Codice Penale art. 174 - Indulto e grazia (1).

Donatella Perna

Indulto e grazia (1).

[I]. L'indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta [210 2], o la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge [672, 681 c.p.p.]. Non estingue le pene accessorie [19], salvo che il decreto (2) disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna.

[II]. Nel concorso di più reati [71], l'indulto si applica una sola volta, dopo cumulate le pene, secondo le norme concernenti il concorso dei reati [71].

[III]. Si osservano, per l'indulto, le disposizioni contenute nei tre ultimi capoversi dell'articolo 151.

(1) V. l. 31 luglio 2006, n. 241, recante «Concessione di indulto», che all'art. 1 comma 1 così dispone: «1. È concesso indulto, per tutti i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a pene detentive. Non si applicano le esclusioni di cui all'ultimo comma dell'articolo 151 del codice penale». Per i reati esclusi dal beneficio v. il comma 2 del medesimo art. 1, l. n. 241, cit.; per la revoca dell'indulto v. il successivo comma 3.

(2) V. nota 2 sub art. 151.

Inquadramento

L'indulto e la grazia sono tradizionalmente considerati — unitamente all'amnistia — come le primarie forme moderne del potere di clemenza del sovrano. Con il passaggio dalle monarchie assolute ai regimi parlamentari, indulto e amnistia, a differenza della grazia, sono divenute di competenza degli organi elettivi. Nell'ordinamento repubblicano, il potere di concedere l'indulto era originariamente attribuito dall'art. 79 Cost. al Presidente della Repubblica, su legge di delegazione delle Camere, ma la l. costituzionale 6 marzo 1992 n. 1 ha modificato tale norma, escludendo ogni intervento del Presidente, e attribuendo anche la materia dell'indulto alla competenza del Parlamento, che può concederlo solo con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Il termine per l'applicazione dell'indulto è contenuto nello stesso provvedimento che lo concede, ma in nessun caso esso può essere applicato a reati commessi successivamente alla presentazione del relativo disegno di legge.

Il potere di concedere la grazia, invece, è di competenza del Presidente della Repubblica (art. 87, comma 11, Cost.), ma il provvedimento, a destinazione individuale, è soggetto a controfirma ministeriale (art. 89 comma 1, Cost.): la Corte cost. n. 200/2006 ha precisato che esso è un atto sostanzialmente discrezionale del Capo dello Stato, quale organo super partes, chiamato in modo imparziale a verificare se vi siano in concreto le condizioni per l'adozione di un atto di clemenza individuale (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 246 ss.).

Profili di costituzionalità

La tematica del provvedimento di clemenza, in particolare dell'indulto, ha sempre suscitato perplessità sotto il profilo del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., poiché è indubbio che situazioni sostanzialmente identiche vengono trattate in modo diverso a seconda che il fatto criminoso sia posto in essere immediatamente prima o immediatamente dopo il termine previsto nel provvedimento concessorio; si è tuttavia osservato in dottrina che il dubbio di costituzionalità può essere superato, ove si consideri che i fatti compresi nella previsione estintiva o modificativa della sanzione, possono ritenersi irripetibili, e quindi eccezionali (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 246 e ss.).

Sotto altro profilo, la giurisprudenza ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità delle norme che impongono la revoca dell'indulto — allorché si verifichino determinate condizioni — in relazione all'art. 3 Cost., rispetto ai soggetti che usufruiscono di amnistia non revocabile: si è osservato che la disparità di trattamento non è irrazionale, ma deriva da diversa e ragionevole valutazione legislativa di istituti aventi diversa efficacia e sfera di applicazione (Cass., S.U. n. 10/1987).

L'indulto. Profili generali

L'effetto tipico dell'indulto consiste nel condono totale o parziale della pena inflitta, ma esso non si estende alle pene accessorie (salvo che la legge concessoria disponga diversamente), né agli effetti penali della condanna (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 247).

In particolare, la giurisprudenza ha precisato che l'indulto non ha efficacia ablativa rispetto alla recidiva, che può essere quindi contestata anche con riferimento a reati la cui pena, inflitta con precedenti sentenze irrevocabili, sia stata condonata.

In tema di limite dell'aumento di pena ex art. 99, ultimo comma, nel cumulo delle precedenti condanne si deve tener conto anche di quelle a pena detentiva integralmente condonata a seguito di indulto, poiché il beneficio, pur estinguendo la pena e facendone cessare l'espiazione, non ha, però, efficacia ablativa degli altri effetti penali scaturenti "ope legis" dalla condanna (Cass. I, n. 48405/2017).

Allo stesso modo, l'applicazione del beneficio non esclude l'idoneità della sentenza di condanna a fungere da causa risolutiva, ai sensi dell'art. 168 comma 1, n. 2, del beneficio della sospensione condizionale della pena già concesso con altra, precedente, condanna (Cass., S.U. n. 23/1995).

Generalmente si distingue tra indulto proprio, che si ha quando il condono interviene nella fase esecutiva rispetto ad una sentenza irrevocabile (Fiandaca-Musco, PG, 799), e indulto improprio, applicato già in sede di cognizione: secondo la prevalente dottrina l'applicazione del beneficio non presuppone una condanna irrevocabile, posto che il giudice è tenuto ad applicare al momento della decisione tutte le leggi vigenti in relazione al fatto oggetto di giudizio, compresa eventualmente quella sul condono (Marinucci-Dolcini, Manuale, 627).

La giurisprudenza, a sua volta, ha precisato che la mancata applicazione dell'indulto in sede di giudizio di cognizione, non determina alcuna violazione della legge penale e alcuna conseguenza negativa per il condannato, allorché il giudice abbia semplicemente omesso di pronunciarsi sull'applicazione del beneficio, rinviando, implicitamente o esplicitamente, alla sede esecutiva ogni provvedimento al riguardo (Cass. I, n. 2261/2014).

Pertanto, nel caso di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello in ordine all'applicabilità o meno dell'indulto, l'imputato non ha interesse a ricorrere per cassazione, potendo ottenere l'applicazione del beneficio, preclusa solo da una decisione di rigetto del giudice della cognizione, anche in sede esecutiva (Cass. III, n. 15201/2020).

Segue. L'applicazione una sola volta

La regola stabilita dall'art. 174 comma 2 prevede che il condono si applica, nel concorso di più reati, una sola volta, dopo cumulate le pene (cumulo materiale non giuridico), ed ha lo scopo di impedire il superamento dei limiti di legge mediante reiterazione o moltiplicazione del condono.

