Codice Penale art. 88 - Vizio totale di mente.InquadramentoGli artt. 88, 89 disciplinano il vizio di mente. Il suddetto vizio, se accertato, determina, nell'agente, uno stato d'incapacità d'intendere e volere e, quindi, di non imputabilità, totale (art. 88) o parziale (art. 89), a norma dell'art. 85 di cui costituisce specificazione ed applicazione concreta. Nozione: il vizio di mente può definirsi come «qualsiasi alterazione, dotata di determinata entità, delle facoltà intellettiva o volitiva o di entrambe, riscontrabile nell'agente» (Marini § 13). Requisiti: il vizio di mente è penalmente rilevante, se ricorrono i seguenti requisiti: a) nesso cronologico: il vizio deve sussistere «nel momento in cui [l'agente] ha commesso il fatto»: quindi, il vizio, oltre che permanente, può essere anche transitorio; b) nesso eziologico: il vizio di mente dev'essere stata la causa del reato commesso (Cass. S.U., n. 9163/2005); c) causa patologica: il vizio di mente deve derivare da una “infermità”: sul punto, Cass. S.U., n. 9163/2005 cit. hanno chiarito che il rinvio che il legislatore ha fatto al concetto di “infermità” è stato effettuato «con tecnica di «normazione sintetica», adottando, cioè, «una qualificazione di sintesi mediante l'impiego di elementi normativi..., rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice». In sostanza, "così operando, il legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)». Ciò, in pratica significa che il concetto di infermità che, poi, in definitiva assume un ruolo chiave per stabilire la sussistenza o meno dello stato di imputabilità, va trovato in fonti esterne ed esattamente nell'ambito di quel settore della scienza medica che studia le patologie psichiatriche. Conseguenze: se il processo accerta che l'imputato, al momento del fatto, si trovava in stato d'incapacità, dev'essere assolto ma nei suoi confronti, se riconosciuto pericoloso, vanno applicate le misure di sicurezza. Il concetto di infermità mentale nella scienza psichiatricaCome si è anticipato nel precedente paragrafo, il vizio di mente che la norma in commento prende in considerazione ai fini penalistici, è quello che deriva dalla “infermità”, concetto questo di cui il legislatore non ha dato alcuna nozione rinviando, quindi, «ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)». Cass. V. n. 35044/2021, ha, sul punto, precisato che «Il termine "infermità" descrive un elemento normativo delle fattispecie configurate dalle due disposizioni citate che rinvia ad una realtà valutativa dettata da una norma extra-giuridica, il cui contenuto, per la stessa natura del suo oggetto, non può prescindere dall'acquisizione di saperi scientifici che non competono al giudice. L'apporto specialistico finalizzato all'accertamento del requisito normativo, tuttavia, non necessariamente deve essere veicolato attraverso la disposizione di una perizia, ben potendo il giudice affidarsi anche a contributi tecnici, comunque, idonei a rivelare nei termini indicati l'esistenza e la consistenza dell'affezione». Quindi, cosa significa “infermità” mentale? Si tratta di un concetto sfuggente che è cambiato nel corso dei secoli e la cui nozione è fortemente influenzata dalle diverse opzioni ideologiche che ne stanno alla base. Non è questa la sede, per illustrare, in modo approfondito, l'evoluzione che, nella scienza psichiatrica, si è avuta sulla nozione di infermità mentale. Tuttavia, è necessario accennare alle varie tesi che si sono succedute perché le medesime hanno un'immediata ricaduta sul concetto giuridico del vizio di mente. A tal fine, riportiamo, qui di seguito, la sintesi delle suddette concezioni effettuata da Cass. S.U., n. 9163/2005. Nozione medico-organicistica: «Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell'ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l'infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità «certa e documentabile» escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che intanto un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l'altro, che l'accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborato dalla scienza psichiatrica, nel «quadro - tipo di una determinata malattia» (per cui «quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro - tipo di una data malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente»: così, ad esempio, Cass. I, n. 930/1979). Pur nell'ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di monte è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall'accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, «se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica clinicamente accertabile...»: così Cass. I, n. 9739/1997)». Nozione psicologica: «agli albori del '900, sotto l'influenza dell'opera freudiana (e con la scoperta dell'inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, «privo di confini fisiologicamente individuabili attraverso l'esame dei tre livelli della personalità: l'Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l'Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisco al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la «coscienza sociale» e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell'apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell'apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna« e, »quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale". Il concetto di infermità quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell'attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi dell'affettività: oggetto dell'indagine, quindi, non è più la persona - corpo, ma la persona - psiche». Nozione sociologica: «Intorno agli anni '70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell'ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell'infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità, di mente come «malattia sociale». Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l'esistenza della malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. «antipsichiatria», o «psichiatria alternativa»)». Nozione sincretica: «Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un «modello integrato» della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di «una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia» in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione «multifattoriale integrata». In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l'eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica) e contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico — strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di «una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione». In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il Dsm - IV, o l'Icpc o l'Icd - 10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici. È stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l'altro, un approccio il più possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchie rigidi schemi nosografici». Il concetto di infermità mentale nella giurisprudenzaLe incertezze e i contrasti supra illustrati, nell'ambito della scienza psichiatrica, si riflettono in quello giudiziario nel quale possono individuarsi due grandi filoni interpretativi. Quello tradizionale restrittivo, che si ispira e fa proprie le conclusioni della tesi medico-organicistica: secondo tale indirizzo interpretativo l'infermità dalla quale consegue l'incapacità d'intendere e volere è solo quella che deriva da alterazioni mentali riconducibili ad una malattia che trovi il suo riscontro nella nosologia psichiatrica, sicché tutte le anomalie psichiche, non integrando un vero e proprio stato patologico, resterebbero al di fuori della dell'ambito operativo degli artt. 88,89, rientrando piuttosto in quello dell'art. 90 e, quindi, prive di rilevanza giuridica: ex plurimis, Cass. I, n. 16940/2004, Cass. III, n. 22834/2003, Cass. VI, n. 26614/2003, Cass. I, n. 10422/1997, Cass. V, n. 1078/1997, Cass. I, n. 7523/1991, Cass. I, n. 13202/1990. Quello estensivo che, contestando che la nozione di vizio mentale (in senso giuridico) possa essere assimilata tout court a quella psichiatrica, fa ricorso ad una nozione più ampia ed ingloba in essa anche tutti quei disturbi psichici ritenuti irrilevanti dalla tesi restrittiva a condizione che: a) quel disturbo si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico sia pure