Codice Penale art. 102 - Abitualità presunta dalla legge.Abitualità presunta dalla legge. [I]. È dichiarato delinquente abituale chi, dopo essere stato condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole [101], commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo, della stessa indole, e commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti [106, 107, 109; 533 2 c.p.p.]. [II]. Nei dieci anni indicati nella disposizione precedente non si computa il tempo in cui il condannato ha scontato pene detentive o è stato sottoposto a misure di sicurezza detentive [215 2]. InquadramentoL'art. 102 c.p. è il primo di quel gruppo di norme (con gli artt. 105 e 108) con il quale il legislatore ha inteso disciplinare e sanzionare il cd. delinquente pericoloso (Mantovani 2015, 673), ossia la cd. pericolosità qualificata o specifica (abitualità: artt. 102, 104; professionalità: art. 105; tendenza a delinquere: art. 108) dalla quale consegue, una volta che sia accertata, una serie di conseguenze negative previste all'art. 109 al cui commento si rinvia. In altri termini, questo particolare accertamento agisce su un piano diverso da quello puramente repressivo (al quale è preposta l'irrogazione della pena per il singolo reato commesso), in quanto ha una funzione social preventiva e, quindi opera ed ha effetto su questo lato del sistema penale che, com'è noto, è basato sul cd. doppio binario cioè «un sistema per il quale si prevede, accanto e in aggiunta alla pena tradizionale, inflitta sul presupposto della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale a dire una misura fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione» (Fiandaca-Musco, PG, 734 ss.): nonostante le critiche della dottrina (fra gli altri, Fiandaca-Musco, PG ; Mantovani, PG 2015), va segnalato che il sistema del doppio binario ha sempre retto al vaglio di costituzionalità sia prima che dopo l'entrata in vigore della l. 10 ottobre 1986 n. 663: Corte cost. n. 168/1972; Corte cost. n. 143/1976; Corte cost. n. 140/1982; Corte cost. n. 443/1988; Corte cost. n. 421/1989. Una parte della dottrina, anche a motivo del fatto che le suddette norme si trovano collocate nello stesso capo in cui è collocata la recidiva (art. 99), ritiene che anche la recidiva, così come l'abitualità, la professionalità e la tendenza a delinquere, sia una forma specifica della pericolosità sociale (Antolisei, PG 1975, 534 ss). Tuttavia, tale tesi è stata confutata da Cass. S.U., n. 35738/2010 la quale ha osservato che la recidiva, in quanto circostanza aggravante, «può solo essere «ritenuta» ed «applicata» per i reati in relazione ai reati è contestata» contrariamente alle «situazioni soggettive che, attributive di uno specifico status (delinquente abituale, professionale e per tendenza), abbisognano di un'apposita dichiarazione che la legge espressamente prevede e disciplina agli artt. 102, 105, 108, 109 c.p.»; inoltre, in dottrina, si è rilevato che non possono essere ritenuti omogenei (e cioè finalizzati alla stessa funzione) due istituti uno dei quali (la recidiva) prevede solo un aggravamento della pena, e l'altro (l'abitualità) la sanzione della misura della sicurezza e cioè sanzionai completamente diverse (Ambrosetti, 24). La rilevanza penale dell'abitualità nel reatoL'articolo in commento è il primo di tre articoli dedicati tutti all'abitualità nel reato: la norma in commento disciplina l'ipotesi dell'abitualità presunta dalla legge; l'art. 103 l'abitualità ritenuta dal giudice; l'art. 104 l'abitualità nelle contravvenzioni. La peculiarità della norma in commento, quindi, rispetto alle altre due (artt. 103, 104), consiste nel fatto che l'abitualità deriva ex lege una volta che si accertino esistenti determinati presupposti. Questa disciplina era coerente con l'art. 204 c.p. a norma del quale «le misure di sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa. Nei casi espressamente determinati, la qualità di persona socialmente pericolosa è subordinata all'accertamento di tale qualità, se la condanna o il proscioglimento è pronunciato [...]» dopo determinati periodi di tempo dalla commissione del fatto. L'art. 31 l. 10 ottobre 1986 n. 663, abrogò, però, l'art. 204 c.p., stabilendo al secondo comma che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa: se, quindi, è indiscusso che, a seguito della suddetta norma, anche la pericolosità di cui all'art. in commento non può essere più presunta