Codice Penale art. 179 - Condizioni per la riabilitazione 1 .Condizioni per la riabilitazione 1. [I]. La riabilitazione è conceduta [683 1 e 2 c.p.p.] quando siano decorsi almeno tre anni 2 dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o siasi in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. [II]. Il termine è di almeno otto anni 3 se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99. [III]. Il termine è 4 di dieci anni se si tratta di delinquenti abituali [102, 103], professionali [105] o per tendenza [108] e decorre dal giorno in cui sia stato revocato l'ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro [216]. [IV]. Qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena ai sensi dell'articolo 163, primo, secondo e terzo comma, il termine di cui al primo comma decorre dallo stesso momento dal quale decorre il termine di sospensione della pena (5). [V]. Qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena ai sensi del quarto comma dell'articolo 163, la riabilitazione è concessa allo scadere del termine di un anno di cui al medesimo quarto comma, purché sussistano le altre condizioni previste dal presente articolo 5. [VI]. La riabilitazione non può essere conceduta quando il condannato: 1) sia stato sottoposto a misura di sicurezza [215], tranne che si tratti di espulsione dello straniero dallo Stato [235] ovvero di confisca [240], e il provvedimento non sia stato revocato; 2) non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato [185, 186], salvo che dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle. [VII]. La riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dichiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta.6
[1] Per la riabilitazione relativa ai fatti commessi dai minori degli anni diciotto, v. art. 24 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, conv., con modif., nella l. 27 maggio 1935, n. 835. In ordine alla riabilitazione che può essere chiesta dopo la cessazione di una misura di prevenzione, cfr. art. 15 l. 3 agosto 1988, n. 327 e artt. 14 , comma 2, e 34, comma 3, l. 19 marzo 1990, n. 55. [2] Le parole «almeno tre anni» sono state sostituite alle parole «cinque anni» dall'art. 3 , comma 1, lett. a), l. 11 giugno 2004, n. 145. [3] Le parole «almeno otto anni» sono state sostituite alle parole «dieci anni» dall'art. 3, comma 1, lett. b), l. n. 145, cit. [4] La parola «, parimenti,», che figurava dopo le parole «Il termine è», è stata soppressa dall'art. 3, comma 1, lett. c), l. n. 145, cit. [6] Comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. i), l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 31 gennaio 2019. InquadramentoL'art. 179 disciplina i termini e le condizioni per la concessione della riabilitazione. Quanto ai termini, è previsto il decorso di un tempo minimo dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, individuato nel termine ordinario di almeno tre anni, elevato ad almeno otto anni per i recidivi aggravati o reiterati (termini così sostituiti a quelli originari rispettivamente di cinque anni e di dieci anni, dall'art. 3, comma 1 lett. a), l. n. 145/2004), e a dieci anni per i delinquenti qualificati. Quanto alle condizioni, la riabilitazione può essere concessa al condannato che, nel periodo di prova, abbia tenuto una buona condotta e abbia adempiuto alle obbligazioni civili derivanti da reato; con la precisazione che non possono essere presi in considerazione comportamenti anteriori al periodo di prova suddetto, ancorché di chiara valenza negativa (Cass. I, n. 55063/2017). Non può invece essere concessa al condannato soggetto a misure di sicurezza, eccezion fatta per la confisca e l'espulsione dello straniero dallo Stato. Esecuzione o estinzione per altra causa della pena principale. Decorrenza del termine per la riabilitazionePrecondizione perché operi la riabilitazione, è l'esecuzione o estinzione della pena principale. È da questo momento che inizia a decorrere il dies a quo rilevante ai fini della buona condotta del condannato, condicio sine qua non della concessione della riabilitazione. Nel caso sia richiesta la riablitazione parziale, ovvero riferita ad una sola o ad alcne solo delle condanne riportate, il termine decorre a far tempo dal giorno in cui è eseguita o è estinta la pena principale inflitta con la condanna o le condanne cui l’istanza presentata si riferisce, potendo le eventuali condanne successive influire sulla valutazione della bona condotta (CERQUETTI, Riabilitazione, in Enc. dir., XL, 1989, 313). Esecuzione della pena principale La pena si considera eseguita, e dunque inizia a decorrere il dies a quo per la riabilitazione, nel giorno in cui il condannato ha finito di scontare la pena detentiva, oppure ha finito di scontare le misure alternative o sostitutive applicategli (semidetenzione o libertà controllata), o ha finito di pagare la pena