transitorio, anche se non inquadrabile in una precisa classificazione nosografica; b) sia d'intensità tale da escludere la capacità d'intendere e volere (totale o parziale): ex plurimis Cass. I, n. 33130/2004, Cass. I, n. 19532/2003, Cass. VI, n. 22765/2003, Cass. I, n. 31753/2003, Cass. I, n. 15419/2002, Cass. I, n. 967/1997, Cass. VI, n. 7845/1997. Quest'ultima tesi è stata fatta propria da Cass. S.U. , n. 9163/2005, cit., attraverso i seguenti passaggi logici: a) gli artt. 88 e 89 c.p. fanno riferimento non già ad una «infermità mentale», ma ad ma «infermità» che induca il soggetto «in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere» o da farla «scemare grandemente» (gli artt. 218 e 222); b) il concetto di «infermità» non è del tutto sovrapponibile a quello di «malattia», risultando, rispetto a questo, più ampio. Infatti, secondo l'elaborazione giurisprudenziale, in relazione all'art. 582 (che contiene la locuzione “malattia nel corpo o nella mente”), il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte: il concetto di malattia, indica, quindi, un concetto dinamico, un modo di essere che in un certo momento ha avuto inizio. Al contrario, il termine «infermità», indica la condizione di chi è ammalato, invalido. In particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che colpisce una persona, o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte (difetto fisico, menomazione, insufficienza, deficienza; inadeguatezza): tale termine, quindi, esprime un concetto statico, un modo di essere senza alcun riferimento al tempo di durata, sicché, in sostanza, la nozione medico — legale di “malattia di mente” viene identificata nell'ambito della più vasta categoria delle 'infermità, riconoscendosi un valore generico al termine infermità e un valore specifico al termine malattia; c ) pertanto - in linea con il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il Dsm (acronimo di Diagnostic and Statistical Manual of Mental che, nella V edizione, ha aggiunto ulteriori disturbi mentali) - le Sezioni Unite hanno concluso che, anche ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente purché siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Deve, cioè, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, e conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Di conseguenza, non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre «anomalie caratteriali», disarmonie della personalità«, »alterazioni di tipo caratteriale«, »deviazioni del carattere e del sentimento« quelle legato »alla indole« del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto. Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all'art. 90 c.p., salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di »infermità", avente le connotazioni sopra indicate. È opportuno rammentare che, come ulteriore condizione, è necessario che ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale, che deve appunto essere ritenuto idoneo ad alterare non l'intendere, ma il solo volere dell'autore della condotta illecita (sul punto, si rinvia al commento dell'art. 85: «in altri termini ciò che gli artt. 88 e 89 c.p. impongono di accertare è se il rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo "settoriale"), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta [….] nel determinare la menzionata efficienza causale si deve avere riguardo non solo all'infermità ed alla sua gravità, ma altresì alle modalità del caso concreto, al fine di apprezzare l'eventuale incidenza del turbamento mentale sulla commissione del reato»: Cass. V. n. 35044/2021. In conclusione, si può affermare che: a) infermità di mente: rientrano in tale categoria e determinano pacificamente, una volta accertate, l'incapacità di intendere e volere (ex plurimis: Cass. I, n. 4954/1993; Cass. VI, n. 24614/2003): a1) le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie (es. oligofrenia; demenza); a2) le malattie derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura (ad es. deficit cognitivi derivante da traumi cranici); Cass. I, n. 1668/2019 ha affermato che «l'epilessia non costituisce di per sé una malattia comportante un permanente stato di infermità mentale, atteso che l'incapacità di intendere o di volere è ravvisabile in chi ne è affetto soltanto nel momento della crisi epilettica, mentre nei periodi extra-accessuali il malato conserva piena lucidità e completa consapevolezza delle proprie azioni»; a3) le psicosi acute o croniche (es. schizofrenia; paranoia), contraddistinte da un complesso di fenomeni psichici (deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, catatonia) che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità; a4) le patologie cerebrali derivanti da malattie degenerative (es. morbo di Alzhaimer che costituisce una patologia degenerativa del sistema nervoso; tumori cerebrali maligni; malattia di Huntington ecc.). b ) disturbi della personalità: in questa categoria sono ricompresi gli psicopatici disforici, impulsivi, labili d'umore, litigiosi, querulanti e querulomani, le personalità psicopatiche asociali, le personalità sociopatiche, i disturbi antisociali di personalità: tutti questi disturbi possono o meno determinare l'incapacità se siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Si tratta, quindi, di un accertamento di fatto sicché diventa inutile effettuare una casistica giurisprudenziale. Infatti, una ricognizione della casistica poteva essere utile prima della sentenza delle Sezioni Unite, in quanto serviva quantomeno ad individuare quei casi che, almeno secondo la tesi restrittiva, non rientravano comunque nell'ambito degli artt. 88, 89. Dopo la sentenza delle Sezioni Unite, una stessa abnormità psichica può essere rilevante o irrilevante a seconda della gravità della medesima e di come ha influito sulla capacità d'intendere e volere. E così, a solo titolo esemplificativo, possono o meno rientrano in questa categoria: la gelosia (Cass. I, n. 28561/2022; Cass. VI, n. 12621/2010), la cleptomania (Cass. II, n. 43923/2013 ; Cass. V, n. 153/2021), la ludopatia (Cass. I, n. 52951/2014; Cass. II, n. 45156/2015; Cass. VI, n. 33463/2018 ; di florio ), il disturbo di mancanza di controllo degli impulsi (Cass. IV, n. 36190/2007; Cass. I, n. 35842/2019; c ) anomalie caratteriali: in questa categoria rientrano tutti quei disturbi della personalità che, a causa di una situazione conflittuale dovuta a particolari tensioni psichiche, determinano un'accentuazione di alcuni tratti del carattere del soggetto, inducendolo, a tenere una condotta anomala. Esempi classici, sono considerate le nevrosi e le psicopatie. Le nevrosi consistono in una modalità di relazione disturbata del soggetto con l'ambiente, tale da determinare la sua incapacità di relazionarsi agli altri e all'ambiente che lo circonda (ad es. disturbi psicosomatici, nevrosi fobica, nevrosi isterica, nevrosi d'ansia, nevrosi ossessiva). La psicopatia consiste in un deficit di empatia e di rimorso che si manifesta, normalmente, nelle personalità egocentriche e megalomani che simulano emozioni, pur non provando alcun rimorso per le proprie azioni: rientrano, quindi, in questa categoria i deficit di relazioni interpersonali, emozionali e comportamentali, ossia i disturbi antisociali di personalità. Le caratteristiche di entrambe le suddette patologie è che, sebbene il rapporto con la realtà risulti essere disturbato e difficile da gestire, tuttavia c'è ed esiste, al contrario della psicosi in cui la relazione con la realtà è di fatto gravemente compromessa o addirittura inesistente. Tali disturbi non rientrano nell'ambito degli artt. 88,89 in quanto si ritiene che non siano di entità tale da incidere sulla capacità d'intendere e volere: Cass. I, n. 4954/1993 (quanto alle nevrosi e alle psicopatie); Cass. I, n. 23295/2014 (quanto alle cd. reazioni a "corto circuito”, ossia quelle condizioni a carattere transitorio, comunque riconnesse ad una condizione di perturbamento psichico di natura non patologica, riferibili ad uno stato emotivo e passionale); Cass. I, n. 17853/2009 (quanto alla organizzazione borderline della personalità con tratti istrionici e paranoidei); Cass. V, n. 8282/2006 (quanto al disturbo antisociale della personalità); Cass. III, n. 34785/2011 (quanto ai momentanei deficit mnemonici); Cass. I, n. 35842/2019; Peraltro, è il caso di rilevare che se la linea di confine fra