicurezza;

b4) negli artt. 86, 111, 648 il quale «qualifica come “reato” o “delitto” il fatto commesso dalla persona non imputabile»;

Le conseguenze della suddetta tesi sono, quindi, le seguenti:

a) l'imputabilità non fa parte della colpevolezza (ossia dell'elemento soggettivo del reato), ma della teoria del reo;

b) la mancanza di imputabilità costituisce semplicemente «una causa personale di esenzione da pena»;

c) il reato rimane integro in tutti i suoi effetti proprio perché l'imputabilità è posta al di fuori della sua struttura.

Segue. L'imputabilità come teoria del reato

La suddetta tesi (Fiandaca-Musco, PG, 339; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 308; Mantovani, PG, 1979, 262 ss; Romano-Grasso, 4 ss.) parte dal presupposto, come si è detto (v. supra), che l'imputabilità costituisce un elemento della colpevolezza: «è colpevole un soggetto imputabile, il quale abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere necessitata l'azione illecita» (Fiandaca-Musco, PG).

Questa tesi non contesta che il sistema penale riferisca il dolo e la colpa anche alla condotta degli incapaci di intendere e volere.

Piuttosto, osserva in contrario a quanto sostenuto dall'altra tesi, che, nei casi di errori patologici (cioè dipendenti dalla stessa causa che determina la non imputabilità: ad es. il paranoico che uccide il suo presunto persecutore perché crede che stia per assassinarlo) o di totale sfacelo della psiche (schizofrenie deliranti, psicosi alcooliche) «non ha senso alcuno parlare di atteggiamenti psichici di volontà, di disattenzione, di imprudenza, di imperizia. E poiché il fatto non costituirebbe reato per difetto assoluto di colpevolezza, l'imputato dovrebbe essere prosciolto senza sottostare ad alcuna misura di sicurezza e con grave pregiudizio della difesa sociale. Così il paranoico, che uccide il presunto persecutore, potrebbe invocare la legittima difesa putativa ed essere prosciolto perché il fatto non costituisce reato» salvo l'eventuale trattamento obbligatorio sanitario a norma della l. n. 180/1978 (Mantovani, PG, 1979, 264).

Questa tesi, sostiene, quindi, che, poiché l'imputabilità fa parte della colpevolezza, senza imputabilità non vi può essere colpevolezza.

Resta, però, il problema degli incapaci d'intendere e volere che, a stretto rigore, dovrebbero rimanere al di fuori di tale teorica.

Pertanto, al fine di individuare l'elemento soggettivo che colleghi il fatto anche al soggetto non imputabile, la suddetta tesi (Mantovani, PG) è ricorsa ad una nozione dell'elemento soggettivo ancora più vasta della colpevolezza che ha denominato come “appartenenza psichica del fatto all'agente” e che si atteggia diversamente a seconda che si prenda in considerazione i soggetti imputabili o quelli non imputabili.

Nel caso dei soggetti imputabili, la riferibilità psichica corrisponde alla colpevolezza: di conseguenza, essi non sottostanno ad alcuna conseguenza penale se non hanno realizzato il fatto con dolo.

Nel caso di soggetti non imputabili, la colpevolezza è inconcepibile: infatti, mancando essi della capacità d'intendere e volere (ed essendo, quindi, per assioma, incolpevoli), il reato sarà loro riferibile sulla base della semplice commissione del fatto/reato, senza che vi sia alcuna necessità di indagine sul dolo o sulla colpa che, degradando a meri stati psichici (Fiandaca-Musco, PG, 341), non sono valutabili sotto il profilo giuridico di cui all'art. 42 che, invece, presuppone l'attribuibilità psichica di una singola azione al suo autore: il fatto, in tale caso, assume rilievo non tanto come reato ma come sintomatico della pericolosità sociale in base alla quale scattano le norme sulle misure di sicurezza.