Secondo la dottrina, in caso di anticipata applicazione del beneficio da parte di più giudici già in sede di cognizione, qualora in concreto venga superata la soglia massima concedibile a norma dell'art. 174, comma 2, il giudicato destinato a formarsi sulla pronuncia non si estenderà anche alle statuizioni sull'indulto relative al quantum dell'applicazione rispetto al singolo reato, e in sede di esecuzione lo stesso P.M. potrà operare la riduzione nei limiti consentiti (Catelani, 311).

La giurisprudenza ha precisato che il giudicato si forma sull'an del beneficio, ma non sulla quantità dello stesso, di talché il giudice dell'esecuzione può ridurre entro i limiti di legge l'indulto applicato con più sentenze di condanna, in misura eccedente quella fissata dal provvedimento di clemenza, senza necessità di revocare i condoni applicati in eccesso, in quanto l'art. 174, comma 2,  stabilisce che l'indulto si applica una sola volta in sede di cumulo (Cass. I, n. 6067/2018).

In altri termini, i provvedimenti applicativi dell'indulto adottati in relazione a singole condanne hanno carattere di provvisorietà, e sono destinati ad essere assorbiti e superati dall'applicazione unitaria del beneficio in sede di cumulo ex art. 174, comma 2 (Cass. I, n. 43684/2007).

Di regola l'indulto viene applicato dal giudice dell'esecuzione in sede esecutiva, e, in caso di pene concorrenti, inflitte con più sentenze di condanna, non può essere imputato ad una singola pena prima che si proceda al cumulo materiale, ma, dopo formato il cumulo, si applica una sola volta, venendo a ripartirsi in modo ideale su tutte le pene cumulate (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 250).

La giurisprudenza ha osservato che, una volta formato il cumulo, il giudice dell'esecuzione deve innanzitutto detrarre in un'unica soluzione la diminuzione per l'indulto, e soltanto successivamente può applicare il criterio moderatore dell'art. 78 c.p. e lo sbarramento del quintuplo della pena più grave (Cass. VI, n. 32955/2008).

Peraltro, la regola stabilita dall'art. 174, comma 2, opera solo a condizione che tutte le pene siano condonabili, poiché nessuna causa di estinzione della pena può operare su un cumulo che comprenda pene sulle quali la causa stessa non può esplicare i suoi effetti: ne deriva che, quando tale situazione non sia realizzata, sarà necessario operare lo scioglimento del cumulo, ovvero separare le pene condonabili da quelle non condonabili, quindi unificare le pene non condonabili con la parte di quelle condonabili eventualmente residuata dopo l'applicazione del beneficio indulgenziale e, infine, se del caso, operare la riduzione prevista dall'art. 78 (Cass. I, n. 8552/2013).

Il criterio moderatore del cumulo giuridico opera quale temperamento legale del coacervo delle sole pene da eseguirsi effettivamente, senza possibilità di inclusione in esso delle pene già coperte dal condono, le quali, altrimenti, verrebbero a godere di un duplice abbattimento, dapprima fruendo dell'applicazione del criterio moderatore di cui all'art. 78, e poi del loro scorporo integrale dal cumulo giuridico (Cass. I, n. 14893/2017).

Segue. Reato continuato

In materia di applicazione dell'indulto al reato continuato, le questioni maggiormente controverse hanno riguardato:

1) l'ipotesi in cui alcuni tra i reati unificati siano esclusi dal beneficio in ragione del titolo;

2) l'ipotesi in cui alcuni tra i reati unificati siano stati commessi dopo il termine di efficacia del provvedimento di clemenza.

Fino alla modificazione dell’art. 81 c.p. intervenuta ad opera dell’art. 8 d.l. n. 99/1974, conv. in l. n. 220/1974, l'orientamento prevalente della giurisprudenza era nel senso della inscindibilità del cumulo, essendo il reato continuato una entità reale e non fittizia, cosicché l'indulto non si considerava applicabile laddove nel cumulo fossero ricompresi alcuni reati esclusi dal beneficio in ragione del titolo, o perché commessi dopo il termine di efficacia del provvedimento di clemenza.

In seguito alla modifica legislativa, le S.U., preso atto che ormai il reato continuato è una fictio iuris, ovvero « la risultante di reati plurimi aventi distinta autonomia e unificati, solo per determinati effetti giuridici, dall'elemento ideativo agli stessi comune, ossia dalla identità del disegno criminoso », si sono pronunciate per la scindibilità del cumulo qualora alcuni dei reati unificati siano compresi nel beneficio ed altri ne siano esclusi in ragione del titolo (Cass., S.U. n. 18/1990), in modo che si possa applicarlo a quelli che vi rientrano.

Successivamente, hanno affermato che il reato continuato va scisso — a meno che non sia diversamente disposto nel provvedimento concessorio — anche nel caso in cui tra i reati unificati ve ne siano alcuni commessi entro il termine di efficacia del provvedimento di clemenza ed altri successivamente: una volta operata la scissione, i fatti riacquistano la loro autonomia, cosicché può anche accadere che quelli commessi successivamente al termine di efficacia, integrino causa di revoca del condono applicato alle pene inflitte per quelli commessi in precedenza (Cass., S.U. n. 2780/1996).

Ha formato oggetto di acceso dibattito anche la determinazione della pena costituente causa di revoca del beneficio in caso di condanna per vari reati unificati dal vincolo della continuazione, tra cui il più grave commesso prima della scadenza del termine di efficacia del beneficio, ed altri successivamente, nei cinque anni dall'entrata in vigore del provvedimento concessorio.

In particolare, si è dibattuto se dovesse considerarsi la pena in concreto irrogata, a titolo di aumento ex art. 81, comma 2, per ciascuno dei reati in continuazione, ovvero la sanzione edittale minima per essi prevista, con massima riduzione consentita da eventuali circostanze attenuanti.

La questione, sollevata dinanzi alle S.U. a proposito della revoca dell'indulto previsto dal d.P.R. n. 394/1990, ma avente portata generale, è stata risolta nel senso che la pena rilevante va individuata, con riguardo ai reati-satellite, nell'aumento di pena in concreto inflitto a titolo di continuazione per ciascuno di essi, e non nella sanzione edittale minima prevista per la singola fattispecie astratta. A tal fine, ove la sentenza non abbia specificato la pena applicata per ciascun reato, spetta al giudice dell'esecuzione interpretare il giudicato (Cass. S.U., n. 21501/2009).