automaticamente (in presenza dei requisiti ivi previsti), si è posto il problema di quale sia lo spazio che residua all'art. 102 A questo quesito, una parte della dottrina, risponde che la l. n. 663/1986 ha determinato l'abrogazione implicita dell'art. 102 c.p. sicché l'abitualità nel delitto, vigente nell'ordinamento, sarebbe solo quella dichiarata dal giudice ex art. 103 (Fiandaca-Musco, PG, 873). Altra parte della dottrina, partendo dal presupposto che nessuna norma ha abrogato l'art. 102, ritiene che le fattispecie presuntive specifiche (fra cui appunto, l'art. 102) «non sono state soppresse ma trasformate da fattispecie presuntive a fattispecie indizianti di pericolosità, pur sempre da accertarsi questa in concreta»: Mantovani, PG 2015, 683, 684 (cfr. commento sub art. 103 § 5 in ordine alla differenza circa il giudizio di pericolosità nelle due ipotesi); Romano-Grosso, 115 i quali ribadiscono che «l'unica differenza tra abitualità di cui all'art. 102 e quella di cui all'art. 103 — entrambe ormai, a rigore, “ritenute dal giudice” resta affidata ora alla circostanza che gli indici legali propri della prima comportano una valutazione giudiziale più stringente della pericolosità sociale del soggetto»; Calabria, § 6. Tale ultima tesi è stata recepita dalla giurisprudenza: Cass. I, n. 1917/1992; Cass. II, n. 1423/2013 secondo la quale, mentre nell'abitualità presunta dalla legge «il giudice deve limitarsi ad accertare i soli elementi necessari e sufficienti, tassativamente determinati dal legislatore, nell'ipotesi di abitualità ritenuta dal giudice, quest'ultimo, in aggiunta ai primi, deve anche compiere una valutazione discrezionale in ordine ad altri elementi indicati dal legislatore»; conf., Cass. V, n. 12333/1988; Corte cost. n. 443/1988. Infine, è opportuno precisare che l'abitualità nel reato non fa confusa: a) con il reato abituale in quanto l'una attiene al reo, l'altro riguarda la struttura di determinati reati (ad es. il maltrattamento in famiglia ex art. 572 c.p.); Sesso, 116; negli stessi termini, Riccio, 62 ss. b) con la nozione di medesimo disegno criminoso richiesto dall'art. 81 c.p. legge per la configurabilità del reato continuato: «la volontà di commettere più reati per scelta delinquenziale, dovuta alla generica deliberazione di persistere nella condotta delittuosa, non ha nulla a che vedere con l'unicità del disegno criminoso tra due o più reati. Questa, consistendo in un progetto delinquenziale unitario, nell'ambito del quale la consumazione dei reati sia stata ideata e programmata, con riguardo ai mezzi e alle modalità di esecuzione, anche in un arco di tempo non necessariamente breve, non può essere confusa con l'abitudine a commettere un determinato tipo di reato»: Cass. IV, n. 8897/1993; Cass. IV, n. 5285/1986; Cass. I, n. 15955/2016 ; Cass. VI, n,26867/2017). La struttura della norma
Ratio Èsostanzialmente rinvenuta dalla dottrina nella proclività del soggetto, che si trovi in una determinata situazione, a ripetere reati. E, così, alcuni autori ritengono che «l'abitualità a delinquere è una qualificazione giuridica del soggetto che si eleva, incidendo sul reato, a indice della maggiore gravità del reato stesso, in conseguenza della maggiore antisocialità dell'agente. Viene in considerazione, in quanto situazione personale del soggetto, guardata nella sua generalità, come rivelatrice della probabilità della ricaduta nel reato, onde l'applicazione delle misure di sicurezza [....] si ha quindi una peculiare forma di condotta antigiuridica ed antisociale normativamente prevista e regolata»: Riccio: 66; negli stessi termini, l'opinione di chi ritiene che «l'abitualità criminosa indica la qualità personale dell'individuo che, con la sua persistente attività criminosa, dimostra una notevole attitudine a commettere reati: di essere proclivo al delitto»: Mantovani, PG 2015, 683. Secondo altri autori, «il tipo legale del delinquente abituale è descritto dal legislatore sulla base della legge dell'esperienza, per la quale la ripetizione di un determinato comportamento attenua sempre di più i freni inibitori e rende perciò più facile la commissione di reati» (Fiandaca-Musco, PG, 873). Natura giuridica. La problematica della natura giuridica dell'istituto in esame ruota su due questioni: a) se la normativa che disciplina l'abitualità abbia natura amministrativa o giurisdizionale; b) se abbia o meno natura circostanziale. Il primo quesito è