le infermità di mente (sub a) e le altre categorie (sub b, c) è molto netta, al contrario, è labile quella fra i disturbi della personalità e le cd. anomalie caratteriali, sia perché, in ambito psichiatrico le une e le altre vengono spesso accomunate nell'ampia categoria delle psicopatie, sia perché non si può affatto escludere che l'uno o l'altro disturbo possano, a seconda la gravità dei casi, transitare dall'una all'altra categoria. La conclusione è pertanto che, solo un'attenta disamina della concreta fattispecie che, nei casi di confine fra l'una e l'altra categoria, non può prescindere dall'apporto dei periti, può stabilire se l'imputato si trovava, al momento della commissione del reato, in uno stato di totale o parziale vizio di mente: non pare, quindi, possibile, stabilire in via aprioristica — proprio alla stregua di quanto statuito dalle Sezioni Unite — se un determinato disturbo rientri o meno nel vizio di mente. Tale linea interpretativa è stata ribadita da Cass., I, n. 28964/2021, che, a fronte del dedotto disturbo borderline - narcisistico anche in presenza del sensibile deficit intellettivo dal quale l'imputato era affetto, ha ritenuto non applicabile né l'art. 88 né l'art. 89 cod. pen. rilevando che «E' pur vero che anche i disturbi di personalità possono rientrare nel concetto di "infermità", ma gli stessi devono essere di tale consistenza, intensità e gravità da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere del soggetto, escludendola o facendola scemare grandemente in presenza pur sempre di un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta criminosa, mentre nessun rilievo può riconoscersi ad altre anomalie caratteriali o alterazioni o disarmonie della personalità prive dei suddetti caratteri, nonché agli stati emotivi e passionali che non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità», infermità non riscontrabile nel caso di specie (omicidio) in quanto «"il profilo genetico dell'imputato, secondo la terminologia adoperata dal consulente della difesa, altro non è che la sua indole, frutto delle sue drammatiche esperienze di vita, che ha segnato negativamente i tratti della sua personalità, senza dar luogo, tuttavia, né a una vera e propria malattia di mente, né ad anomalie di tale intensità da escludere e neppure scemare grandemente la capacità di intendere e di volere». Le neuroscienze e l'imputabilità in dottrinaIn tutto il complesso dibattito che si è cercato di illustrare nei paragrafi precedenti, hanno, però, fatto irruzione, in modo fragoroso, le neuroscienze con modalità di approccio così innovative da determinare, ove il nuovo metodo dovesse consolidarsi, un ripensamento di tutta la problematica (per un’ampia ed organica disamina della problematica: Grandi). La neuroscienza è quella branca della medicina che studia il sistema nervoso in modo interdisciplinare avvalendosi degli studi di chimica, genetica, biologia e, comunque, di ogni branca della scienza che sia utile a comprendere i meccanismi del funzionamento del cervello umano e, quindi, del comportamento, dell'apprendimento, della memoria, della percezione ecc. «Le tecniche di neuroimaging ricostruiscono tridimensionalmente la struttura e la funzione del cervello, producendo, attraverso potenti calcoli elaborati da moderni computer, le cosiddette “neuroimmagini”» il che consente, da una parte, di scoprire eventuali anomalie anatomiche, dall'altro, tramite l'iniezione nel sangue del cervello di una cd. “radio-traccia” di «valutare l'associazione delle immagini con particolari azioni o reazioni a stimoli». «Le ricerche sulle patologie dei lobi frontali hanno rappresentato un primo importante passo: è stato dimostrato che le lesioni della corteccia prefrontale del cervello comportano più o meno rilevanti modifiche della percezione della realtà sociale da parte del soggetto e che questo comporta una sostanziale modifica delle capacità di discernimento. L'esame del lobo frontale sembra permettere una più chiara valutazione dei correlati neuronali della coscienza, determinanti per la pianificazione dell'atto criminale o per il controllo degli impulsi della persona. Tutto ciò, ovviamente, rileva nel senso di minare l'idea stessa di agire deliberato, che è uno dei presupposti dell'intero sistema del diritto penale, sula cui sussistenza si basano anche le eventuali eccezioni, rappresentate dall'infermità mentale, nelle sue svariate manifestazioni» (Santosuosso-Bottalico, 26). «Di fronte al nuovo sapere la tradizionale suddivisione dei disturbi mentali, che portava a considerare vere e proprie infermità solo le psicosi, in quanto disturbi organici clinicamente accertabili, e ad escludere le psicopatie, le nevrosi o i disturbi della personalità per la ragione opposta, diventa obsoleta; anche nei disturbi atipici (fino al quel momento denominati come disturbi funzionali in contrapposizione ai disturbi organici), sono stati, infatti, evidenziati i correlati neuronali e quindi una base genetica. Allo stato attuale è possibile quasi per ogni disturbo psichico riscontrare un'alterazione cerebrale, che può essere di tipo strutturale o di tipo funzionale [...] Le tecniche di neuroimaging, in definitiva, sarebbero in grado di individuare le componenti neurobiologiche del comportamento decisionale e comportamentale di tipo automatico e involontario, ma anche di riscontrare una base neuronale persino nel giudizio morale. In altri termini, nel cervello del soggetto sano e in quello del soggetto disturbato queste funzioni opererebbero in modo diverso, per cui il secondo non riuscirebbe a bloccare le risposte automatiche. Accade, pertanto, che soggetti con un lobo frontale mal funzionante possano più facilmente commettere illeciti, anche se non esposti ad ambienti particolarmente sfavorevoli, ovvero che, in presenza di una certa componente genetica, eventi traumatici possano generare reazioni aggressive altrimenti non verificabili [...] Altrettanto interesse suscitano gli studi di biologia molecolare e di genetica comportamentale, volti ad individuare rispettivamente il genoma umano e l'influenza del patrimonio genetico sul comportamento e sulla personalità dell'uomo. In particolare, si ritiene che un'influenza sul comportamento criminale potrebbe essere esercitato da un tipo di geni, c.d. di suscettibilità, come il Maoa, nel senso che se pure non in termini assoluti, i soggetti che li possiedono, specie se sottoposti ad esperienze stressanti, hanno una probabilità maggiore di svilupparlo» (Collica, 8 ss.; Forza, 1380). È intuitivo che tali nuovi studi, hanno (ri)aperto uno scenario che si pensava ormai consegnato agli archivi della storia del pensiero umano: e così il secolare dibattito se il comportamento umano sia basato sul libero arbitrio o sul determinismo è tornato in auge anche a livello filosofico. Ma quel dibattito ha anche una ricaduta sul diritto penale ed esattamente proprio sulla norma in commento ossia sull'imputabilità. Infatti, la responsabilità penale si fonda sul libero arbitrio: la non punibilità che segue all'accertata incapacità d'intendere e volere è una conseguenza della suddetta impostazione: chi ha agito nella suddetta condizione, non era compus sui, e, quindi, non avendo la coscienza e la volontà dell'atto (rectius: reato) commesso, non può essere punito. Finora, anche con la notevole apertura che si è avuta con la citata sentenza delle Sezioni Unite, l'accertamento della imputabilità si è avuto, pur sempre, attraverso il paradigma di «una costruzione fondata su convinzioni di psicologia ingenua» che, ora, rischia di essere travolto dalla «dimostrazione empirica di un totale determinismo cerebrale» (Forza, 1380). Di fronte a questo nuovo metodo di accertamento e agli inaspettati scenari che ha disvelato, si sono, quindi, formati due schieramenti. «I sostenitori della tesi deterministica affermano che le condotte umane sarebbero completamente predeterminate e che, dunque, gli individui sarebbero del tutto privi di libero arbitrio. Di conseguenza, anche la nozione stessa di responsabilità (penale e non) diverrebbe del tutto priva di significato [....] La posizione del determinismo neuroscientifico di stampo “radicale” (c.d. hard determinism) è rigettata dai sostenitori della c.d. tesi compatibilista. Essa affronta la questione concernente la compatibilità tra libero arbitrio e determinismo, interrogandosi circa la possibilità