In linea con i principi suesposti, e con i vasti poteri riconosciuti in materia al giudice dell'esecuzione, è stato affermato che spetta ad esso, nel momento in cui procede alla verifica dei presupposti temporali per l'applicazione dell'indulto, in assenza di indicazione da parte del giudice della cognizione, il potere-dovere di interpretare il giudicato, esplicitandone il contenuto e i limiti, anche non chiaramente espressi, al fine di individuare il reato più grave, e di accertarne l'epoca di consumazione (Cass. I, n. 34146/2014).

Ancora, spetta sempre al giudice dell'esecuzione, qualora alcuni dei reati uniti dal vincolo della continuazione siano stati commessi entro il termine fissato per la fruizione del beneficio ed altri successivamente, determinare, ove il giudice della cognizione non lo abbia specificato, il «quantum» di pena attribuibile ai reati che risultano commessi oltre il termine temporale fissato dal provvedimento di clemenza (Cass. I, n. 3986/2013).

Più in generale, si è affermato che se la condanna che viene in considerazione come causa di revoca dell'indulto si riferisce a più reati rispetto ai quali il giudice della cognizione abbia ravvisato il vincolo della continuazione, ai fini della revoca il giudice dell'esecuzione non può tenere conto della pena complessivamente inflitta con tale sentenza, bensì, escluso l'aumento per la continuazione, deve considerare unicamente la pena inflitta per la più grave delle violazioni unificate ex art. 81 cpv., c.p. (Cass. I, n. 16793/2019).

Segue. Tentativo

Accade di frequente che nei provvedimenti clemenziali siano previste esclusioni e limitazioni con riferimento a determinati reati, senza che sia specificato se siano oppure no applicabili anche alle corrispondenti fattispecie tentate.

Secondo la prevalente dottrina, poiché il delitto tentato costituisce un titolo di reato autonomo, deve ritenersi che — in mancanza di espresse disposizioni in tal senso — limitazioni ed esclusioni non si applichino alla fattispecie tentata (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 249).

La giurisprudenza è conforme, come da costante orientamento espresso dalla Cass. S.U., n. 3/1980, secondo cui le esclusioni oggettive in tema di amnistia ed indulto, previste per i reati elencati nei provvedimenti di clemenza, devono intendersi riferite alle sole ipotesi di reato consumato quando solo queste siano indicate, poiché è vietata l' estensione al tentativo, che costituisce una figura criminosa autonoma.

Tuttavia la questione non si presenta sempre di agevole soluzione, come emerge dalle pronunce registrate a proposito dell'applicazione del provvedimento clemenziale concesso con l. 31 luglio 2006, n. 241.

La S.C. ha ritenuto che la esclusione dell'indulto, prevista dall'art. 1, comma 2, lett. b) della l. n. 241/2006, cit., per determinate ipotesi aggravate di delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, non si riferisca ai corrispondenti delitti tentati, operando in tale materia il criterio esegetico dell'ubi voluit dixit (Cass. I, n. 299/2009).

In altra pronuncia, afferente al medesimo provvedimento concessorio, ha invece affermato che la inapplicabilità dell'indulto prevista per i reati aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, opera anche per i delitti tentati, poiché l'art. 1 comma 2, lett. d), della l. n. 241/2006, fa generico riferimento ai «reati per i quali ricorre la circostanza aggravante di cui all'art. 7», senza ulteriori specificazioni (Cass. I, n. 41755/2014).

In motivazione il Collegio ha precisato che va chiarita la distinzione tra le esclusioni previste dall'art. 1, lett. a) e b), l. n. 241/1990 e quella indicata dalla lett. d) dello stesso provvedimento clemenziale: impregiudicata l'autonomia del tentativo rispetto al reato consumato, quando la legge richiama per determinati effetti la fattispecie, senza riferimento alla consumazione o al tentativo, non necessariamente la disposizione attiene soltanto al reato consumato, dovendosi piuttosto verificare l'intenzione del legislatore, ed individuare la ratio della norma: « per i casi di esclusione indicati all'art. 1, lett. a) e b), l. cit., viene fatto espresso riferimento a fattispecie delittuose di cui si indicano gli articoli di legge, tanto da far legittimamente ritenere che il divieto di applicazione dell'indulto non è estensibile alle fattispecie tentate; esse, infatti, operano una selezione specifica e chiusa, vuoi richiamando l'articolo di legge e la rubrica (lett. a), vuoi rinviando ai reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309/1990. Diversamente accade per l'indicazione delle successive lettere, ove si fa riferimento ai reati con una terminologia più ampia, che non può essere casuale, e che ha riguardo, all'evidenza, a tutte le fattispecie per le quali ricorrono le circostanze aggravanti di cui alle lett. c), d) ed e), alle quali il legislatore riconduce un particolare disvalore sul quale fonda la esclusione dell'applicazione del beneficio dell'indulto » (Cass. I, n. 41755/2014).

Segue. Reato circostanziato

Secondo la prevalente dottrina, poiché il reato circostanziato non è un titolo di reato autonomo, l'effetto estintivo previsto per l'ipotesi semplice dovrebbe estendersi anche all'ipotesi circostanziata. Il problema si pone quando l'ipotesi semplice è compresa nel provvedimento clemenziale, mentre quella aggravata è esclusa, ben potendo l'aggravante essere elisa nel giudizio di comparazione ex art. 69 (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 249).

La giurisprudenza ha distinto tra i singoli provvedimenti clemenziali.

Così, ad es., relativamente ai delitti previsti dall'art. 71, commi 1, 2 e 3 della l. n. 685/1975 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ora disciplinati dal d.P.R. n. 309/1990), l'estensione dell'indulto ex d.P.R. n. 394/1990 sarebbe possibile, poiché l'art. 3 d.P.R. n. 394/1990, cit. — limitandosi a sancire l'inapplicabilità del beneficio "ove applicate le circostanze aggravanti specifiche di cui all'art. 74” — allude chiaramente all'esito del giudizio di comparazione. Non sarebbe invece consentita l'estensione dell'indulto ex lege n. 241/2006, poiché l'art. 1, comma 2, lett. b), escludendo l'applicabilità del beneficio ai delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope aggravati ex art. 80, comma 1, lett. a) e comma 2, d.P.R. n. 309/1990, utilizza una formula chiaramente volta a stabilire una esclusione quoad titulum, sganciata cioè dagli esiti di un eventuale giudizio di comparazione (Cass. IV, n. 35703/2007).