pecuniaria, ovvero ha finito di scontare le sanzioni in cui la pena pecuniaria sia stata convertita per insolvibilità del condannato (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 304). Nel caso di pena congiunta, detentiva e pecuniaria, la pena è estinta quando anche la pena pecuniaria sia stata interamente pagata, poiché anch'essa contribuisce a costituire la pena principale per il reato (Cass. I, n. 9323/2011). Estinzione per altra causa della pena principale Per definire il momento in cui inizia a decorrere il dies a quo per la riabilitazione, occorre distinguere a seconda della causa estintiva: a ) Sospensione condizionale della pena. Nel caso della sospensione condizionale della pena, l'art. 179, comma 4, come inserito dalla l. n. 145/2004, fa decorrere il termine triennale utile ai fini della riabilitazione dal passaggio in giudicato della sentenza che concede la sospensione condizionale, senza che sia necessario attendere il quinquennio perché si produca l'effetto estintivo ad essa connesso (Cass. I, n. 8134/2010). Nel caso in cui la sospensione condizionale della pena sia stata concessa ai sensi dell'art. 163, comma 4 (pena inflitta non superiore ad un anno, riparazione del danno o attivazione del colpevole al fine di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato), la riabilitazione è concessa, ai sensi del nuovo art. 179, comma 5, «allo scadere del termine di un anno di cui al medesimo quarto comma, purché sussistano le altre condizioni previste dall'art. 179 ». Dunque anche in tal caso il termine per la riabilitazione decorre dall'inizio del termine sospensivo. Questo non significa che sia stato implicitamente abrogato l'art. 163, nella parte in cui prevede per l'estinzione della pena (sospesa condizionalmente) il decorso del termine di cinque anni e non invece di tre: la giurisprudenza ha osservato che si tratta di due istituti giuridici (la riabilitazione e la sospensione condizionale della pena) del tutto autonomi e distinti, per cui la diversa estensione dei due termini (quello utile ai fini dell'estinzione del reato e quello utile ai fini della riabilitazione) lungi dal costituire l'effetto di un mancato coordinamento tra le due norme novellate, si ricollega invece, ad una precisa scelta normativa e in ogni caso risponde alla interpretazione di lettera e ratio del combinato disposto degli artt. 179,163 e 167 (Cass. I, n. 20650/2007). Ne consegue che il soggetto potrà essere riabilitato prima che si esaurisca il termine sospensivo, e dunque prima che si verifichi l'estinzione del reato, quando ancora è aperta la possibilità di una revoca della stessa sospensione (art. 168, comma 1, n. 2): può quindi accadere che il condannato già riabilitato si trovi a dover eseguire la condanna per la quale ha ottenuto la riabilitazione, senza che ciò comporti necessariamente la revoca della riabilitazione stessa (Padovani, Commento, 748). b ) Affidamento in prova al servizio sociale. Ai fini della concessione della riabilitazione, il termine triennale previsto dall'art. 179, in caso di affidamento in prova al servizio sociale il cui esito sia stato positivamente valutato dal tribunale di sorveglianza, decorre dal giorno in cui la prova si è conclusa, e non da quello, successivo, in cui è intervenuta la decisione del giudice (Cass. I, n. 10650/2015). c ) Liberazione condizionale. La prevalente giurisprudenza ritiene che il computo del termine per ottenere la riabilitazione inizia dalla data dell'ammissione del condannato al beneficio, e non da quella, successiva, in cui sia dichiarata estinta la pena. In altri termini, secondo tale orientamento, condiviso anche da parte della dottrina, la condizione di cui all'art. 177, ultimo comma, ha efficacia retroattiva, e ciò sul presupposto che la liberazione condizionale non realizza un mutamento delle modalità esecutive della pena detentiva, ma una causa dapprima di sospensione, e poi di estinzione, della pena. (In dottrina, Cerquetti, 314.). Secondo altro orientamento, l'inequivocabile tenore letterale delle due norme coinvolte, l'art. 177 e l'art. 179, ed, in particolare, della prima di esse « esclude che possa essere attribuita efficacia retroattiva all'effetto estintivo della pena, espressamente ricollegato soltanto all'avvenuto decorso dell'intera pena che residua da espiare all'atto della concessione della liberazione condizionale ovvero, nel caso dell'ergastolo, di un periodo di cinque anni dalla data di detta concessione » (Cass. I, n. 3137/2012). d ) Amnistia impropria. Indulto. Grazia. Se la legge di concessione del beneficio è successiva alla sentenza irrevocabile di condanna, il termine decorre dalla entrata in vigore della legge e non dal provvedimento del giudice dell'esecuzione che applica l'amnistia o l'indulto (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 305). La giurisprudenza ha in proposito affermato che il