stato ormai risolto definitivamente nel senso che, pur a fronte di datate opinioni che ritenevano la normativa in esame di carattere amministrativo, la più recente dottrina non dubita che, al contrario, la normativa ha carattere giurisdizionale — penalistica in quanto «[...] dall' “abitualità” stessa derivano quali conseguenze giuridiche, non solo le misure di sicurezza, ma anche [...] una «pena accessoria» e numerosi «effetti penali» che sono appunto conseguenze giuridiche la cui natura penalistica non può essere messa in dubbio»: Sesso, 121; Riccio, 65; Marini, 4. Ugualmente, la dottrina più recente è, in modo compatto, schierata nel sostenere che l'abitualità non è una circostanza ma una qualificazione giuridica soggettiva. Infatti, «le circostanze del reato rientrano tra i problemi che attengono al reato, invece l'ipotesi di abitualità nel reato presuppone già risolti tutti i problemi attinenti al reato, tanto è vero che [...] essa fa riferimento, non solo a ipotesi già perfette, ma addirittura a ipotesi di reato per le quali sia intervenuta condanna [...]»: Sesso, 121 ss.; Riccio, 68 ss.; Marini, 4; Romano-Grasso, 113; Alle stesse conclusioni, è pervenuta anche la giurisprudenza secondo la quale l’abitualità è uno status (Cass. S.U., n. 35738/2010) e non una circostanza aggravante (Cass. II, n. 5129/1980). I presuppostiPerché possa essere dichiarata l'abitualità ai sensi della norma in commento, occorrono i seguenti requisiti di seguito indicati che attengono, da una parte, alle condanne precedenti e, dall'altra, alla nuova condanna, rammentando, peraltro che, ex art. 109 c. p. al cui commento si rinvia «la declaratoria di abitualità nel delitto, da cui deriva l'applicazione o la prosecuzione di una misura di sicurezza, richiede la contemporanea sussistenza tanto dei presupposti indicati dall'art. 102 quanto della attuale e concreta pericolosità sociale del soggetto, ai sensi degli artt. 133 e 203 dello stesso codice»: Cass. I, n. 49976/2018. Le precedenti condanne. Le precedenti condanne (passate in giudicato: Romano-Grasso, 115) possono essere emesse anche con una sola sentenza ex art. 107 c.p. Tra le sentenze di condanna rientrano: 1) quelle la cui pena sia stata applicata con sentenza di patteggiamento: «ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato prevista dall'art. 103 c.p. il giudice deve tenere conto anche delle pregresse sentenze di applicazione della pena»: Cass. I, n. 36036/2018; Cass. I, n. 20004/2014; Cass. I, n. 17296/2008; contra: Cass. I, n. 24142/2011; 2) «le condanne straniere quando ad esse sia stato dato riconoscimento in Italia soltanto o anche per il detto fine» ex art. 12 n. 1 (Manzini, Trattato, III, 266). a) le suddette condanne devono essere relative a tre delitti non colposi (quindi, vanno considerate le sole condanne per delitti consumati o tentati dolosi o preterintenzionali mentre sono escluse le condanne per contravvenzioni. È necessario, inoltre, che il soggetto sia stato, condannato alla pena della reclusione, o dell'ergastolo, ove commutata in reclusione: «la legge non esige che il soggetto sia stato anche dichiarato recidivo». «Se si tratta di pena pecuniaria, l'abitualità presunta non può essere dichiarata, giacché chi ha riportato soltanto pene pecuniarie, non può essere presunto socialmente pericoloso, nel concetto della legge»: Manzini, III, 268, 269) della stessa indole (cfr. commento sub art. 101): «l'espressione usata dall'art. 102 «tre delitti non colposi» non indica un numero fisso, ossia non maggiore né minore di tre, ma un numero minimo, cioè uguale o maggiore a tre»: Cass. II, n. 6749/1986; Cass. IV, n. 2036/1985; in dottrina: Riccio, 74; Romano-Grasso, Commentario, 116; Manzini, Trattato, III, 269; contra: Violante, 539, secondo il quale la pena di cinque anni non può essere calcolata su condanne superiori a tre perché, in tal modo, si adotterebbe un'interpretazione in malam partem in quanto la suddetta pena verrebbe ad essere ottenuta dalla somma derivante da un numero superiore di condanne a tre; b) i suddetti delitti devono essere stati commessi entro dieci anni: «per la determinazione del termine di dieci anni entro cui debbono essere commessi i tre delitti non colposi e della stessa indole richiesti dall'art. 102 c.p. ai fini della declaratoria di delinquente abituale in caso di abitualità presunta dalla legge è irrilevante la data delle relative sentenze di condanna, in quanto deve