Codice Penale art. 103 - Abitualità ritenuta dal giudice.Abitualità ritenuta dal giudice. [I]. Fuori del caso indicato nell'articolo precedente, la dichiarazione di abitualità nel delitto è pronunciata anche contro chi, dopo essere stato condannato per due delitti non colposi, riporta un'altra condanna per delitto non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell'articolo 133, ritiene che il colpevole sia dedito al delitto [12, 106, 107, 109; 533 2 c.p.p.]. InquadramentoLa norma in commento prevede la seconda tipologia di abitualità nel delitto: quella “ritenuta dal giudice”. Nell'originaria impostazione codicistica, l'art. 103 si distingueva dall'abitualità presunta dalla legge di cui al precedente art. 102, perché il giudice, oltre che accertare la sussistenza di alcuni presupposti indicati dalla stessa norma, doveva, poi, compiere una valutazione discrezionale sulla base di altri elementi per accertare se, nel caso concreto, vi fossero o meno i presupposti per la declaratoria di abitualità nel delitto: tale momento discrezionale, invece, non era previsto per l'ipotesi di cui all'art. 102, in quanto il giudice, una volta che avesse accertato la sussistenza dei requisiti previsti dalla suddetta norma, era obbligato a dichiarare l'abitualità che, infatti, nella rubrica, è denominata “abitualità presunta dalla legge”. A seguito dell'entrata in vigore della l. n. 663/1986, il quadro normativo è mutato nel senso che, mentre l'art. 103 è rimasto immutato, al contrario, ora, anche l'ipotesi di cui all'art. 102 è soggetta alla valutazione discrezionale del giudice con la conseguenza che «l'unica differenza tra abitualità di cui all'art. 102 e quella di cui all'art. 103 — entrambe ormai, a rigore, “ritenute dal giudice” resta affidata ora alla circostanza che gli indici legali propri della prima comportano una valutazione giudiziale più stringente della pericolosità sociale del soggetto»: Romano-Grosso, Commentario, 115; amplius sub art. 102. Quanto alla ratio e alla natura giuridica, vale quanto detto nel commento all'art. 102, al quale, quindi, si rinvia. I presuppostiPerché possa essere dichiarata l'abitualità ai sensi della norma in commento, occorrono tre presupposti: a) la sussistenza di una serie di requisiti delle condanne precedenti; b) la sussistenza di un determinato requisito della nuova condanna; c) la valutazione del giudice di alcuni requisiti indicati dalla stessa norma. Segue. I requisiti delle precedenti condanneLa norma in commento stabilisce che un soggetto, per essere dichiarato delinquente abituale, deve essere stato condannato, innanzitutto, per due delitti non colposi. Per cosa si deve intendere per “condanna” e “delitti non colposi”, si rinvia al commento dell'art. 102. Piuttosto è rilevante evidenziare le seguenti differenze rispetto all'art. 102: a) la norma richiede solo la condanna per delitti non colposi, non, invece, come nell'art. 102 una condanna alla pena della reclusione: dal che si desume: a1) che è sufficiente anche la condanna che preveda la sola pena della multa; a2) che è irrilevante la misura della pena (reclusione o multa) inflitta in concreto: Manzini, Trattato, III, 274; b) non è richiesto che i delitti non colposi siano della stessa indole; c) non è richiesto che i due delitti non colposi siano stati commessi entro alcun lasso di tempo: quindi, possono essere stati commessi anche dopo dieci anni l'uno dall'altro: Manzini, Trattato, III, 275. Vale, invece, anche per la norma in commento, quanto si è detto, relativamente al problema della contestualità dei reati e del reato continuato (cfr. commento sub art. 102). Segue. Il requisito della condanna successivaUna volta che siano ritenute sussistenti, rispetto alle condanne precedenti i requisiti di cui v. supra, il legislatore ha richiesto che, perché possa essere dichiarata l'abitualità, la nuova condanna deve rispondere al seguente unico requisito: deve trattarsi di condanna “per delitto non colposo” essendo peraltro «indifferente il tempo intercorso tra il penultimo delitto o l'ultima condanna precedente, e il nuovo delitto o la condanna attuale, perché si è ritenuto sufficiente garanzia il giudizio di pericolosità che il magistrato deve istituire nel caso concreto, Il detto tempo sarà valutato liberamente nel giudizio di abitualità» (Manzini, Trattato, III, 275), così come è ugualmente irrilevante che il nuovo delitto non colposo sia o meno della stessa indole di quelli precedenti (Romano-Grasso, 118; Riccio, 75).