Orientamento, questo, confermato da Cass. I, n. 38637/2010, secondo cui il reato di detenzione di sostanze stupefacenti di ingente quantità, di cui agli artt. 71 e 74, comma 2, l. n. 685/1975, è escluso dal beneficio dell'indulto concesso con l. n. 241/2006, essendo posto in rapporto di continuità normativa con la fattispecie degli artt. 73 e 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990, espressamente menzionata tra i reati per i quali il predetto beneficio non opera.

Tuttavia, non costituisce causa ostativa all'applicazione del beneficio il riconoscimento giudiziale dell'aggravante di cui all'art. 74, comma 4, d.P.R. n. 309/1990 non contestata al richiedente, a coimputati nel medesimo reato associativo, nonostante la natura oggettiva della stessa (Cass. I, n. 43936/2017).

Segue. Reato abituale e reato permanente

La giurisprudenza ha precisato che non sussiste il diritto a un indulto frazionato a fronte di un reato abituale, non scomponibile a tal fine in separate condotte: in particolare, nel caso in cui la consumazione del reato si sia protratta in epoca successiva alla scadenza del termine di operatività del provvedimento di concessione dell'indulto, non sussiste il diritto ad un indulto frazionato, con riferimento alla parte di condotta posta in essere nel periodo precedente (Cass. III, n. 364/2020).

Allo stesso modo, in caso di reato permanente, la cessazione della condotta antigiuridica in epoca successiva alla scadenza del termine di operatività dell'indulto previsto dalla l. n. 241/2006, ne preclude l'applicazione, essendo irrilevante l'inizio del momento consumativo del reato in data antecedente al 2 maggio 2006 (Cass. I, n. 18230/2015).

Segue. Pene accessorie

La regola generale stabilita dall'art. 174 è che l'indulto, pur estinguendo in tutto o in parte la pena principale, non estingue le pene accessorie, poiché ad esse è affidata una funzione di carattere generale che il legislatore non ha inteso sacrificare in via di principio mediante l'applicazione del condono (Gianzi, 253).

È fatta salva, tuttavia, la possibilità che il decreto concessorio disponga diversamente, ed infatti sia l'art. 9 d.P.R. n. 744/1981, che l'art. 2 d.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394, hanno espressamente previsto l'estinzione totale delle pene accessorie temporanee, anche in caso di indulto parziale della pena principale.

Pronunciandosi in tema di reato continuato, la giurisprudenza ha precisato che l'applicazione parziale dell'indulto ad una condanna (nel caso di specie si trattava dell'indulto ex d.P.R. n. 394/1990), in riferimento ad uno soltanto dei reati uniti dal vincolo della continuazione, rende condonabili, per intero, le pene accessorie temporanee, anche se le stesse sono relative a reati esclusi in via oggettiva, o ratione temporis, dalla misura clemenziale. Tale principio si ricava dalla formulazione letterale dell'art. 2 d.P.R. n. 394/1990, che appunto prevede la condonabilità per intero delle pene accessorie temporanee conseguenti ad una condanna alla quale venga applicato, anche solo in parte, l'indulto; e costituisce applicazione del più generale principio del favor rei, che consente di sciogliere il vincolo ideologico, che unifica nel reato continuato i singoli fatti criminosi, solo quando da tale operazione possano derivare effetti giuridici favorevoli all'interessato (Cass. I, n. 13376/2004; in senso difforme, tuttavia, cfr. Cass. I, n. 35718/2003).

Segue. Misure di sicurezza

A norma dell'art. 210, comma 2, l'estinzione della pena rende ineseguibile la misura di sicurezza, ove la pena inflitta non sia superiore a dieci anni di reclusione, oppure la misura di sicurezza non consegua a dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato o tendenza a delinquere: in tali casi l'applicazione della misura di sicurezza è impedita dall'estinzione della pena (Cass. III, n. 721/1983).

La giurisprudenza ha affermato che, in presenza di indulto, è preclusa l'applicazione delle misure di sicurezza personali, poiché esse, salvo quanto disposto dall'art. 205, comma 2, n. 3, c.p., conseguono ad una condanna che comporti l'effettiva esecuzione della pena (Cass. III, n. 5500/2009).

È tuttavia ammissibile l'applicazione dell'indulto a pena già espiata, purché sussista un concreto interesse del condannato al conseguimento di qualche effetto favorevole, nella specie consistente, appunto, nella revoca della misura di sicurezza (Cass. I, n. 39542/2007).

Peraltro, costituisce orientamento prevalente della S.C. quello per cui l'esclusione dell'applicazione delle misure di sicurezza in conseguenza dell'estinzione della pena, postula che la pena stessa sia estinta nella sua totalità e non soltanto in parte (Cass. I, n. 1415/2010); ne consegue che il condono parziale della pena irrogata non consente la revoca della misura di sicurezza già applicata (Cass. I, n. 27442/1986).

Segue. Incompatibilità con l'ergastolo

Ai fini del calcolo della soglia di pena per l'ammissione al regime di semilibertà, deve aversi riguardo non già alla pena irrogata con la sentenza di condanna ma a quella in concreto da espiarsi dopo le detrazioni conseguenti all'eventuale applicazione delle cause di estinzione della pena e, in articolare, dell'indulto (Cass. I, n. 3631/2022).

Segue. Pena espiata e rapporti con l'art. 656, comma 5, c.p.p.

L'art. 672, comma 4. c.p.p. stabilisce espressamente che l'indulto deve essere applicato quando il condannato ne faccia richiesta, anche se è terminata l'esecuzione della pena.

È opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza, che l'applicazione dell'indulto ad una pena già espiata presupponga nel soggetto istante un concreto interesse, ravvisabile ad es. nella cessazione di una misura di sicurezza ex art. 210 (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 253), o nella possibilità che la pena condonata possa essere imputata ad espiazione di altra pena in esecuzione (c.d. fungibilità), a nulla rilevando che « il reato in relazione alla cui pena si prospetta la fungibilità sia escluso dall'indulto, perché alla condanna per tale reato non è il beneficio del condono che viene ad essere applicato (neppure indirettamente), quanto piuttosto il sistema di cui all'art. 657 c.p.p., che costituisce una sorta di riparazione (assistita da garanzia costituzionale ex art. 24 Cost., u.c.) in forma specifica per la detenzione risultata ex post ingiusta in quanto patita in relazione a pena condonabile » (Cass. I, n. 41582/2009).