aversi riguardo alle date di perpetrazione dei reati e non alle date delle sentenze»: Cass. II, n. 5574/1984; Cass. II, n. 1777/1968; Cass. I, n. 2946/2021. «nel computo di dieci anni entro il quale deve essere commesso il numero minimo di delitti ai fini della dichiarazione di abitualità presunta dalla legge (art 102 comma primo c.p.), deve essere considerato anche il tempo trascorso in stato di detenzione, giacche l'esclusione del computo della durata della detenzione si riferisce (capoverso del citato art 102) al secondo periodo di dieci anni, cioè al periodo successivo all'ultimo dei delitti precedenti la condanna»: Cass. II, n. 1836/1974; Cass. I, n. 2946/2021; c) i suddetti delitti devono essere stati commessi non contestualmente: «se i delitti furono commessi contestualmente, cioè nello stesso tempo, con una sola o con più azioni od omissioni, la condizione non si verifica, quantunque siano stati distintamente giudicati. Non sarebbe conforme a ragione desumere l'abitualità da una sola manifestazione criminosa, sia pure avvenuta in modo da concretare più delitti. È piuttosto l'occasionalità, che l'abitualità, che in questi casi caratterizza la delinquenza. Ancorché il delitto continuato sia costituito da più reati commessi con più azioni od omissioni verificatesi anche in “tempi diversi”, tali reati tuttavia si considerano con un solo reato, perché uniti dal medesimo disegno criminoso, è però il delitto continuato è reato unico anche per ciò che concerne i requisiti per la dichiarazioni di abitualità»: Manzini, Trattato, III, 270; Riccio, 74, concorda con il fatto «che il reato continuato va considerato come reato unico agli effetti dell’abitualità e della professionalità». Negli stessi termini, Cass. II, n. 6871/1972 secondo la quale « in tutti i casi in cui la data del commesso reato abbia rilevanza agli effetti degli artt. 102, 103, 105 c.p., deve farsi riferimento, se si tratta di reato continuato alla data in cui cessò la continuazione, non potendosi adottare criterio diverso per stabilire la data del reato continuato in tutti i casi in cui esso sia considerato nella sua unita»; conf. Cass. I, n. 36036/2018; contra: Coppi, § 16, secondo il quale, invece ai fini della dichiarazione di abitualità e di professionalità nel reato si deve tenere conto dei singoli reati in continuazione; d) le suddette condanne devono avere comportato una pena superiore a cinque anni di reclusione: «è indifferente la durata della reclusione inflitta per i singoli delitti precedenti, quando, sommate insieme le pene per ciascuno di essi, risulti un complesso superiore ai cinque anni. E ciò, qualunque sia il numero dei delitti anteriori, eguale o maggiore di quello minimo richiesto dalla legge. Nel computo pertanto si tiene conto della reclusione inflitta anche nella sua misura minima. Si devono computare pure le pene di reclusione estinte, per qualsiasi causa che non estingua tutti gli effetti penali della condanna»: Manzini, Trattato, III, 269. La condanna successiva Una volta che siano ritenuti sussistenti, rispetto alle condanne precedenti i requisiti di cui supra, il legislatore ha richiesto che, perché possa essere dichiarata l'abitualità, anche la nuova condanna deve rispondere ai seguenti determinati requisiti: a) il nuovo delitto dev'essere non colposo e della stessa indole di quelli precedenti: vale, quanto alla natura del delitto non colposo, quanto si è detto supra; b) il nuovo delitto dev'essere commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti: Per Manzini, III, 272, «è indifferente la pena riportata per il nuovo delitto [...] la pena per l'ultimo reato, inoltre, può essere non solo la reclusione in qualsiasi misura, ma altresì la sola multa [...] questa nuova manifestazione di delinquenza, invero, ancorché possa ritenersi meno grave delle precedenti, è pur sempre indice sicuro della abitualità criminosa».; La nuova condanna per un delitto, non colposo, della stessa indole, richiesta dall'art 102 c.p. perche, in presenza delle condizioni soggettive ivi enunciate, debba farsi luogo al giudizio di abitualità può anche consistere in una condanna alla sola pena della multa (Cass. V, n. 9002/1980). Dies a quo: «l'abitualità presunta dalla legge può essere dichiarata nei confronti di colui che, dopo aver riportato condanna alla reclusione in misura superiore complessivamente a 5 anni per almeno tre delitti non colposi della stessa indole, commessi entro 