per l'individuo di conservare la capacità di determinarsi liberamente nonostante la sottoposizione a leggi causali universali. Secondo tale orientamento, è ben possibile sostenere la sussistenza di una volontà e di una razionalità del tutto indipendenti dai meccanismi fisici e in grado di governarli. Al centro del dibattito non si troverebbe più tanto il determinismo cui sarebbe soggetta la nostra volontà. La questione essenziale riguarderebbe, invece, «gli effetti piuttosto che le cause della nostra volontà. Non ci si sta chiedendo se la nostra volontà sia libera, ma soltanto se sia efficace. La risposta concerne se e come possiamo controllare quello che facciamo (vale a dire, le nostre azioni), piuttosto che se possiamo controllare ciò che scegliamo di fare (ossia, la nostra volontà)» (Corda, § 5). E così, c'è chi osserva che «la convinzione di essere alle soglie di un passaggio epocale è un sentimento che spesso si è registrato nella storia della scienza ed è una caratteristica che accompagna tutte le visioni tecnologiche. Nel caso delle neuroscienze, tale convinzione sta generando interrogativi urgenti sulle conseguenze sociali che potrebbero creare fratture epocali tra il vecchio e il nuovo. La ragione principale è data dal fatto che queste discipline stanno cambiando il modo in cui l'uomo vede sé stesso. E ciò, in qualche misura, non può non destabilizzare» (Forza, 1382). C'è, invece, chi tende a sminuire l'impatto delle nuove tecnologie ritenendo che: «ai fini del vizio di mente, la realtà fattuale del fenomeno infermità mentale non si esaurisce nella descrizione di una patologia funzionale del cervello, il primo piano del giudizio di imputabilità. Essa implica anche l'esame dell'incidenza patologica sulla capacità d'intendere e di volere, il secondo piano del giudizio. Il modello offerto dalle neuroscienze finora non è stato in grado di assicurare questo esame, per la sua natura descrittiva e non anche esplicativa, poiché esso si limita a scoprire le correlazioni fra funzioni cerebrali e comportamento umano. Sotto questo punto di vista esso non rappresenta nulla di diverso dal modello diagnostico già offerto dal Dsm [...] il modello delle neuroscienze sembra allora riproporci i limiti riduzionistici dei paradigmi naturalistici come quello medico-organicistico, secondo il quale la malattia mentale è una malattia di origine organica. Tuttavia l'immagine della malattia mentale che le neuroscienze offrono è ancora più riduttiva di quella organicistica: è quella biologica, è quella dei processi neurali, è cioè quella della malattia di un uomo che è guidato dalle e si esaurisce nelle sue funzioni e nelle sue prestazioni biologiche» (Bertolino, Il breve cammino, 125). Improntata ad un prudente scetticismo è anche l’opinione di chi, indagando sui rapporti fra l’impiego delle tecniche neuroscentifiche e l’accertamento del dolo, ha concluso sostenendo che «pare preferibile continuare a riconoscere un ruolo ancillare in capo alle neuroscienze nell'indagine sull’elemento psichico e abbandonare l’idea di ipotetiche ricostruzioni della categoria concettuale del dolo sulla base delle evidenze neuroscientifiche» (Filindeu) C'è chi osserva che «che le neuroscienze rivelano la loro efficacia nella prima fase del giudizio di imputabilità, così come accade per le diagnosi basate sul Dsm. A differenza di queste ultime, tuttavia, gli strumenti di neuroimaging presentano il vantaggio di un riscontro anche dimensionale dei disturbi. Per il giurista si tratta di un rilievo di non poco conto, essendo tenuto a valutare l'incidenza dell'infermità. Vero ciò, l'intensità e la gravità del disturbo sono presupposti necessari, ma non sufficienti per farlo assurgere a causa di esclusione o di limitazione della capacità di intendere e di volere. Da un lato, pertanto, non tutti i disturbi della personalità possono essere considerati “infermità” ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto in mancanza della suddetta consistenza restano, di per sé, fuori dal campo di operatività del vizio di mente; dall'altro lato, pur in presenza dei requisiti richiamati, non è possibile ancora legittimare conclusioni presuntive sul piano dell'imputabilità. A questo fine, infatti, occorre valutare oltre al parametro quantitativo dell'intensità del disturbo, anche quello qualitativo dell'esistenza di un nesso di causalità tra tale disturbo e il tipo di reato commesso [...] E qui l'ausilio delle neuroscienze può essere solo parziale, non essendo automatico un riscontro di questo tipo in presenza di un disturbo mentale, per quanto ne sia stata valutata la gravità e l'intensità. A questo punto la perizia diventa ancora più complessa in quanto si tratta di passare dalla fase del “classificare”, in cui è stata effettuata la diagnosi del disturbo psichico, a quella del “comprendere” attraverso la traccia del profilo personologico complessivo dell'imputato in cui la malattia si inserisce. Ciò significa indagare sui “motivi” che hanno spinto il soggetto a delinquere; ricostruire con una valutazione retrospettiva la dinamica del reato e, quindi, analizzare i rapporti tra autore e vittima, valutare il grado di consapevolezza dell'imputato, il suo comportamento prima, durante e dopo il fatto, la sua percezione del significato degli atti commessi e la possibilità di prevederne le conseguenze. Non è dunque necessario capire se l'autore del reato fosse capace di intendere e di volere in astratto, al momento del fatto, ma, tenuto conto del quadro personologico complessivo, è bene valutare quanto fosse consapevole dello specifico crimine. Tutti aspetti, quelli richiamati, che, secondo il moderno sapere costituiscono la ricostruzione criminodinamica e criminogenetica del reato e possono essere chiariti dagli psichiatri con una buona base empirica di supporto» (Collica, 15 ss.). C'è, infine, chi avverte che le neuroscienze offrono al processo penale un «contributo ambivalente: da un lato, le neuroscienze forensi sembrano in grado di aumentare il tasso di oggettività dell'accertamento processuale, riducendo quelli che spesso sono eccessivi margini di discrezionalità quando a essere impiegato sia esclusivamente il metodo clinico; dall'altro, non si può non rilevare come esse rappresentino tuttora un sapere per molti versi “giovane” e non compiutamente sviluppato, in grado di fornire risposte che per intanto sono ancora tutt'altro che incontestabili ed anzi oggetto di acceso dibattito non soltanto tra gli scienziati ma anche tra i filosofi e gli epistemologi», sicché, invita ad «evitare il rischio di una “saturazione di empiria”» che faccia venir meno il principio generale di autonomia del diritto penale, «il quale rifiuta qualsiasi sua subordinazione nozionale e funzionale ad altri rami dell'ordinamento o ad altre discipline, tale da fare del diritto penale un puro diritto sanzionatorio» (Corda, § 12): sul punto, ad es. netta è stata la presa di posizione della “Società Italiana di Genetica Umana” che, a seguito di uno studio (del 9 dicembre 2013) ha concluso che «al momento attuale non (si) riconosce una validità scientifica nell'utilizzo dei test genetici di suscettibilità per tratti comportamentali in qualunque ambito, e in particolar modo nell'ambito così complesso e delicato della genetica forense. Si ritiene che tali test siano non utili, non validi e scientificamente inadatti a raggiungere le finalità per le quali vengono eseguiti». Questo è lo stato attuale della dottrina che si è misurata con la problematica sollevata dalle neuroscienze. Segue. In giurisprudenzaLa problematica sollevata dalle neuroscienze, non ha lasciato indenne la giurisprudenza che, con essa si è trovata a doversi misurare. Nelle aule di giustizia le neuroscienze sono entrate in quanto offrono al giudice dei nuovi metodi di indagine che, in prospettiva, possono essere decisivi ai fini dell'accertamento della responsabilità dell'imputato. Allo stato, risultano pubblicate solo quattro casi tutti relativi a giudizi di merito anche se «solo negli ultimi due anni, in almeno una decina di altri processi, non pubblicizzati dalla stampa, si è già fatto ricorso alla prova neuroscientifica» (Forza, 1382). I casi sono i seguenti: a) App. 18 settembre 2009, n. 5 (Riv. pen., 2010, 70 ss., con nota di Forza, Le neuroscienze entrano nel processo penale); un cittadino algerino venne tratto a giudizio per omicidio a danno di