A tal fine l'art. 657, comma 2, c.p.p., prevede ora espressamente che il pubblico ministero computa il periodo di pena detentiva espiata per un reato diverso: quando la relativa condanna è stata revocata; quando per il reato è stata concessa amnistia; quando è stato concesso indulto, nei limiti dello stesso.

Quanto fin qui detto, presuppone che vi sia una specifica istanza dell'interessato, sicché l'applicazione dell'indulto a pena già espiata non può essere disposta dal giudice dell'esecuzione sulla base della sola istanza del pubblico ministero (Cass. I, n. 16927/2010); tuttavia, ove la richiesta del pubblico ministero sia stata rigettata, deve ritenersi inammissibile l'analoga istanza proposta dall'interessato, sulla base delle stesse ragioni ritenute infondate, ed in assenza di nuovi elementi (Cass. I, n. 32401/2014; diversamente, cfr. Cass. I, n. 4228/2010).

Costituisce, poi, orientamento assolutamente prevalente della S.C. che il pubblico ministero, nell'emettere l'ordine di esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva, nella determinazione della pena ancora da espiare, deve tenere conto anche del beneficio dell'indulto, sebbene non ancora concretamente applicato dal giudice dell'esecuzione, e deve sospendere provvisoriamente l'esecuzione, ove all'esito del calcolo così effettuato la pena non superi i limiti previsti dall'art. 656, comma 5, c.p.p. (Cass. I, n. 39285/2010).

Anzi, un ordine di esecuzione del pubblico ministero che non tenga conto dell'indulto in relazione alla intera pena da eseguire, ancorché il beneficio non sia stato ancora applicato dal giudice dell'esecuzione, rende configurabile il diritto all'equa riparazione per la detenzione eventualmente patita: si argomenta che, pur spettando al giudice dell'esecuzione la valutazione dell'eventuale applicabilità o meno del provvedimento di clemenza, e l'eventuale statuizione sull'estinzione della pena, non può escludersi un'anticipata incidenza del condono ai fini della sospensione dell'esecuzione prevista dall'art. 656, comma 5, c.p.p. (Cass. IV, n. 30492/2014).

Segue. Sentenze straniere e mandato di arresto europeo

L'orientamento dominante della S.C., era nel senso della inapplicabilità dell'indulto alle condanne irrogate dal giudice straniero e che sono in esecuzione in Italia, e ciò sul presupposto che l'art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 (ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. 25 luglio 1988, n. 334), norma eccezionale, e quindi insuscettibile di interpretazione analogica o estensiva, non indica l'indulto tra i benefici accordabili da ciascun Paese, facendo espresso riferimento solo alla grazia, all'amnistia, e alla commutazione della pena (Cass. I, n. 19076/2007).

Operando un netto revirement giurisprudenziale, le S.U., con sentenza n. 36527/2008, hanno affermato che l'indulto si applica anche alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione citata: il mero dato testuale, che fa leva sull'omessa menzione dell'indulto nell'art. 12 della Convenzione, non appare dirimente, tenuto conto della semplificazione delle formule, necessariamente comprensive di istituti equivalenti in un contesto multilaterale.

Al contrario, « argomenti logici e sistematici militano [...] a favore della tesi che interpreta il citato art. 12 nel senso che gli Stati contraenti hanno fatto riferimento alla grazia, all'amnistia e alla commutazione della pena non con l'intento di limitare i benefici concedibili ai condannati, ma per designare qualsiasi, equivalente, istituto che, nell'ambito dei singoli ordinamenti, corrisponde all'esercizio di un potere di clemenza, sia in forma individuale che generalizzata, diretto alla sostanziale riduzione della pena » (Cass. S.U., n. 36527/2008, cit.).

In applicazione di tali principi, è stato ritenuto concedibile l'indulto anche a colui il quale, dopo essere stato consegnato a seguito di mandato di arresto europeo ad uno Stato estero ed ivi condannato, sia stato rinviato in Italia ai sensi dell'art. 19, lett. c), l. 22 aprile 2005, n. 69, per ivi scontare la pena (Cass. I, n. 22848/2011); e a colui la cui consegna allo Stato estero per l'esecuzione della pena sia stata rifiutata, a norma dell'art. 18, comma 1, lett. r), l. n. 69/2005, cit., e sia stata disposta l'esecuzione della pena stessa nello Stato (Cass. VI, n. 13480/2010).

Rapporti con le misure cautelari

La semplice possibilità di una eventuale, futura, applicazione dell'indulto ai reati per cui si procede, non determina il divieto di applicare una misura coercitiva, né influisce sul suo mantenimento.

Le Sezioni Unite, pronunciandosi in argomento, hanno affermato che la concedibilità dell'indulto diviene causa ostativa all'applicazione o al mantenimento di una misura cautelare, solo se esso risulti oggettivamente applicabile in base ad elementi certi, che ne rendano probabile la futura concessione, aggiungendo che, quando « la posizione giuridica del soggetto sia complessa, con pluralità di procedimenti e di pendenze a suo carico, la semplice prospettiva d'applicabilità di un provvedimento indulgenziale — la cui concreta incidenza in relazione ai reati per cui si procede può essere apprezzata soltanto in sede esecutiva — non rende operativo il divieto, stabilito dall'art. 273, comma 2, c.p.p., di applicare o mantenere misure coercitive se «sussiste» una causa d'estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata » (Cass., S.U. n. 1235/2011).

Rapporti con le cause di estinzione del reato e con le altre cause di estinzione della pena

Si rinvia in proposito sub art. 183.

Rapporti con le sanzioni sostitutive

La prevalente giurisprudenza ritiene che la dichiarazione di estinzione della pena per indulto è provvedimento più favorevole all'imputato rispetto alla applicazione di una sanzione sostitutiva, la quale, seppure meno afflittiva rispetto alla detenzione, costituisce pur sempre una pena da espiare (Cass. VI, n. 10019/2010).

Tuttavia, non vi è incompatibilità tra indulto e conversione della pena: anche la sanzione sostitutiva può formare oggetto del beneficio, e l'imputato ha interesse ad ottenerli entrambi, in particolare quando la pena da infliggersi da parte del giudice della cognizione consente la sostituzione con quella pecuniaria.

Si è infatti osservato che una volta disposta la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, il reato deve essere considerato come sanzionato con quest'ultima anche ai fini dell'applicazione dell'indulto (in particolare quello previsto dalla l. n. 241/2006), poiché, in applicazione dell'art. 57, comma 2, l. n. 689/1981, la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva (Cass. I, n. 51694/2018).