provvedimento giudiziale applicativo di un provvedimento di clemenza ha natura meramente dichiarativa, per cui gli effetti dell'estinzione del reato retroagiscono alla data di emissione del provvedimento clemenziale. Pertanto, la legge di concessione è precedente alla sentenza di condanna, il termine decorre dalla irrevocabilità della sentenza stessa, poiché prima di quel momento la causa estintiva non opera. È concorde la giurisprudenza, per la quale il termine triennale per la concessione della riabilitazione decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza che ha applicato l'indulto (Cass. I, n. 47465/2013). Le medesime regole valgono per il caso dell'indulto condizionato; per la grazia, anche condizionata, il termine decorre dalla data di efficacia del decreto che la concede (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 306). e ) Prescrizione della pena. La dottrina ha osservato che in caso di estinzione della pena per prescrizione, il termine per la riabilitazione decorre dal giorno in cui la causa estintiva agisce e non dal momento in cui il giudice la dichiara con sentenza irrevocabile (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 305). f ) Pena espiata prima della irrevocabilità della sentenza. È controverso il caso in cui la pena risulti già espiata, prima della sentenza irrevocabile di condanna, per effetto della custodia cautelare: secondo la dottrina, il termine non può che iniziare a decorrere dalla data di irrevocabilità della sentenza, perché prima non vi è condanna (Manzini, Trattato, III, 769). Decorrenza del termine per i recidivi aggravati o reiterati Il termine ordinario triennale è elevato ad «almeno otto anni» per i recidivi aggravati o reiterati: tale previsione trova applicazione solo se la recidiva sia stata accertata con sentenza di condanna, all'esito del giudizio, cosicché non è sufficiente che sia contenuta nel decreto penale (Cass. I, n. 45768/2008); peraltro, nel caso di pluralità di sentenze di condanna, il maggior termine decorre dalla data in cui la pena inflitta con l'ultima di esse è stata espiata o si è altrimenti estinta, anche se ha recidiva sia stata riconosciuta con una sentenza precedente. Ciò significa che per produrre l'effetto dell'aumento del termine ordinario è sufficiente che il soggetto sia stato condannato in recidiva aggravata con qualunque sentenza di condanna (Manzini, Trattato, III, 770). Trattasi di un effetto ulteriore ed indiretto della recidiva (Cass. S.U. n. 20808/2019). Decorrenza del termine per i delinquenti qualificati Il termine è di dieci anni per i delinquenti abituali, professionali, o per tendenza, con decorrenza dal giorno in cui sia stato revocato l'ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro. Il termine di decorrenza così dettato, indica come a far scattare la particolare disciplina per i delinquenti abituali, professionali, o per tendenza, non sia sufficiente la qualifica soggettiva, ma è necessario quel giudizio di pericolosità in concreto al quale oggi è sempre subordinata l'applicazione della misura di sicurezza (Gallo, Appunti, II, 348). Condizioni ostativePer poter ottenere la riabilitazione, il condannato non deve essere sottoposto a misura di sicurezza, eccezion fatta per la confisca e per l'espulsione dello straniero dallo Stato. Ciò in quanto la misura di sicurezza presuppone la pericolosità sociale del soggetto, mentre la riabilitazione presuppone la buona condotta del richiedente: cosicché per ottenere la riabilitazione è necessario che la misura di sicurezza sia revocata. Quanto, poi, alle deroghe di cui all'ultimo comma della norma in commento, quella relativa alla confisca si comprende, considerando che questa è misura di sicurezza patrimoniale ed irrevocabile; quella relativa all'espulsione dello straniero non è chiara, posto che anche tale misura di sicurezza è legata ad un comportamento antisociale (Padovani, Codice, 1192). Il termine per proporre la domanda di riabilitazione decorre dalla data della revoca della misura di sicurezza soltanto quando si tratti di internamento di delinquenti abituali, professionali o per tendenza in colonia agricola o casa di cura, mentre in tutti gli altri casi va considerata la data di espiazione o estinzione della pena o delle pene principali (Cass. II, n. 3109/1971). Non è condizione ostativa l'avere già fruito del beneficio (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 307). Buona condottaLa riabilitazione presuppone che il soggetto — nel periodo di prova prescritto dalla legge — abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Sulla nozione di buona condotta non vi è unanimità in dottrina: all'indirizzo secondo cui è sufficiente una prognosi di non pericolosità sociale del soggetto, analoga a quella richiesta per la concessione della sospensione condizionale (Cerquetti), si contrappone l'indirizzo che richiede un'emenda