un cittadino colombiano a seguito di un litigio avvenuto per futili motivi. Il perito, nel giudizio di primo grado, aveva concluso che l'imputato era «affetto da un'importante patologia psichiatrica di stampo psicotico ed, in particolare, un disturbo psicotico di tipo delirante in soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi-asociali e con capacità cognitiva intellettive ai limiti inferiori della norma. Al momento del fatto si sarebbe trovato in una condizione di scompenso avendo interrotto da tempo le cure neurolettiche»: il giudice dell'udienza preliminare, tuttavia, riteneva l'imputato solo parzialmente incapace d'intendere e volere (sulla base di accertamenti fattuali) e lo condannava. In sede di appello, la Corte, pur confermando il parziale vizio di mente, ridusse ulteriormente la pena inflitta dal primo giudice: la Corte, infatti, sotto il profilo della capacità di volere, sulla base di una perizia medico legale, accertò che: «Particolarmente significative sono risultate le indagini genetiche effettuate dai periti alla «ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali fra i quali in particolare per quello che interessa, l'esposizione ad eventi stressanti ed a reagire agli stessi con comportamenti di tipo impulsivo». Tale indagine [...] avrebbe consentito di accertare che l'imputato «risulta possedere, per ciascuno dei polimorfismi esaminati, almeno uno se non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali riportati sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In particolare, l'essere portatore dell'allele a bassa attività per il gene Maoa (Maoa-L.) potrebbe rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente. È opportuno sottolineare che tale "vulnerabilità genetica" risulta avere un peso ancor più significativo nel caso in cui l'individuo sia cresciuto in un contesto familiare e sociale non positivo e sia stato, specialmente nelle prime decadi della vita, esposto a fattori ambientali sfavorevoli, psicologicamente traumatici o negativi». Il Maoa è il gene che codifica l'enzima monoaminoossidasi A, preposto alla regolazione dei livelli di serotonina, norepinefrina e dopamina nel cervello, e cioè i neurotrasmettitori fondamentali per la gestione degli impulsi. In pratica, la Corte riconobbe la validità del test genetico, pur in assenza di alterazioni morfo-funzionali del cervello, e ridusse la pena solo perché l'imputato risultava portatore di un polimorfismo di un gene preposto al controllo del carattere che, dalla stampa, in modo immaginifico, è stato definito il “gene guerriero”. b) Trib. Como, G.u.p., 20 maggio 2011, in Riv. it. med. leg., 2012, 246 ss., con nota di Messina, I nuovi orizzonti della prova (neuro)scientifica nel giudizio sull'imputabilità): una donna venne tratta a giudizio per avere ucciso la sorella e, successivamente, bruciato il cadavere. Sottoposta a plurime perizie e consulenze di parte, il giudice dell'udienza preliminare ritenne attendibile quest'ultime, e, ritenuto il parziale vizio di mente, la condannò alla pena ritenuta equa. La consulenza di parte si basò, oltre che sui consueti metodi di indagine psichiatrica, anche sulle risultanze di “imaging cerebrale” e di “genetica molecolare” che il giudice ritenne particolarmente attendibili. Il giudice, innanzitutto, ebbe cura di precisare, a proposito delle suddette indagini che «non si tratta di introdurre una rivoluzione “copernicana” in tema di accertamento, valutazione e diagnosi delle malattie mentali né tantomeno di introdurre criteri deterministici da cui inferire automaticamente che ad una certa alterazione morfologica del cervello conseguono certi comportamenti e non altri, bensì di far tesoro delle condivise acquisizioni in tema di morfologia cerebrale e di assetto genetico, alla ricerca di possibili correlazioni tra le anomalie di certe aree sensibili del cervello ed il rischio, ad esempio, di sviluppare comportamenti aggressivi o di discontrollo dell'impulsività, oppure tra la presenza di determinati alleli di geni ed il rischio di maggiore vulnerabilità allo sviluppo di comportamenti socialmente inaccettabili perché più esposti all'effetto di fattori ambientali stresso geni [...] le informazioni scientifiche in tal modo ottenute consentono, dunque, di giungere ad un quadro più preciso dell'eventuale infermità di mente dell'imputato ma non consentono certo di giustificare de terministicamente la causazione tipica di un reato»: a questo proposito il giudice fa proprie le parole di un neuro scienziato (Michael Gazzaniga) e scrive che «il cervello è un congegno automatico, governato da regole e determinato: invece le persone sono agenti personalmente responsabili, liberi di prendere le loro personali decisioni» da cui consegue eventualmente anche la responsabilità penale. Il giudice, quindi, attesta che le indagini sulla morfologia del cervello consentirono di appurare che l'imputata presentava — rispetto ad un campione ritenuto statisticamente significativo — delle differenze nella morfologia e nel volume delle strutture cerebrali in «un'area che ha la funzione di inibire il comportamento automatico e sostituirlo con un altro comportamento e che è coinvolto anche nei processi che regolano la menzogna, oltre che nei processi di suggestionabilità ed autosuggestionabilità e nella regolazione delle azioni aggressive». A ciò si doveva aggiungere l'esito del test genetico dal quale era risultato che l'imputata «possiede tre alleli sfavorevoli ovvero alleli che conferiscono un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo [...]». c) Trib. Venezia, G.u.p., 24 gennaio 2013, n. 296 (in Riv. it. med. leg., 2013, 1905 ss., con nota di Algeri, Accertamenti neuroscientifici, infermità mentale e credibilità delle dichiarazioni). Un pediatra di scuola elementare venne tratto a giudizio per aveva molestato sessualmente diversi minorenni. La tesi della difesa era che tale comportamento, insorto nell'ultimo periodo, era dovuto ad una massa tumorale (in effetti accertata e diagnosticata come cordoma del clivus) che esercitava una pressione sull'ipotalamo organo deputato anche al controllo degli stati emotivi e del comportamento sessuale. La difesa, inoltre, ricorse anche alla tecnica A-I.A.T., (acronimo di Autobiographical Implicit Association Test e cioè il metodo con cui si valuta il livello di associazione fra concetti nella memoria autobiografica-episodica): tale indagine, secondo i ctp aveva consentito di accertare la fondatezza della tesi difensiva dell'imputato che, aveva dichiarato che il suo irresistibile impulso pedofilo coincideva con il momento in cui il tumore aveva raggiunto la sua massa critica. Il G.u.p. respinse la tesi difensiva, accogliendo, quindi, la tesi del perito d'ufficio, sotto due profili: - non poteva «ritenersi sufficientemente provato il prospettato nesso di derivazione causale tra il cordoma e il comportamento pedofilo» e ciò perché la pedofilia, secondo le risultanze della dottrina scientifica, in sé e per sé considerata, non poteva essere ritenuta come un caso di infermità penalmente rilevabile ai fini dell'imputabilità; - ugualmente non affidabili dovevano ritenersi gli esiti della a.Iat, perché la suddetta tecnica «ha avuto fino ad oggi limitata applicazione in ambito giudiziario», sicché, essendo «una metodologia di carattere sperimentale i cui risultati non possono essere ritenuti indiscussi», non poteva escludersi che «il ricordo, soprattutto se riferito, come nel caso in esame, a situazioni complesse, e protrattesi nel tempo possa essere frutto di suggestioni o auto convincimenti». Sulla base di tali considerazioni, pertanto, il giudice dell'udienza preliminare, ritenne l'imputato capace d'intendere e volere e lo condannò alla pena ritenuta di giustizia. d) Trib. Cremona, G.i.p., 19 luglio 2011, n. 109 (commentata da Algeri, Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, in Riv. it. med. leg., 2012, 903 ss.): questa sentenza, pur non essendo attinente all'imputabilità, la si cita perché sono state disposte metodiche utilizzabili anche per l'imputabilità. Il caso, infatti, aveva ad oggetto un commercialista accusato di aver molestato sessualmente una stagista a lui affidata. Nella suddetta fattispecie la perizia neuro scientifica (che fu effettuata con il metodo all'A-I.A.T. e al T.A.R.A.. (Time Antagonistic Response Alethiometer) fu disposta per