Rapporti con le sanzioni in tema di responsabilità degli enti

Un cenno merita la questione relativa alla applicabilità dell'indulto alle sanzioni previste in caso di responsabilità da reato degli enti immateriali dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: in proposito, la giurisprudenza ha, infatti, precisato che il beneficio, operando con riferimento alle pene detentive e pecuniarie, non è applicabile alle sanzioni previste dall'art. 9 del citato d.lgs., che sono sanzioni collegate ad una responsabilità di natura amministrativa e non penale (Cass. I, n. 21724/2018).

 

Rapporti con la semilibertà

Per essere ammesso alla semilibertà il reo deve aver scontato almeno metà della pena (20 anni per il condannato all'ergastolo), e la condanna deve essere superiore ai sei mesi: per costante giurisprudenza, ai fini del raggiungimento del limite minimo di pena scontata per la concessione della misura alternativa della semilibertà, non deve tenersi conto dell'indulto, ma solo dei periodi di pena effettivamente espiata, ai quali va sommato l'eventuale beneficio della liberazione anticipata (Cass. I, n. 43080/2012).

Rapporti con la liberazione anticipata

La pena condonata, non essendo stata effettivamente scontata, non può rientrare nei semestri valutabili ai sensi dell'art. 54 l. 26 luglio 1975 n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario) ai fini della concessione della liberazione anticipata (Cass. I, n. 4687/1995).

Rapporti con la sospensione condizionata della esecuzione della pena

A norma dell'art. 1, l. 1 agosto 2003 n. 207, nei confronti del condannato che ha scontato almeno la metà della pena detentiva, è sospesa per la parte residua la pena nel limite di due anni, salvo quanto previsto dai commi 2 e 3 della medesima disposizione.

La S.C. ha precisato che ai fini della concessione della sospensione condizionata, non si considera come pena scontata quella estintasi per effetto di indulto (Cass. I, n. 46091/2007).

Esclusioni soggettive

Circa le esclusioni soggettive alla concessione dell'indulto, salvo che il provvedimento clemenziale disponga diversamente, l'art. 174 richiama l'art. 151, u.c., c.p.: pertanto il beneficio non è applicabile ai recidivi aggravati e reiterati, né ai delinquenti professionali, abituali o per tendenza (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 253). Trattasi, come la S.C. ha affermato, di un effetto indiretto della circostanza aggravante della recidiva (Cass. S.U. n. 20808/2019).

Peraltro, la dichiarazione di abitualità a delinquere, tanto nell'ipotesi dell'art. 102 c.p., quanto in quella del successivo art. 103, ha natura dichiarativa e non costitutiva, e quindi è ostativa alla applicazione dell'amnistia e dell'indulto, anche se pronunciata dopo l'emanazione del decreto di clemenza, purché i reati e le altre condiciones juris che sono assunti come elementi sintomatici della qualificata pericolosità sociale del soggetto, siano anteriori al decreto clemenziale che esclude il beneficio per coloro i quali sono colpiti da tale declaratoria (Cass. VI, n. 9053/1985).

Revoca del beneficio

La revoca in oggetto non va confusa con la diversa situazione in cui occorre ridurre l'indulto che sia stato applicato, con separati provvedimenti, in misura complessivamente superiore a quella prevista, poiché in tale caso non di revoca si tratterà, ma di ridimensionamento, da operare in sede esecutiva, mediante l'applicazione unitaria del beneficio, sul cumulo delle pene concorrenti.

Ciò detto, l'indulto può essere sottoposto ad obblighi o condizioni (Pagliaro, Principi, 746), che possono avere carattere sospensivo o risolutivo; in quest'ultimo caso, dal verificarsi della condizione — in genere una condanna successiva all'applicazione del condono (valgono anche le condanne riportate all'estero, se riconosciute in Italia: Cass. I, n. 4379/1992) — dipendono la decadenza o la revoca del beneficio.

Il provvedimento di revoca ha natura dichiarativa, poiché ha ad oggetto una decadenza già avvenuta ope legis al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna inflitta per il nuovo reato (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 256) e, ove la sentenza di condanna sia prevista quale causa di revoca del beneficio, ne impedisce ancor prima l'applicazione.

Dopo varie oscillazioni, la giurisprudenza sembra ormai considerare la sentenza d'applicazione di pena su richiesta delle parti quale titolo idoneo alla revoca di diritto dell'indulto condizionato, quando si riferisca ad un delitto non colposo commesso nei cinque anni dall'entrata in vigore della legge che ha concesso il beneficio (nella specie, trattavasi di indulto ex l. n. 241/2006: Cass. I, n. 43158/2008).

Di revoca dell'indulto deve poi parlarsi nell'ipotesi in cui questo sia stato erroneamente concesso, in presenza di una causa ostativa alla concessione: in tal caso il giudice dell'esecuzione può revocare il beneficio sulla base della considerazione di una causa ostativa preesistente al riconoscimento del condono, a condizione che essa non fosse nota al giudice concedente e non abbia costituito oggetto di valutazione, anche implicita, da parte di quest'ultimo (Cass. I, n. 33916/2015).

L'indulto previsto dalla l. 31 luglio 2006, n. 241

La l. n. 241/2006 ha concesso l'indulto per i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nella misura non superiore ai tre anni per le pene detentive, e non superiore ad euro 10.000 per quelle pecuniarie, sole, o congiunte a pene detentive.

Esclusioni soggettive

L'art. 1 l. n. 241/2006 prevede espressamente che non si applicano le esclusioni (soggettive) di cui all'art. 151, ultimo comma, c.p., sicché il beneficio può essere concesso anche ai recidivi, ai delinquenti abituali, professionali e per tendenza.

Esclusioni oggettive

L'art. 1 comma 2 l. n. 241/2006 prevede alcune rilevanti esclusioni oggettive, legate a determinate tipologie di gravi reati (associazione sovversiva, terrorismo internazionale, usura, sequestro a scopo di estorsione, ecc.), o a specifiche aggravanti, tra cui quella prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella l. 12 luglio 1991 n. 203 (agevolazione o metodo mafioso), rispetto alla quale la giurisprudenza ha affermato che l'esclusione dall'indulto opera sia quando accede a reati consumati, sia quando accede a delitti tentati (Cass. I, n. 43037/2008).