10 anni e non contestualmente, subisca altra condanna per delitto non colposo della stessa indole entro 10 anni dall'ultimo dei delitti precedenti e successivamente all'ultima condanna. Il nuovo delitto deve essere, cioè, commesso in data posteriore al passaggio in giudicato della pronuncia dell'ultima condanna concernente precedenti delitti ed in epoca non successiva al termine di 10 anni dalla data di commissione dell'ultimo dei precedenti delitti»: Cass. I, n. 512/1984; Cass. I, n. 2535/1967; Cass. I, n. 2946/2021. In altri termini, il dies a quo: «è il giorno in cui avvenne la consumazione, ovvero cessò la continuazione, la permanenza o il tentativo dell'ultimo de delitti precedenti e non il giorno in cui divenne irrevocabile la sentenza di condanna per tale delitto. E ciò perché la manifestazione della delinquenza si ha con la commissione dei reati e non con la condanna»: Manzini, III, 272; c) a norma del secondo comma dell'art. in commento: nei dieci anni, relativi al nuovo delitto «non si computa il tempo in cui il condannato ha scontato pene detentive o è stato sottoposto a misure di sicurezza detentive». È controverso, quantomeno relativamente all'art. 103 cod. pen. (ma la questione è la medesima perché la locuzione adoperata dal legislatore “riporta un'altra condanna per un delitto non colposo” è identica sia nell'art. 102 che nell'art. 103) se la nuova condanna debba essere o meno passata in giudicato: sul punto cfr. commento subart. 103. Secondo un'autorevole opinione «”la condanna” che qui viene in considerazione, è quella con la quale si provvede sull'abitualità, e quindi non occorre che la sentenza sia divenuta irrevocabile»: Manzini, Trattato, III, 271. L'abitualità nel contrabbando L'art. 297 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 dispone: « È dichiarato delinquente abituale in contrabbando chi riporta condanna per delitto di contrabbando, dopo essere stato condannato per tre contrabbandi preveduti dal presente testo unico o da altra legge fiscale, commessi entro dieci anni e non contestualmente e relativi a violazioni per le quali i diritti sottratti o che si tentava di sottrarre non siano inferiori complessivamente a lire ventitrè milioni duecentotrentacinquemila». L'art. 299, dispone, poi, che «Gli effetti della dichiarazione di abitualità e di professionalità nel contrabbando sono regolati dall'art. 109 del codice penale. Le disposizioni dei due articoli precedenti non pregiudicano l'applicazione degli articoli 102 e 105 del codice penale, quando ricorrono le condizioni ivi prevedute». A sua volta l'art. 342 dispone che la disposizione dell'art. 297 è stabilita in deroga dell'articoli 102 del codice penale. Sul punto, la giurisprudenza ha ritenuto quanto segue: «l'istituto dell'abitualità in contrabbando «presenta particolarità strutturali rispetto all'abitualità comune in quanto nel campo doganale non è prevista l'abitualità da dichiararsi ope iudicis (art 103 c.p.) e alle condizioni stabilite dall'art 102 (condanna per tre delitti commessi nei precedenti dieci anni), è sostituita quella che per i tre delitti commessi nello stesso periodo di tempo si sia compiuto o tentato di compiere una frode di diritti di confine per un ammontare di almeno cinquantamila lire. Peraltro, per gli effetti del contrabbando abituale si applicano le disposizioni previste dalla legge penale comune perché per essi l'art 114 della legge doganale si riporta all'art 109 c.p. la dichiarazione di abitualità in contrabbando comporta, quindi, l'applicazione delle misure di sicurezza previste dagli artt 216 e 226 c.p per i delinquenti abituali comuni e i particolari effetti indicati da altre disposizioni di legge»: Cass. III, n. 397/1970; «l'abitualità in contrabbando, pur essendo strutturata in modo autonomo con riferimento alle condizioni richieste perché possa essere dichiarata, non si sottrae, quanto alla procedura relativa alla sua dichiarazione, alla generale disciplina prevista dal codice penale per l'abitualità di cui agli articoli 102 e 103 dello stesso codice. Pertanto, anche la delinquenza abituale in contrabbando può essere dichiarata,ai sensi degli artt. 109,204 e 205 c.p., dal giudice di sorveglianza se il giudice di cognizione, ricorrendone le condizioni,abbia omesso di provvedervi»: Cass. II, n. 1953/1967; «la declaratoria di abitualità è regolata dall'art. 297 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 con una disciplina che presenta particolarità strutturali rispetto a quella fissata, in via generale, dagli artt. 102 e 103 c.p. Tale particolare disciplina pone una presunzione ex lege che vincola la discrezionalità del giudice, per cui questi, una volta verificata l'effettiva sussistenza della condizione di recidiva specifica normativamente stabilita, ha l'obbligo della dichiarazione ed è privato del potere di effettuare qualsiasi valutazione in ordine alla personalità dell'imputato ed alla gravità delle violazioni precedentemente commesse»: Cass. III, n. 13533/1999; Cass. III, n. 10302/1996. Profili processuali