Unica eccezione a tale meccanismo è quella della presenza di cause esterne che possono far sì che il reato non sia neppure riferibile al soggetto non imputabile, nelle seguenti ipotesi:

1) cause che escludono la suitas in capo al soggetto sebbene non imputabile (costringimento fisico, delirio febbrile, forza maggiore ecc.);

2) cause che, nella concreta fattispecie, comunque escluderebbero la riferibilità psichica dell'evento anche ad un qualsiasi soggetto imputabile, come ad es, nel caso di reato compiuto da un inferno per errore non dovuto alla infermità psichica e scusabile, quindi, come tale, in chiunque.

È opportuno rilevare che entrambe le teorie concordano nel ritenere che l'imputabilità è uno status personale e che proprio questa caratteristica consente di distinguere la “capacità di intendere e volere” di cui all'art. 85 dalla “coscienza e volontà” di cui all'art. 42 che, contrariamente alla prima riguarda, come si è detto, «il rapporto specifico tra volontà del soggetto ed un determinato atto» (Mantovani, PG, 1979, 273; Fiandaca-Musco, PG, 341).

Le conseguenze di questa tesi sono quindi che:

a) l'imputabilità fa parte della colpevolezza (ossia dell'elemento soggettivo del reato), e, quindi, della teoria del reato;

b) senza imputabilità non vi è colpevolezza e, quindi, non vi è reato né pena ma solo misure (di sicurezza) atte a difendere la società (Romano-Grasso, 4 ss.).

Segue. La posizione della giurisprudenza

In giurisprudenza non si rinvengono elaborate prese di posizione sull'una o sull'altra tesi.

A tal proposito occorre considerare che il problema principale di fronte al quale il giudice si trova è quello di stabilire se l'imputato sia o meno capace d'intendere e volere perché, ove l'accertamento abbia esito positivo, le conseguenze fissate dalla legge sono notevoli: a) l'imputato dev'essere assolto con la formula “perché non imputabile” (art. 530 c.p.p.; non luogo a provvedere ex art. 425 c.p.p.: Cass. VI, n. 38579/2008); b) l'assoluzione per difetto di imputabilità preclude l'esperibilità delle azioni civili derivanti da fatto illecito: Cass. VI, n. 11072/1989; c) a seconda che l'imputato sia dichiarato socialmente pericoloso si applicano le misure di sicurezza.

Questo preciso contesto normativo, fa sì che la giurisprudenza abbia ben chiaro quali siano i rapporti fra imputabilità ed elemento psicologico del reato, o meglio quale ruolo abbia l'imputabilità nella dinamica processuale.

Si afferma, innanzitutto, conformemente alla dottrina, che l'imputabilità è un modo di essere della persona, uno status che consente ad un uomo di rendersi conto del valore sociale dei suoi atti e non sia affetto da anomalie psichiche che gli impediscano di autodeterminarsi (supra § 3).

Si ritiene, poi, che l'imputabilità, proprio per le notevoli conseguenze pratiche di cui si è detto, dev'essere comunque accertata ma che l'eventuale esito positivo dell'indagine non può precludere la valutazione del fatto-reato secondo i normali canoni perché anche il non imputabile:

a) può non avere commesso il reato (in tal caso dev'essere prosciolto per non avere commesso il fatto): Cass. VI, n. 38579/2008; Cass. VI, n. 14795/2020; Cass. I, n. 507/1993, secondo le quali secondo le quali il giudice può addivenire al proscioglimento dell’imputato per incapacità di intendere e di volere solo dopo aver accertato la configurabilità, in termini materiali e di colpevolezza, del reato attribuito all’imputato stesso.

In giurisprudenza, poi, si legge frequentemente la seguente massima: «L'imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda»: Cass. VI, n. 16260/2003; Cass. VI, n. 47379/2011; Cass. VI, n. 4292/2015; Cass. I, n. 7487/2022. Questo principio, con tutta evidenza, si lega direttamente alla più decisa affermazione secondo la quale «l'imputabilità del soggetto, riguarda la capacità di diritto penale» al contrario del dolo che rappresenta la volontà del soggetto diretta verso l'evento ed appartiene alla struttura del reato di cui costituisce un elemento attuale ed operante (Cass. I, n. 385/1969).