valutare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa in merito alla violenza sessuale subìta. Questi due metodi, sono diretti a verificare nel soggetto la traccia mnestica di un evento autobiografico significativo. Per usare le parole dello stesso giudice: «sono procedure che, sulla base dei tempi di reazione, arrivano a verificare l'esistenza all'interno del soggetto di una informazione, in pratica di un ricordo e di quello specifico ricordo esistente come tale nella sua mente. Dalla rapidità e accuratezza della risposta si ricava quale sia il ricordo “naturale” che si è impresso. Il ricordo “naturale”, definito “compatibile”, ha tempi di reazione rapidi mentre un allungamento dei tempi di reazione e un aumento degli errori rifletteranno il fatto che il soggetto ha dovuto superare un conflitto cognitivo cioè dare una risposta che non è consona al suo ricordo. Inoltre, solo la comprensione del passaggio della procedura che qui di seguito si espone permette di comprendere in modo esatto come essa funziona. Ai soggetti sottoposti alle prove non è infatti richiesta una semplice risposta in termini di “vero” o “falso” (ad esempio, nella prova di controllo, “mi chiamo Giovanni” - vero o falso, mentre nella prova di valutazione “ho rapinato la banca” — vero o falso) ma di collocare la risposta nella classificazione in cui il perito ha posto l'affermazione. Nelle indagini giudiziarie le classificazioni possibili sono due: “versione dell'accusa” e “versione della difesa”. Il soggetto è quindi sottoposto ad un doppio stimolo mentale: a fronte della domanda, prima sorge il ricordo di ciò che “sa”, perché appunto lo ricorda e poi deve collocare, perché gli è richiesto, l'evento propostogli in una classificazione esterna indipendente dal suo ricordo e cioè nella “versione dell'accusa” o nella “versione della difesa”. In pratica davanti affermazioni facenti parte della versione della difesa “non ho commesso la rapina”, “non ho immobilizzato le guardie” il soggetto sottoposto se è innocente, deve indicare la risposta come “vera”. Ma quando il ricordo naturale, come in questo caso, confligge con la collocazione richiesta (se l'imputato ha commesso la rapina la risposta “naturale” sarebbe per lui “falso” ma la risposta richiesta è “vero” perché è vero che tale risposta appartenga alla versione della difesa) tale doppio passaggio dà luogo ad un conflitto cognitivo non evitabile e ad un percorso tortuoso che allunga inevitabilmente i tempi di raggiungimento della risposta richiesta dal test». L'esito positivo delle suddette indagini, hanno convinto il giudice che, quindi, ha condannato l'imputato. e) si segnala anche, benché inedita (ma commentata da Ferla) la sentenza del Giudice delle indagini preliminari del Trib. Piacenza n. 280/2014 che, a seguito di specifici esami neurologici che avevano accertato un caso amnesia dissociativa, dichiarò il non luogo a procedere per vizio totale di mente, ai sensi dell’art. 88 c.p. nei confronti dell’imputato al quale era stato addebitato l’omicidio colposo della propria bambina “dimenticata” in auto per molte ore. Segue. ConclusioniLa ricognizione dello stato della dottrina e della giurisprudenza, impone, a questo punto, una sintesi che riassuma la problematica, ne evidenzi i punti critici e le conseguenze, sulla prova, degli accertamenti basati sulle nuove metodiche della prova neuro-scientifica. Il punto fermo è che, grazie a questo nuove metodiche, si possono accertare, in modo oggettivo, fatti e dati che prima potevano essere solo diagnosticati a livello clinico: «Oggi risulta ampiamente provato che il funzionamento dei lobi frontali è preposto alle attività cognitive e riflessive. In particolare, è pacifico il ruolo che lo sviluppo della corteccia prefrontale gioca nella regolazione dei meccanismi inibitori e dell'auto-controllo. Si sa che lo sviluppo di questi circuiti si compie in età adolescenziale e si completa non prima del ventunesimo anno di età; che su di esso incide l'uso cronico di droghe e di alcool; che il tasso di anomalie neurologiche tra coloro che commettono reati è più alto che nella popolazione che non li commette e che tra le persone del primo gruppo l'incidenza di disfunzioni dei meccanismi della corteccia pre-frontale è assai elevato. Egualmente noto è che il sistema limbico regola le nostre funzioni emotive e che un ruolo importante nel comportamento morale viene giocato dal sistema preposto alla reazione empatica» (Di Giovine, 714). Ma, l'interrogativo principale che pongono queste nuove metodiche è il seguente: quali conseguenze, sul piano penalistico (nella specie l'accertamento dell'imputabilità) si possono trarre dai suddetti accertamenti? Secondo gli studiosi delle neuroscienze «Sarebbe possibile, addirittura, valutare i correlati neuronali della coscienza, determinanti per la pianificazione dell'atto o il controllo degli impulsi. Lo comproverebbero i risultati ottenuti con la misurazione del flusso ematico cerebrale regionale mediante la Pet, ma anche la limitata capacità critica, di giudizio e, in generale, di controllo del proprio comportamento riscontrata in pazienti con lesioni traumatiche o con patologie degenerative di questa zona del cervello. Si tratta dunque di soggetti con la capacità di intendere non compromessa, ma che non riescono a controllare i propri impulsi, proprio a seguito di un'anomalia o lesione che li rende insensibili e incapaci di comprendere le emozioni altrui. Nello specifico, le ricerche sui c.d. “neuroni specchio” consentirebbero di anticipare e capire non solo gli atti motori e fattori razionali, ma anche le emozioni. Le tecniche di neuroimaging, in definitiva, sarebbero in grado di individuare le componenti neurobiologiche del comportamento decisionale e comportamentale di tipo automatico e involontario, ma anche di riscontrare una base neuronale persino nel giudizio morale. In altri termini, nel cervello del soggetto sano e in quello del soggetto disturbato queste funzioni opererebbero in modo diverso, per cui il secondo non riuscirebbe a bloccare le risposte automatiche. Accade, pertanto, che soggetti con un lobo frontale mal funzionante possano più facilmente commettere illeciti, anche se non esposti ad ambienti particolarmente sfavorevoli, ovvero che, in presenza di una certa componente genetica, eventi traumatici possano generare reazioni aggressive altrimenti non verificabili. In questo modo è possibile distinguere stabilmente fra un soggetto infermo ed uno normale, ma anche operare una differenziazione all'interno dello stesso tipo di disturbo, ad esempio tra schizofrenici violenti e schizofrenici non violenti, ecc.; come pure tra un grave disturbo di personalità ed uno lieve, essendo presenti solo nel primo i correlati microstrutturali evidenziabili alla c.d. Voxel-Based Morphometry (Vbm)» (Collica, 9). Correttamente, l'autrice del brano appena riportato, ha usato il condizionale proprio perché, allo stato, «gli studi neuro scientifici concernenti il difetto d'imputabilità sono ancora in uno stadio pre-paradigmatico. Basti riflettere sul fatto che, se constano casi in cui soggetti con anomalie cerebrali hanno commesso reati, difettano invece evidenze metodologicamente corrette della situazione inversa: insomma non è dato sapere quante persone con le stesse caratteristiche “non” delinquono. Infine, le neuro immagini forniscono rappresentazioni grafiche statiche di meccanismi cerebrali invero dinamici e complessi. Le reazioni fisiologiche rappresentano infatti il frutto della interrelazione tra differenti aree del cervello e non sono quindi riconducibili a rappresentazioni di tipo fotografico» (Di Giovine, 715). Si è posto volutamente l'accento su questo che, a nostro avviso, costituisce il punto nodale di tutta la problematica perché, dalla lettura dei provvedimenti giudiziari di cui al precedente paragrafo, emerge netta la sensazione che i giudici siano rimasti per così dire “abbagliati” da queste nuove metodiche e le abbiano fatte proprie in modo fideistico probabilmente perché si sono sentiti sgravati dal duro e complesso compito a cui sono chiamati: quella della responsabilità della decisione. E così, alla Corte di Appello di Trieste è bastato appurare che l'imputato fosse portatore di un semplice disformismo di un gene, perché, senza approfondire la problematica scientifica ad essa sottostante (cosa comporta il dismorfismo? Ci sono prove evidenti che