Peraltro, sempre in argomento, si è affermato che è illegittima la mancata applicazione dell'indulto concesso ex lege n. 241/2006 in relazione ai reati commessi in epoca anteriore all'entrata in vigore della citata aggravante, e che il giudice di merito deve scindere le pene inflitte per i reati in continuazione, applicando il provvedimento di clemenza ai delitti commessi in data antecedente all'entrata in vigore dell'aggravante medesima (Cass. I, n. 40265/2012).

Il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti costituita al fine di commettere fatti di lieve entità ex art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/1990, costituisce fattispecie autonoma di reato e non mera ipotesi attenuata del reato associativo previsto al primo comma della medesima norma; pertanto, a tale associazione, anche se aggravata ai sensi dell'art. 74, commi 4 e 5, è applicabile l'indulto ex l. n. 241/2006, poiché il divieto di applicazione del beneficio, previsto dall'art. 1, comma 2, lett. b) per le ipotesi di cui all'art. 74, commi 1, 4 e 5, d.P.R. n. 309/1990, si riferisce alla sola partecipazione alla figura associativa principale.

Revoca

A norma dell'art. 3 della l. n. 241/2006, cit., l'indulto è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge stessa, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni.

Trattasi dunque di un beneficio sottoposto alla condizione risolutiva della commissione, nel quinquennio a far tempo dal 1° agosto 2006, di un delitto non colposo per il quale sia inflitta una condanna a pena detentiva non inferiore a due anni: a tal fine è sufficiente che il delitto sia stato commesso entro il termine predetto, e non anche che, prima della sua scadenza, sia intervenuta la relativa sentenza di condanna (Cass. I, n. 34228/2015).

Quando si tratta di reato permanente, per la revoca del beneficio è sufficiente che, nel quinquennio in questione, sia caduto un qualsiasi segmento della permanenza nel reato (Cass. I, n. 42384/2016).

Nel caso di reati unificati dal vincolo della continuazione, la pena cui fare riferimento non è quella complessiva, ma quella inflitta per ciascuno di tali reati, da individuarsi, qualora si sia proceduto con le forme del rito abbreviato, nella pena finale determinata dopo la diminuzione per il rito (Cass. I, n. 48501/2019).

Profili processuali

Indulto e “patteggiamento”

In linea generale, la giurisprudenza ha affermato che l'applicazione dell'indulto, a differenza della sospensione condizionale della pena, è sottratta alla disponibilità delle parti e non può formare oggetto dell'accordo ex art. 444 c.p.p. sicché, ove prevista, va considerata tamquam non esset e non vincola il giudice (Cass. III, n. 41875/2008); inoltre, l'intervenuta estinzione della pena concordata per indulto, non osta al verificarsi dell'effetto estintivo del reato, qualora ricorrano i presupposti di cui all'art. 445, comma 2, c.p.p. (Cass. I, n. 45296/2013).

L'indulto in executivis

Per l'applicazione in fase esecutiva dell'indulto è competente in via principale il giudice dell'esecuzione (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 257).

Nel caso si tratti di soggetto raggiunto da più condanne emesse da giudici diversi, è sempre competente quello che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo (Cass. I, n. 364/2008), anche se la questione non riguarda la sentenza da lui emessa (Cass. I, n. 10475/2017).

Pertanto, in caso di omessa pronuncia in merito da parte del giudice d'appello, l'imputato non ha interesse a ricorrere per cassazione, potendo ottenere l'applicazione del beneficio in sede esecutiva, a meno che il giudice d'appello non ne abbia negato l'applicazione (Cass. III, n. 710/2013), principio, questo, anche recentemente ribadito (Cass. II, n. 21977/2017); e se l'indulto non è mai stato chiesto nelle fasi di merito, la questione non è deducibile in cassazione (Cass.,S.U.n. 2333/1995).

Il procedimento è previsto dall'art. 667, comma 4, c.p.p.: il giudice dell'esecuzione provvede senza formalità, quindi anche d'ufficio, con ordinanza, contro la quale è ammessa opposizione (preclusiva del ricorso per cassazione: Cass. I, n. 12594/2015), nel termine di decadenza di quindici giorni dalla relativa comunicazione o notificazione.

Il giudizio conseguente all'opposizione deve svolgersi in contraddittorio, con procedura partecipata camerale ordinaria (art. 666 c.p.p.) e non con procedura de plano: qualora sia adottata quest'ultima, il provvedimento che la conclude è viziato da nullità assoluta ex art. 179, comma 1, c.p.p., per omesso avviso all'interessato e, comunque, per assenza del difensore, non posto in grado di intervenire all'udienza (Cass. I, n. 48214/2008).

L'inutile decorso del termine per proporre opposizione determina la formazione del c.d. giudicato esecutivo, in forza del quale la richiesta non può essere più riproposta ove basata sui medesimi elementi (art. 666, comma 2 c.p.p.), ed è inammissibile anche se avanzata da soggetto diverso (Cass. I, n. 32401/2014).

Costituiscono elementi nuovi, di fatto o di diritto, idonei a superare la preclusione suddetta, quelli cronologicamente sopravvenuti alla decisione, o anche quelli pregressi o coevi che, tuttavia, non abbiano formato oggetto di considerazione, neppure implicita, da parte del giudice (Cass. I, n. 7877/2015).

Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, è ormai considerato un novum che rende ammissibile la riproposizione, ex art. 666 comma 2 c.p.p., della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata: esso può cioè costituire quell'elemento di novità idoneo a superare la preclusione del c.d. "giudicato esecutivo” (Cass.,S.U. n. 18288/2010).

Hanno affermato le S.U. che il giudice nazionale ha l'obbligo di interpretare la normativa interna in senso conforme alle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ed in particolare in senso conforme al principio di legalità sancito dall'art. 7 CEDU, che — così come interpretato dai giudici europei — ricomprende nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale. In tale prospettiva, dunque, il mutamento giurisprudenziale che assuma carattere di stabilità, e in specie quello espresso dalle Sezioni Unite, va incluso nel concetto di nuovo «elemento di diritto», idoneo a superare la preclusione di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p.

Casistica

Le condizioni o gli obblighi cui può essere subordinato l'indulto possono essere previsti, ai sensi degli artt. 174, comma 3, e 151 c.p., solo dalla legge che concede la causa estintiva della pena e non dal giudice che applica il beneficio. Quindi il giudice della cognizione non può subordinare la concessione del condono al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile; tuttavia, il giudice della esecuzione non può, a sua volta, revocare un beneficio così concesso, poiché tale causa di revoca non è prevista dalla l. n. 241/2006 (Cass. I, n. 16743/2013).