Il suddetto principio, indubbiamente, echeggia la tesi dell'Antolisei, ma si tratta di affermazione che resta sullo sfondo della problematica concreta che, di volta in volta, la Corte ha dovuto affrontare e cioè casi in cui occorreva stabilire se il comportamento del non imputabile fosse a lui attribuibile perché dovuto alla sua “incapacità” (con conseguente assoluzione perché non imputabile) oppure come conseguenza di comportamenti “normali” (con conseguente assoluzione con le altre formule di rito).

In altri termini, quello che emerge dall'esame della giurisprudenza è che la questione teorica che si è illustrata non è considerata di natura così dirimente da comportare una decisa presa di posizione a favore dell'una o dell'altra tesi: quello che è ben chiaro alla giurisprudenza è che la non imputabilità non può essere considerata come una causa che, se accertata, avvia automaticamente il processo alla sua definizione con la formula di assoluzione “perché non imputabile”, come se fosse una causa di estinzione del reato (prescrizione; amnistia).

La non imputabilità, infatti, gioca il suo ruolo su due distinti piani:

a) quello processuale: il processo può iniziare solo se l'imputato è capace d'intendere e volere: e questo è un accertamento certamente preliminare ad ogni altro perché determina la sorte del processo e cioè se il medesimo deve iniziare o deve concludersi con una sentenza di proscioglimento: in tale ottica, infatti, la giurisprudenza ritiene che la norma di cui all'art. 70 c.p.p. si applichi anche al patteggiamento (Cass. VI, n. 3823/1998 ; Cass. VI, n. 7530/2016; Cass. VI n. 38454/20147Cass. I, n. 12774/1995). Sul punto vedi retro.

b) quello sostanziale: se l'imputato è capace di partecipare al processo, questo dev'essere celebrato come un normale processo anche al fine di appurare se e in che termini il reato addebitatogli sia o meno dovuto alla patologia da cui risulti affetto: questo principio vale anche per il patteggiamento (ovviamente, nei limiti del medesimo e cioè con delibazione sommaria: Cass. VI, n. 3823/1998; Cass. VI, n ,. 38454/2017; Cass. V, n. 19390/2021) e per il rito abbreviato che può essere condizionato all'espletamento di una perizia finalizzata all'accertamento dell'incapacità di intendere e di volere (Cass. VI, n. 17687/2014). A tale principio si fa eccezione in presenza della causa estintiva dell'amnistia la quale, precludendo un giudizio sulla responsabilità, «deve prevalere rispetto alla pronuncia di non luogo a procedere ex art. 88 c.p. che presuppone la materiale riferibilità del fatto all'imputato» (Cass. I, n. 2910/1991).

Sotto questo profilo, quindi, il non imputabile può essere assolto per incapacità d'intendere e volere solo se, all'esito del processo, risulti che egli ha commesso il reato a causa della patologia da cui era affetto in quel determinato momento: con il che resta sdrammatizzato anche l'unico punto vero di frizione, sul piano pratico (quello secondo il quale «il paranoico, che uccide il presunto persecutore, potrebbe invocare la legittima difesa putativa ed essere prosciolto perché il fatto non costituisce reato»), fra le due tesi illustrate in quanto, sulla base dell'appena descritto procedimento logico che il giudice è tenuto a seguire, non potrà mai accadere, in concreto, che il paranoico che invochi la legittima difesa putativa, possa essere assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato” ed essere assimilato, quindi, all'imputato imputabile e capace d'intendere e volere: sarà sempre infatti l'accertamento in fatto che consentirà di stabilire, anche nei casi limite dell'errore putativo, se il reato sia stato commesso dall'imputato come effetto della sua patologia oppure perché, pur incapace, sussisteva, in effetti, una determinata situazione scriminante.

Bibliografia

Amato, Omicidio colposo, incidente automobilistico, colpa, malore improvviso, in Riv. It. Med. Leg. 2015, 597; Crespi, voce Imputabilità (diritto penale), in Enc. dir., XX, Milano, 1970; Marini, Imputabilità, in Dig. d. pen., VI, Torino, 1992; Pagliaro, Il reato, in Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, Milano, 2007.

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