In tale ultimo senso, anche un'autorevole opinione secondo la quale «”la condanna” che qui viene in considerazione, è quella con la quale si provvede sull'abitualità, e quindi non occorre che la sentenza sia divenuta irrevocabile»: Manzini, Trattato, III, 271, 275. Cass. I, n. 36036/2018, ha affermato che « Ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato prevista dall'art. 103 cod. pen., il giudice deve tenere conto anche delle pregresse sentenze di applicazione di pena concordata non superiore a due anni di pena detentiva». Segue. La valutazione giudizialeLa norma in commento stabilisce che, una volta che sia accertata la sussistenza dei suddetti requisiti, il giudice ritiene che il colpevole sia dedito al delitto “tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell'articolo 133”. Quanto al problema se la declaratoria di abitualità possa avvenire quando il condannato sta ancora espiando la pena, si rinvia al commento all’art. 109. Questa norma, che presuppone un evidente giudizio discrezionale, ha fatto sorgere il problema dell'individuazione dei parametri ai quali il giudice deve attenersi per il giudizio di abitualità. I requisiti. I requisiti indicati dalla norma sono i seguenti: « specie e gravità dei delitti. Qui può venire in considerazione l'indole medesima o diversa dei delitti, che non ha invece considerazione nei presupposti per la legittimazione del giudizio di abitualità; tempo entro il quale i delitti sono stati commessi (consumati o tentati). Per giudicare dell'abitualità, il giudice deve considerare il tempo intercorso tra i due (o più) delitti precedenti, e il penultimo e l'ultimo, mentre, come abbiamo veduto, il tempo non ha valore rispetto ai presupposti del giudizio di abitualità. Il lungo tempo intercorso tra i vari delitti può costituire elemento per escludere l'abitualità; condotta e genere di vita del colpevole, desunti dai precedenti giudiziari, anche diversi dalle condanne (es.: proscioglimenti per insufficienza di prove), e morali del reo; dal fatto che sia o non sia dedito a stabile lavoro, che abbia o non abbia una famiglia regolare e moralmente ordinata; ecc. Qui possono valutarsi anche le condanne precedenti per quelle contravvenzioni che rivelino immoralità, disonestà, ecc. (ubriachezza, mendicità, giuoco, possesso ingiustificato di oggetti, incauto acquisto, ecc.) e più ancora la già riportata dichiarazione di contravventore abituale; circostanze indicate nel capoverso dell'art. 133 , e cioè quelle che servono ad accertare la capacità a delinquere del soggetto, come i motivi a delinquere, il carattere del reo e la condotta contemporanea o susseguente ai commessi delitti (le altre sono già incluse nelle predette)»: Manzini, Trattato, III, 276. Nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, I, 153, è scritto: «Il progetto ha cura di indicare che il giudice, per formare il proprio convincimento, deve tener conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale furono commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole, e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell'art. 133 [...] Gli elementi che il giudice dovrà tener presenti per stabilire se il condannato è dedito al delitto sono così ampi, che nessuna indagine, in pratica, sarà vietata». Sulla base di tale inequivoca indicazione, la dottrina ha, quindi, ritenuto che l'elencazione non sia tassativa: Manzini, Trattato, III, 276; Riccio, 75. La natura del giudizio Cchiaramente « criminologico è il giudizio sulla concreta dedizione al reato nelle ipotesi degli artt. 103 e 104, per l'esistenza della quale non basta, infatti, accertare la pluralità di recidive, ma occorre un'indagine sulla personalità, da cui risulti che il delitto è una espressione, un habitus della medesima. Pertanto, nelle ipotesi di abitualità ritenuta dal giudice (art. 103) il soggetto non può non essere considerato pericoloso, essendo la pericolosità insita nella accertata abitualità. Nell'ipotesi di abitualità presunta il giudice deve invece, per effetto del citato art. 31 L. n. 663/1986, accertare prima di ordinare la misura di sicurezza la reale pericolosità del soggetto, ai fini della quale un elevato valore indiziante avranno pur sempre gli elementi dell'art. 102 (non abrogato, ma integrato da detto articolo), nonché quelli dell'art. 103 (condotta e genere di vita)»: Mantovani, PG 2015, 684; sostanzialmente, negli stessi termini, Romano-Grasso, Commentario, 118, secondo i