La sospensione condizionale della pena non può essere concessa in presenza di una precedente condanna a pena interamente condonata per intervenuta concessione dell'indulto che, cumulata con quella da infliggere, determini il superamento dei limiti di cui all'art. 163 c.p. (Cass. I, n. 13990/2020).

Anche l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto dal giudice con la sentenza di condanna, non può formare oggetto di indulto, poiché questo — integrando una causa estintiva della pena — non può estinguere una sanzione amministrativa, qual è la demolizione del manufatto abusivo conseguente alla condanna (Cass. III, n. 7228/2011).

Il diritto alla riparazione dell'ingiusta detenzione, ai sensi dell'art. 314 c.p.p., non spetta quando sia stata posta in esecuzione una pena per la quale sia stato concesso indulto soggetto a revoca di diritto non ancora disposta, a condizione che essa venga successivamente pronunciata (Cass. IV, n. 18550/2014).

La grazia. Profili generali

La grazia è un provvedimento individuale di clemenza con efficacia sulle pene inflitte ma non sulle pene accessorie né sugli altri effetti penali della condanna, e può riguardare sia il condono totale o parziale della pena, sia la commutazione in altra specie di pena (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 258).

Trattasi di un atto di diritto pubblico, di natura politica, da considerarsi atto presidenziale in senso stretto, manifestazione di un potere di supremazia che presuppone una sentenza irrevocabile, e pertanto una domanda di grazia formulata prima della irrevocabilità di una pronuncia non potrebbe che ritenersi inammissibile (Pomanti, 204 ss.).

La domanda di grazia, nel caso non sia presentata dall'interessato, prescinde dal consenso di questi, il quale ha solo l'obbligo, e non il diritto, di scontare la pena (Marinucci-Dolcini, Manuale, 593); il relativo procedimento, giusto quanto disposto dall'art. 681, comma 4 c.p.p., può essere avviato anche d'ufficio.

Molto si è discusso circa il ruolo rivestito nel procedimento dal Ministro della giustizia, il quale è competente ad effettuare l'istruttoria sulla grazia, a predisporre il decreto di concessione, a controfirmarlo e a curarne l'esecuzione.

La Corte costituzionale, in un'importante pronuncia emessa in un giudizio per conflitto di attribuzioni sollevata dal Capo dello Stato nei confronti del rifiuto del Guardasigilli di formulare la proposta di grazia e predisporre il decreto di concessione, malgrado il Presidente della Repubblica avesse manifestato la volontà di concedere la grazia, ha precisato che il Ministro della giustizia non può impedire la prosecuzione dell'iter volto alla concessione del provvedimento clemenziale, ed ha quindi annullato la nota ministeriale con la quale esso aveva opposto il proprio rifiuto alla determinazione del Capo dello Stato di procedere alla concessione del beneficio.

In altri termini, al Ministro non spetta alcun potere di veto, cosicché la controfirma ministeriale sul provvedimento concessorio costituisce solo l'atto con il quale esso attesta la completezza e la regolarità dell'istruttoria e del procedimento (Corte cost., n. 200/2006).

Sembra quindi convincente l'opinione secondo cui l'esercizio del potere di grazia si fonda su ragioni strettamente individuali ed ha finalità essenzialmente umanitarie, tali da giustificare l'adozione di un atto di clemenza individuale; diversamente, laddove i criteri ispiratori non attengano a singoli soggetti ma a classi di condannati o condannabili beneficiari, si dovrà provvedere con l'indulto (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 260).

Segue. La grazia condizionata

Il provvedimento di grazia può essere sottoposto a condizioni, come previsto dall'art. 681, comma 5 c.p.p., che richiama l'art. 672, comma 5 c.p.p.

In tal caso esso esso ha l'effetto di sospendere l'esecuzione della sentenza o del decreto penale fino alla scadenza del termine stabilito dal decreto di concessione (o comunque fino alla scadenza del quarto mese dal giorno della pubblicazione del decreto): se entro il termine di scadenza saranno adempiuti condizioni ed obblighi previsti nel provvedimento concessorio, la grazia sarà applicata definitivamente; altrimenti, il giudice dell'esecuzione procederà alla revoca, il che induce a ritenere che tali condizioni abbiano carattere sospensivo (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 260); ma è preferibile l'orientamento secondo cui esse hanno a volte carattere sospensivo, a volte risolutivo, a seconda dei casi (Gianzi, 199).

Le condizioni generalmente apposte sono le seguenti: il non aver riportato condanne per delitti non colposi, puniti con pene di una determinata entità, entro un determinato periodo di tempo successivo alla concessione della grazia; il risarcimento del danno derivante dal reato entro un certo periodo di tempo; il pagamento di una somma alla Cassa delle ammende; il divieto di soggiorno in un determinato comune o in più comuni, di norma per i condannati all'ergastolo (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 261).

La giurisprudenza sembra invece considerare le condizioni apposte ai provvedimenti di grazia come risolutive: si è infatti precisato che il provvedimento di grazia sottoposto alla condizione risolutiva della commissione di un nuovo reato entro un termine predeterminato, è revocabile di diritto ex art. 674 c.p.p., al verificarsi della condizione stessa, essendo irrilevante che esso non sia stato notificato al beneficiario, dal momento che nessuna norma stabilisce un tale obbligo (Cass. II, n. 43909/2003).

Va da ultimo precisato che la revoca della grazia non è di ostacolo alla riproposizione di una nuova domanda di clemenza, in mancanza di una norma che impedisca una nuova formulazione dell'istanza (Pomanti).

Profili processuali

Una volta emesso il decreto di grazia, se si tratta di grazia condizionata, si applica l'art. 672, comma 5 c.p.p.; altrimenti il pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione competente ordina, se del caso, la liberazione del condannato e adotta i provvedimenti conseguenti (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 262).

Pendendo l'iter per la concessione della grazia, l'esecuzione della pena può essere differita per un periodo massimo di sei mesi, decorrenti dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, anche se la domanda di clemenza è stata rinnovata. La competenza in materia è attribuita al Tribunale di sorveglianza ex artt. 147, comma 1, n. 1, e 684, comma 1 c.p.p. (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 263).

Bibliografia

Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, 2002; Gianzi, voce Grazia, (diritto processuale penale), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; Gianzi, voce Indulto, (diritto penale), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971; Pomanti, I provvedimenti di clemenza, Milano, 2008.

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