Competenza La competenza a dichiarare l'abitualità spetta, normalmente, al giudice della cognizione (Cass. III, n. 36949/2015), o, direttamente alla Corte di Appello, a seguito del riconoscimento della sentenza penale straniera, ex combinato disposto degli artt. 12 comma 1 n. 1 c.p. e 734 c.p.p.; «allorché l'abitualità nel reato non sia stata dichiarata con la sentenza del giudice della cognizione, è competente a provvedere in ordine ad essa il magistrato di sorveglianza»: Cass. I, n. 6646/2008. Tale principio trae il suo fondamento nell'art. 69 L. 10 ottobre 1986, n. 663, il cui quarto comma dispone che il magistrato di sorveglianza «provvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell'articolo 208 del codice penale, nonché all'applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza. Provvede altresì, con decreto motivato, in occasione dei provvedimenti anzidetti, alla eventuale revoca della dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza di cui agli articoli 102,103,104,105 e 108 del codice penale»; a sua volta l'art. 679 c.p.p. dispone che il magistrato di sorveglianza «su richiesta del Pubblico Ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato»; «l'attribuzione della competenza funzionale alla magistratura di sorveglianza in materia di misure di sicurezza personali e di accertamento della pericolosità sociale presuppone che l'impugnazione sia limitata alle sole disposizioni che riguardano le misure di sicurezza, mentre quando l'impugnazione riguarda anche altri «capi» penali della sentenza, ovvero altri «punti» della decisione pur afferenti allo stesso capo, riprende vigore la regola generale che attribuisce la competenza al giudice della cognizione sul merito»: Cass. I, n. 2260/2015 ha ritenuto competente la Corte di appello a decidere sull'impugnazione che riguardava l'accertamento della configurabilità di una istigazione non accolta a commettere un delitto e della sussistenza la pericolosità sociale; «la competenza del magistrato di sorveglianza ad applicare le misure di sicurezza non disposte con la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento ha carattere funzionale e, come tale, in caso di violazione è sempre rilevabile anche di ufficio ai sensi dell'art. 21, comma primo, c.p.p.»: Cass. I, 3108/2015 ha annullato l'ordinanza del tribunale che, dopo l'irrevocabilità della sentenza, aveva provvisoriamente applicato la misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia; alla dichiarazione di abitualità nel reato può provvedere il magistrato di sorveglianza, anche di ufficio ogni volta che, successivamente alla pronuncia di una sentenza di condanna, deve essere ordinata una misura di sicurezza: Cass. I, n. 6926/2009; Cass. I., n. 3082/2015, ha ribadito, ai sensi dell'art. 679 c.p.p., la declaratoria d'ufficio della dichiarazione di abitualità; il giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento delle sole disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza, anche in caso di omessa applicazione delle medesime, con rigetto dell'impugnazione contro i capi concernenti la pena, è devoluto al tribunale di sorveglianza e non al giudice d'appello: Cass. II, n. 45325/2013; la dichiarazione di delinquenza abituale, a cui segue l'applicazione di misure di sicurezza, può intervenire anche in riferimento ad un soggetto che si trovi in stato di espiazione della pena detentiva, dovendo distinguersi tra il momento deliberativo e il momento di esecuzione della misura di sicurezza, a nulla rilevando che sia lontano nel tempo dato che il giudizio di pericolosità è sempre rivalutabile: Cass. I, n. 2698/2011. Contestazione La giurisprudenza maggioritaria ritiene che, in tanto il giudice (della cognizione) può dichiarare, eventualmente, l'abitualità in quanto la medesima sia stata contestata. Sul punto, e