quali il giudice deve valutare l'intera personalità del reo al fine di verificare che il «colpevole possa ritenersi dedito al delitto, riveli cioè [....] una particolare consuetudine, ovvero una inclinazione non costituzionale ma “volontativa” alla commissione di delitti dolosi e quindi, una forte probabilità di ulteriori delitti». I criteri giurisprudenziali In relazione ai parametri che la giurisprudenza utilizza per la dichiarazione di abitualità, si può affermare che, sostanzialmente, tre sono i criteri che sono stati valorizzati: 1) il criterio sincretico: sotto tale profilo, la valutazione complessiva della condotta costituisce il criterio principale che è sempre stato costantemente affermato, in quanto si è ritenuto che la valutazione del giudice non deve riguardare esclusivamente la condotta tenuta dal soggetto nell'ultimo periodo di libertà, ma tutta la condotta anteatta, ossia quella tenuta in precedenza e nel periodo ultimo di libertà senza che rilevino termini o periodi prefissati entro i quali siano stati commessi i reati: Cass. V, n. 705/1982; Cass. I, n. 14508/2009; Cass. I, n. 7252/2015; Cass. I, n. 24161/2022. 2) il criterio qualitativo: sotto tale profilo, si è affermato che si deve valutare qualsiasi comportamento o circostanza che si aggiunga alle suddette condanne e che riveli una precisa tendenza a delinquere e, quindi, ad es.: 2.1) una condanna non definitiva per altri gravi reati, tanto più se di indole omogenea che sia sintomatica della qualificata pericolosità sociale del soggetto: Cass. IV, n. 10298/2009; Cass. IV, n. 49325/2004; 2.2) la omogeneità della natura fra le varie condotte criminose in quanto sintomatiche di dedizione al reato (Cass. I, n. 2975/1985; Cass. VI, n. 1110/1997) unitamente alla reiterazione della condotta commessa in tempi ravvicinati: Cass. VI, n. 1110/1997; Cass. IV, n. 535/1989; 2.3) le circostanze che secondo la comune esperienza, recepita dall'art. 133, sono indicative di un determinato tenore di vita antisociale: Cass. V, n. 8492/1983; 3) il criterio quantitativo: in ordine a tale criterio, si registra una diversità di opinione fra chi ritiene che, ai fini della declaratoria di abitualità, sia sufficiente anche il solo dato meramente quantitativo desunto dai precedenti penali (recidiva) (Cass. II, n. 4605/1973; Cass. V, n. 6264/1985; Cass. V, n. 13933/1986 ) e chi, invece, in senso maggioritario ritiene la nullità della sentenza che si limiti genericamente ad indicare la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale, in assenza di espressa contestazione, in forma chiara e precisa, del fatto e delle circostanze sulle quali l'accusa intende fondare la richiesta: Cass. II, n. 34033/2020; Cass. II, n. 12944/2019; Cass. II, n. 46851/2017; Cass. VI, n. 17884/2009; Cass. VI, n. 31743/2003. Peraltro, il contrasto è più apparente che reale in quanto nessuno dubita che la dichiarazione di abitualità non è una specie di “ulteriore” recidiva relativamente alla quale sia sufficiente limitarsi a prendere atto che l'imputato ha commesso un determinato numero di reati: infatti, anche chi valorizza il criterio quantitativo (ossia la mera reiterazione di reati) ritiene pur sempre necessaria una valutazione funditus dei medesimi (omogeneità; motivi a delinquere e gli altri indici di cui all'art. 133 c.p.) dai quali si possa desumere la prognosi negativa sulla personalità dell'imputato e, quindi, l'abitualità a delinquere. Profili processualiRelativamente ai profili processuali si rinvia al commento dell’art. 102, la cui problematica è identica anche all’art. 103, con la sola differenza, «la dichiarazione di abitualità nel reato ritenuta dal giudice ex art. 103 ha natura costitutiva ed efficacia ex nunc, sicché è ostativa all’applicazione dell’amnistia solo quando la sentenza con la quale viene pronunciata sia divenuta irrevocabile all’atto dell’entrata in vigore del decreto di clemenza»; Cass. S.U., n. 9864/1988; Cass. V, n. 12895/1989. Cass. I, n. 46486/2017 ha chiarito che « L'abitualità nel reato di cui all'art. 103 è correttamente contestata mediante il riferimento alla specie dei reati posti in essere, all'arco di tempo entro cui sono stati commessi e, quindi, alla dedizione al crimine dell'imputato, trattandosi di elementi ulteriori e diversi rispetto alla contestazione della mera recidiva.». BibliografiaRiccio, Abitualità e professionalità nel reato, in Nss. D. I., I, Torino, 1957; Sesso, Abitualità nel reato, in Enc. dir., I, Milano, 1958. |