sia stata proprio quella modesta anomalia genetica a provocare la spropositata reazione omicida?), applicasse la diminuente della parziale infermità nella sua massima estensione riducendo, quindi, la pena. È vero, invece, che i giudici delle sentenze di Como e di Cremona, hanno avvertito il problema ed hanno sentito il bisogno di spiegare le ragioni per cui ritenevano di dover far proprie le conclusioni dei consulenti di parte (Como) o del perito (Cremona): ma si tratta, con tutta evidenza, di una excusatio non petita. Sul punto, ad es., secondo il giudice di Cremona, le metodologie utilizzate, addirittura, «soddisfano i criteri fissati dalla nota sentenza Daubert in tema di ammissibilità della prova scientifica: precedenti verifiche e cioè falsificabilità della teoria in senso popperiano e quindi resistenza del metodo a tentativi di smentita, controllo dei lavori pubblicati da parte di revisori qualificati (“peer review”), accettabilità dei limiti di errore, accoglimento da parte della comunità scientifica»: il che non è affatto vero, perché nessuno, allo stato, può garantire che il «vissuto» che si cerca di estrapolare dalla mente del soggetto sottoposto al test, corrisponda con certezza all'«accaduto». Ed infatti, il giudice di Venezia, di fronte alla stessa metodica, è giunto all'opposta conclusione proprio osservando che si trattava di metodica priva, allo stato, di sufficiente attendibilità in quanto «non può escludersi che il ricordo, soprattutto se riferito, come nel caso in esame, a situazioni complesse, e protrattesi nel tempo possa essere frutto di suggestioni o auto convincimenti». E così ancora, il giudice di Como, ha sentito il bisogno si trincerarsi dietro l'autorevole opinione di un famoso neuro-scienziato. Su questo ultimo aspetto, è opportuna una breve riflessione. Il punto di vista del neuroscienziato Gazzaniga, trova un riscontro notevole anche nella nostrana dottrina penalistica che, in tal modo, cerca di esorcizzare e minimizzare l'impatto che, sulla problematica dell'imputabilità, hanno le nuove metodiche. Ad es. si sostiene che «le spiegazioni di primo livello, attinenti alla biologia, non sono in grado di rappresentare la complessità e la pluralità dei meccanismi che portano ad affermare o ad escludere l'attribuzione della responsabilità penale, la quale è e resterà un concetto inconcepibile al di fuori di una cornice concettuale composita. Imprescindibile resta dunque la spiegazione sulla criminogentica e sulla criminodinamica, perché solo può illuminare l'eventuale esistenza di un nesso tra la non imputabilità e la realizzazione del fatto reato. Se ne desume che l'accertamento peritale implica un mestiere diverso e più articolato di quello diagnostico-clinico, poiché presuppone un “racconto”, una “narrazione” che tenga conto anche del contesto di vita dell'imputato. Un «logos sul e del crimine» (Di Giovine, 714): in altri termini, l'imputabilità, sotto il profilo penalistico, resterebbe pur sempre una sorta di ortus clausus riservato all'esclusiva cura del giudice che non potrebbe mai prescindere dalle motivazioni e dal contesto in cui il delitto è sorto sicché gli accertamenti neuro-scientifici avrebbero pur sempre una semplice funzione ancillare. Non è così: il primo dato che, a livello empirico, smentisce la suddetta tesi, è proprio la conclusione alla quale il giudice di Como è pervenuto e cioè il riconoscimento del vizio parziale di mente dell'imputata, sulla base (solo o prevalentemente) di accertamenti neuro-scientifici, nonostante il contrario esito di altre perizie. In secondo luogo, occorre riflettere sul seguente dato giuridico: l'imputabilità, nell'art. 85, si fonda sulla seguente affermazione: è imputabile solo e solamente chi, al momento in cui ha commesso il reato, si trovava ad avere congiuntamente lo stato di capacità d'intendere e quello di volere. A livello logico, quindi, si può formulare il seguente sillogismo: premessa maggiore: chiunque, al momento in cui commette un reato, è imputabile solo e solamente se contemporaneamente e congiuntamente abbia la capacità d'intendere e quello di volere; premessa minore: Tizio, al momento in cui commette il reato, ha la sola capacità di intendere (ma non quella di volere); conclusione: Tizio, al momento in cui commette il reato, non è imputabile. Ora, se si ritiene che gli accertamenti neuro-scientifici siano in grado di stabilire che l'imputato, per effetto di anomalie cerebrali o genetiche, non abbia la capacità di volere, non si comprende sulla base di quali motivazioni il giudice potrebbe giungere a conclusioni diverse. È vero che il giudizio penale sull'imputabilità è qualcosa di molto complesso: ma, lo è finché l'accertamento dell'infermità sia effettuato con il tradizionale metodo clinico — statistico del Dsm. Ma, nel momento in cui si accetta l'opinione secondo la quale un determinato comportamento è “dettato” da determinate caratteristiche fisiche o genetiche, resta ben poco da aggiungere: l'imputato ha agito non perché “voleva” quel comportamento deviato (anche se era perfettamente consapevole della sua antigiuridicità, sotto il profilo della capacità d'intendere) ma perché ne fu “costretto” da forze estranee al suo volere: e se si compie un atto che non si vuole, non se ne può rispondere, perché su questo assioma è fondato tutto il diritto penale moderno. Resta, certamente, ancora, al giudice, la “narrazione” del fatto il «“logos” sul e del crimine», ma si tratta di un aspetto della narrazione che riguarda l'art. 133 c.p., il quantum della pena e non l'an della imputabilità e, quindi, della responsabilità. Ed, infatti, è sintomatico che questa stessa dottrina, ammette che, per effetto delle nuove metodiche potrebbero essere considerate incapacitanti, situazioni che la psichiatria forense esita ancora a qualificare come veri e propri “disturbi”: «si allude alle cosiddette parafilie, al cui interno spicca, per la sua rilevanza penalistica e criminologica, la pedofilia che, nei casi più gravi, ben potrebbe elidere o scemare l'imputabilità», punto questo che viene superato con l'osservazione secondo la quale «si tratta comunque di valutazioni delicate, da formulare caso per caso, e che richiederanno spesso il concorso di differenti know how» (Di Giovine, 724). La pedofilia (e, in genere, i disturbi afferenti la sfera sessuale) costituisce proprio un esempio emblematico di quanto si sostiene. È noto che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che «la parafilia, in cui rientra la pedofilia, se non accompagnata da un disturbo psichiatrico maggiore, rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive della persona» (Cass. III, n. 6818/2014; Cass. III, n. 38896/2013; Cass. III, n. 12306/1986 che giunge alle stesse conclusioni in relazione all'ancor più vasta categoria della “degenerazione dell'istinto sessuale”). Nella motivazione della sentenza n. 38896/2013, si legge, infatti, che la dottrina scientifica ritiene concordemente che la parafilia (della quale la pedofilia è considerata una sottocategoria) vada ricompresa tra i disturbi di personalità e le nevrosi e sia molto lontana dai quadri sintomatici afferenti la malattia mentale, i quali si caratterizzano dalla perdita del rapporto con il contesto reale, destrutturazione della personalità, dissociazione affettiva ed ideativa, allucinazioni e deliri. Pertanto, secondo la scienza psichiatrica, la pedofilia, se non accompagnata da un'accertata malattia mentale o da altri gravi disturbi della personalità, rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive. Si tratta, come si può notare di una motivazione classica che si basa sulla “scientificità” della psichiatria: ma, se fosse accertato, sulla base delle nuove metodiche, che quel comportamento sessualmente deviato, dipende da una particolare anomalia cerebrale o genetica, davvero si potrebbe continuare a ragionare con i consueti schemi mentali? È la problematica che si pose nel processo di Venezia e che il giudice schivò non attribuendo attendibilità agli accertamenti neuro-scientifici effettuati dalla difesa. Quello che, in altri termini, si vuole dire, è che le nuove metodiche, ove dovessero giungere a risultati scientificamente apprezzabili, sono destinate inevitabilmente a sconvolgere il paradigma su cui si basa l'attuale modo di ragionare e decidere rendendo, innanzitutto, obsoleta quella stessa sentenza di