sulla relativa problematica (conseguenze), si registrano le seguenti sentenze: «la contestazione delle circostanze che possono importare l'applicazione delle misure di sicurezza, pur non essendo tali circostanze espressamente indicate fra quelle che possono essere contestate nel dibattimento, a norma dell'art 445 c.p.p., può essere fatta, nel dibattimento di primo grado, a termini di detto articolo, ove non sia stata fatta in precedenza in conformità a quanto disposto dagli artt. 384, n 2 e 396, n 2 dello stesso codice. Tale principio deve, a fortiori, trovare applicazione quando l'imputato sia stato tratto a giudizio col rito direttissimo, senza emissione del decreto di citazione. In tale ipotesi se nel capo d'imputazione formulato dal procuratore della repubblica, e riportato sulla copertina del fascicolo processuale, si faccia riferimento alle condizioni previste per la dichiarazione di delinquenza abituale, la contestazione deve ritenersi validamente effettuata nel dibattimento con la lettura dell'imputazione»: Cass. II, n. 843/1973 (principio tutt'ora valido anche con le nuove norme codicistiche di cui agli artt. 517 ss. c.p.p.); «è nulla la sentenza nella parte in cui sia dichiarata l'abitualità a delinquere, se questa all'imputato non sia stata contestata. La mancanza della contestazione, rendendo impossibile il contraddittorio, si risolve nel difetto di uno degli elementi essenziali per la costituzione del rapporto processuale limitatamente alla dichiarazione dell'abitualità e alla conseguente applicazione della misura di sicurezza»: Cass. S.U., n. 5/1964; Cass. II, n. 363/1971; «viola il principio di correlazione fra accusa e sentenza la decisione con cui venga dichiarata l'abitualità a delinquere, se non siano stati previamente contestati all'imputato gli elementi che ne fondano l'esistenza»: Cass. V, n. 2153/2014; «sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ( art. 521 c.p.p. ) nel caso in cui il giudice sostituisca la declaratoria di abitualità contestata , ex art. 103 c.p. , con quella ex art. 102 c.p. , senza il rispetto delle garanzie del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, trattandosi di ipotesi aventi autonome caratteristiche, incompatibili con una automatica fungibilità; ne consegue l'annullamento di detta declaratoria e l'eliminazione della conseguente misura di sicurezza»: Cass. V. n. 27765/2010 ; Cass. I, n. 13016/2006 ; «è nulla per difetto di contestazione, limitatamente alla dichiarazione di abitualità nel reato, la sentenza di condanna pronunciata in relazione ad imputazione che , non contesti l'abitualità, limitandosi, genericamente ad indicare la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale e l'esistenza delle condizioni per la dichiarazione di delinquenza abituale, in assenza d'espresso riferimento alla fattispecie d'abitualità presunta per legge ovvero a quella ritenuta dal giudice: Cass. II, n. 12944/2019; Cass. II, n. 46581/2017; Cass. VI, n. 17884/2009; Cass. S.U., n. 5/1964; Cass. II, n. 363/1971 : In senso contrario, ma minoritario, Cass. IV, n. 32737/2012, secondo la quale: «ai fini della dichiarazione di abitualità non è necessaria la richiesta del pubblico ministero o la contestazione della recidiva, trattandosi di un potere discrezionale che viene esercitato quando il giudice ritenga che, in presenza delle condizioni previste dalla legge, il colpevole sia dedito al reato»; Cass. I, n. 36949/2015; Cass. II, n. 4083/1982, «l'abitualità a delinquere può essere dichiarata anche in difetto di contestazione specifica qualora sia stata contestata la recidiva specifica reiterata infraquinquennale con indicazione degli elementi di fatto che comportano necessariamente la dichiarazione di abitualità», come la particolare gravità dei precedenti penali. Deve, invece, ritenersi ammissibile la contestazione alternativa, in quanto «tale modalità di contestazione non genera alcuna lesione del diritto di difesa, dato che l'imputato è comunque posto nelle condizioni di reagire ad una contestazione esplicita che, pur atteggiandosi come alternativa, è comunque correlata a presupposti definiti, e precisamente individuati dal richiamo - contestuale ed alternativo - agli artt. 102 e 103 cod. pen.; si ribadisce invece che non è possibile procedere alla rilevazione dello status di delinquente abituale in assenza di qualsiasi contestazione (univoca o alternativa che sia), ma esclusivamente sulla base della indicazione della recidiva. A sostegno di tale interpretazione si rileva che la contestazione alternativa, laddove non generica, è pacificamente ammessa dalla Cassazione che ha affermato che in presenza di una condotta dell'imputato tale da richiedere un approfondimento dell'attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati, è legittimo formulare nel decreto che dispone il giudizio contestazioni alternative, in quanto, tale metodo risponde a un'esigenza della difesa, posto che l'imputato è messo in condizione di conoscere esattamente le linee direttrici sulle quali si svilupperà il dibattito processuale (Sez. 5, n. 38245 del 18/03/2004 - dep. 28/09/2004, Garramone ed altri, Rv. 230373; Sez. 5, n. 51252 del 11/11/2014 - dep. 10/12/2014, Saccomani e altro, Rv. 262121)»: Cass. II, n. 8605/2021 Bis in idem Il concetto di abitualità non attiene al reato ma al reo. Pertanto, un eventuale precedente giudicato non rende applicabile il principio della preclusione processuale (ne bis in idem), poiché l'art. 90 c.p.p. (ora art. 649 c.p.p.) limita tale preclusione alla assoluta identità del fatto precedentemente giudicato (Cass. V, n. 6264/1985). Divieto di perizia A norma dell'art. 220 comma 2 c.p.p. «non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità [...] il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche». Decisione Ad avviso di Cass. S.U., n. 10/1987, la decisione sulla dichiarazione di abitualità ex art. 102 c.p. ha natura dichiarativa, quindi, retroagendo ex tunc, gli effetti si producono dal momento in cui i verificarono tutte le condizioni per la declaratoria di abitualità: dal che si è fatto discendere che la suddetta declaratoria «è ostativa alla applicazione dell'amnistia e dell'indulto anche se pronunciata dopo l'emanazione del decreto di clemenza purché i reati e le altre condiciones juris che sono assunti come elementi sintomatici della qualificata pericolosità sociale del soggetto, siano anteriori al decreto clemenziale che esclude il beneficio per i soggetti colpiti da tale declaratoria»: Cass. VI, n. 9053/1985; Cass. I, n. 3256/1986. La suddetta decisione, come si è detto supra (sub competenza), può essere pronunciata anche in fase esecutiva, ma, in tal caso non si tiene conto della successiva condotta del colpevole e rimane ferma la pena inflitta: Mantovani, PG 2015, 686 ss. La decisione può essere adottata anche nei confronti di chi sia affetto da vizio parziale di mente (Cass. V, n. 705/1982; Cass. II, n. 2356/1974. La dichiarazione di abitualità — in quanto comporta l’applicazione di misure di sicurezza — presuppone, come si è detto (v. supra ), un giudizio di pericolosità attuale del condannato. Patteggiamento La dichiarazione di delinquente abituale non può essere pronunciata con la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, in quanto tale dichiarazione richiede una valutazione discrezionale sulla stessa indole dei reati e, inoltre, può comportare, da parte del magistrato di sorveglianza, l'applicazione di una misura di sicurezza, cui osta la pronuncia ex art. 445 c.p.p.»: Cass. V, n. 19623/2008; Cass. IV, n. 49242/2016; Cass. V, n. 27994/2004, specifica che il suddetto principio si applica sia all'abitualità ritenuta dal giudice ex art. 103 tanto a quella presunta dalla legge ex art. 102; Cass. VI, n. 9332/1995; Cass. V, n. 1510/1991; in dottrina: Romano-Grasso, Commentario, 115; contra (isolata): Cass. III, n. 7939/1998 «la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti è equiparata ad una pronuncia di condanna, e tale equiparazione rende possibili gli effetti concernenti la contestazione della recidiva, e la valutazione della sentenza ex art. 444 c.p.p. ai fini dell'ammissione alla sostituzione della pena detentiva, secondo quanto disposto dall'art. 59 l. 24 novembre 1981 n. 689». Effetti Quanto agli effetti della dichiarazione di abitualità, si rinvia al commento dell'art. 109. BibliografiaAmbrosetti, Recidiva e recidivismo, Padova, 1997; Calabria, Pericolosità sociale, in Dig. d. pen., IV, 1995; Coppi, Reato continuato, in Dig. d. pen., 1996; Marini, Abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1982; Riccio, Abitualità e professionalità nel reato in Nss. D. I., I, Torino, 1957; Sesso, Abitualità nel reato, in Enc. dir., I, Milano, 1958; Violante, Sul numero dei delitti necessari alla dichiarazione di abitualità presunta, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1969. |