Cass. S.U. che, pure ha rappresentato un notevole passo in avanti nella comprensione e valutazione dell'imputabilità. Ma, proprio perché le conseguenze sono dirompenti, il giudice non può acriticamente affidarsi alle nuove metodiche nei confronti delle quali è bene conservare, almeno fino a che non raggiungano risultati più certi, un sano scetticismo proprio perché, una volta imboccata quella strada, ad esse si resta poi vincolati, come ha intuito il giudice di Venezia (che ha rifiutato di prenderle in considerazione) e come dimostrato da un semplice ragionamento contro fattuale che si può fare a proposito dei casi giurisprudenziali illustrati: il giudice di Cremona, avrebbe condannato l'imputato se non avesse sottoposto la parte offesa a quei test, e se sì, perché li dispose? la Corte di Appello di Trieste ed il giudice di Como avrebbero ridotto la pena agli imputati se non avessero utilizzato gli esiti di quelle nuove metodiche? Tutto quanto finora si è detto è estremamente importante perché attiene al metodo di accertamento dell'imputabilità ossia un problema di stretta natura processuale con il quale i giudici devono quotidianamente misurarsi. Quindi, riassumendo, si possono assumere le seguenti conclusioni: a) le metodiche neuro-scientifiche possono accertare, in modo oggettivo, se l'imputato sia o meno portatore di anomalie anatomiche cerebrali o genetiche; b) ad oggi, però, non si sono raggiunte evidenze né scientifiche né statistiche tali che consentano di affermare se e in che misura quelle determinate anomalie siano la causa dei comportamenti deviati (rectius: reati) tenuti dall'imputato; c) di conseguenza, il giudice, prima di dare ingresso a queste nuove metodiche d'indagine, deve avere ben chiaro cosa intende accertare e quale sia la finalità dell'indagine: se, per fini processuali, occorre accertare se l'imputato sia o meno affetto da anomalie anatomiche cerebrali o genetiche, l'accertamento porta a risultati oggettivi a livello medico - scientifico; se, invece, ricorre alle suddette metodiche perché pensa di risolvere il problema di accertare se l'imputato sia o meno imputabile, deve considerare che qualunque sia l'esito, il risultato che gli darà il perito è privo, allo stato, di scientificità (nel senso che non c'è concordanza nella comunità scientifica), e, quindi, l'accertamento rischia non solo di essere inutile ma di aggravare e complicare il processo; d) ove, però, la comunità scientifica dovesse fare passi tali da consentire, attraverso le nuove metodiche, di accertare non solo l'anomalia anatomica cerebrale o genetica di cui l'imputato è portatore, ma anche che quella determinata anomalia funge da causa (esclusiva o determinante) nella causazione del reato, al giudice non resterà che prenderne atto, residuandogli solo il compito di stabilire se l'imputato debba essere ritenuto totalmente o parzialmente infermo, e, quindi, la pena ex art. 133. Sul punto, va, infatti, rilevato che, a livello processuale, si verificherebbe una inversione dell'onere della prova: oggi, l'accertamento dell'imputabilità è frutto di una dialettica processuale che vede la difesa protagonista di primo piano nel tentativo, ove ne abbia interesse, di dimostrare, anche sulla base di semplici allegazioni, che l'imputato, per effetto di determinate anomalie cerebrali o genetiche, si trovava in stato d'incapacità al momento della commissione del reato. Un domani, ove si dovesse definitivamente accertare che con le nuove metodiche è possibile anche stabilire il nesso eziologico fra una determinata anomalia cerebrale o genetica ed il reato, graverebbe sull'accusa l'onere gravosissimo (quasi “diabolico”) di provare il contrario. E, a diversa conclusione non si può certo giungere rilevando che «la coscienza ha una struttura diacronica ed è necessariamente storica [...] essendo legata alla pianificazione e alla creazione di nuove combinazioni di routine ormai automatiche [...]» sicché la libertà «non andrebbe riferita al momento in cui è realizzato il singolo atto motorio, bensì ad un arco di tempo più esteso» caratterizzato dal «potere di inibizione degli impulsi» che fa sì che al reo vadano ascritte anche le condotte potenzialmente non coscienti e cioè «quelle che avrebbero potuto essere realizzate oppure omesse, secondo la nota formula di Antolisei, attraverso “un conato cosciente di volontà»: in tale prospettiva, quindi, la libertà di autodeterminazione non si riferisce ai singoli comportamenti corporei, ma va intesa in una dimensione “olistica secondo la quale la libertà sarebbe il frutto di una storia individuale alla cui scrittura la persona prende attivamente parte» (Di Giovine, 721). Infatti, salvo ulteriori e futuribili mezzi di indagine, riesce difficile concretizzare, a livello processuale, come il Pubblico Ministero potrebbe contrastare, sul piano fattuale, anche ricorrendo alla “struttura diacronica della coscienza” (ma, sarebbe possibile ancora parlare di coscienza in una prospettiva in cui la stessa “coscienza” risulta essere il prodotto ultimo di circuiti neuronali e di reazioni chimiche?) o alla “storia individuale” dell'imputato, un accertamento che indichi, in modo certo, che un determinato comportamento antigiuridico è la conseguenza di una ben precisa anomalia cerebrale o genetica di cui l'imputato è portatore. Sono, quindi, proprio queste considerazioni, che dovrebbero indurre ad una estrema cautela nell'utilizzo di queste nuove metodiche perché bisogna aver ben chiaro che, imboccata questa via, si abdica al ruolo dello giudicare (almeno secondo il consolidato ed attuale paradigma) in quanto una volta che il perito abbia dato il suo responso, il giudice non può che ad esso rimanere vincolato non potendo certo disattenderlo, rifugiandosi dietro l'ormai superato brocardo del peritus peritorum (Bertolino: Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze) Ovviamente, non è questo un atteggiamento di chiusura al nuovo ma solo di attenta e prudente attesa di sviluppi più attendibili di questa nuova scienza, proprio al fine di evitare che le sorti del processo (e, quindi, dell'imputato), possano dipendere da accertamenti allo stato ancora inaffidabili. Cosa riserva il futuro in questa materia in continua e tumultuosa evoluzione, non è dato sapere: certo è che se si dovesse consolidare la linea di tendenza che, attualmente, vede “l'io” (e tutte le sue manifestazioni) come una semplice proiezione del cervello inteso come un agglomerato di circuiti neuronali e di reazioni chimiche, è probabile che bisognerebbe ripensare il concetto di autodeterminazione, di capacità d'intendere e volere e, in una parola, volendo restare nell'ambito penalistico che qui interessa, del concetto stesso di imputabilità. BibliografiaBertolino, Il breve cammino del vizio di mente. Un ritorno al paradigma organicistico? in Le Neuroscienze e il diritto, Pavia, 2009; Bertolino, L’imputabilità penale fra cervello e mente, in Riv. it. med. leg., 2012; Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze in Relazione al corso della Scuola Superiore della Magistratura P18066 del 1-3 ottobre 2018 “Le neuroscienze e la genetica comportamentale nel processo penale italiano”; Collica, Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio di imputabilità, in penalecontemporaneo.it, 2012;Collica, Gli sviluppi delle neuroscienze sul giudizio di imputabilità in Dir. pen. cont., 20 febbraio 2018;Corda, Neuroscienze forensi e giustizia penale tra diritto e prova, in Arch. pen. 2014, n. 3; Di Florio, Imputabilità e neuroscienze: brevi considerazioni con particolare riferimento alla ludopatia in Dir. pen. cont. 2019, 9;Di Giovine, Neuroscienze (diritto penale), in Enc. dir., Annali, VII, Milano 2014; Di Giovine, Ripensare il diritto penale attraverso le (neuro-)scienze?, Torino, 2019; Ferla, Casi difficili e accertamenti peritali in tema di vizio di mente in Jus- online, n. 2/16; Filindeu: Neuroscienze ed elemento psicologico del reato: considerazioni in tema di dolo in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 603; Forza, La sfida delle neuroscienze: verso un cambiamento di paradigma?, in Dir. pen. e proc., 2012, 1376; Grandi, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi? Torino, 2016; Marini, voce Imputabilità, in Dig. d. pen., VI, Torino, 1992; Santosuosso-Bottalico, Neuroscienze e diritto: una prima tappa, in Le Neuroscienze e il Diritto, Pavia, 2009. |