morale o redenzione sociale (Manzini, Trattato, III, 766). Altra parte della dottrina (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 308) osserva che nessuno dei due orientamenti appare del tutto convincente: non il primo, perché al giudice è richiesto un accertamento di tipo storico, limitato al periodo di prova previsto dalla legge, e non un giudizio prognostico rivolto al futuro; non il secondo, non potendosi accertare ciò che appartiene al foro interiore dell'individuo. Pare, dunque, condivisibile l'opinione secondo cui la buona condotta consiste in reiterati e persistenti comportamenti conformi alla legge penale (profilo formale), di segno contrario all'offesa, o al tipo di offesa arrecata con il reato per cui si richiede la riabilitazione (profilo sostanziale). La giurisprudenza ravvisa la buona condotta in fatti positivi e costanti di ravvedimento, senza che sia necessario il compimento di comportamenti positivi di valore morale, indicativi di volontà di riscatto dal passato (Cass. I, n. 1507/2013): ciò che rileva non è tanto l'assenza di ulteriori elementi negativi, bensì prove effettive e costanti di buona condotta, quali ad es. l'applicazione assidua al lavoro, un tenore di vita onesto e corretto, l'abbandono assoluto di ogni rapporto illecito. Il totale silenzio sulla condotta dell'istante è insufficiente a fornire prove effettive e costanti di buona condotta, e qualsiasi nota negativa in ordine al suo comportamento può essere apprezzata quale prova di valenza contraria a quella richiesta dal legislatore (Cass. I, n. 11572/2013). Tuttavia, non può riconnettersi ad un singolo episodio di intemperanza — che non sia espressivo di una generale condotta di vita — valore sintomatico di non completamento dell'emenda (Cass. I, n. 3346/2011). Anche le condanne e le denunce per fatti successivi alla sentenza cui si riferisce l'istanza di riabilitazione non sono automaticamente ostative alla concessione della stessa, pur potendo essere valutate per trarre da esse, in considerazione della natura e gravità dei nuovi reati, elementi di giudizio (Cass. I, n. 46279/2007); sebbene la pendenza di procedimenti penali non possa ritenersi, di per sé, preclusiva della riabilitazione, assume, tuttavia, rilevanza, al fine di valutare la prova costante ed effettiva di buona condotta, il loro esito, in quanto, in caso di accertata condanna, il giudice ha l'obbligo di spiegare le ragioni in base alle quali la condanna stessa viene ritenuta compatibile con la prova della buona condotta (Cass. I, n. 5768/1995). Quanto all'ambito temporale di valutazione, esso va dal momento della esecuzione o estinzione della pena principale sino a quello della decisione, e i tre anni diventano esclusivamente il «momento» a partire dal quale è possibile depositare l'istanza tesa al riconoscimento dell'effetto; ciò in quanto il provvedimento concessorio della riabilitazione ha natura costitutiva e non meramente dichiarativa, essendo affidata al giudice non la mera «ricognizione» circa l'esistenza di presupposti tipici e ben definiti dal legislatore, quanto piuttosto un compito valutativo di natura discrezionale (Cass. I, n. 42066/2014). L'adempimento delle obbligazioni civiliAccanto alla buona condotta, la legge prevede quale condizione essenziale per la concessione del beneficio, l'adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato, anche se prescritte (Cass. I, n. 45765/2008), fatta salva la prova della impossibilità di adempiere. Si tratta delle obbligazioni previste agli artt. 185-188: restituzione e risarcimento del danno; pubblicazione della sentenza di condanna; rimborso delle spese per il mantenimento in carcere (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 310). La dottrina ha osservato che l'adempimento non rileva tanto di per sé, quanto e soprattutto quale elemento sintomatico da cui inferire la sussistenza della buona condotta (Fiorentin-Sandrelli, 699), e la giurisprudenza è concorde, attribuendo a tale requisito funzione dimostrativa dell'emenda e della condotta successiva alla condanna (Cass. I, n. 45045/2014). Si discute se la sussistenza delle obbligazioni civili debba essere dichiarata giudizialmente, non potendosi esigere l'adempimento di un obbligo meramente virtuale, come quello di risarcire il danno prodotto da reato, ove il danneggiato non abbia neanche esercitato l'azione civile o chiesto la liquidazione del danno stesso (Manzini, Trattato, III, 772); per contro, si osserva che potrà sempre farsi luogo alle restituzioni, anche in assenza di una sentenza che ne dichiari l'obbligo; che potrà farsi luogo al risarcimento del danno ogni qualvolta si abbia avuto in qualsiasi modo la possibilità di prendere conoscenza di quanto dovuto; che per le spese di mantenimento diverse da quelle per la custodia cautelare, la predisposizione di meccanismi di prelievo automatico (art. 145 c.p.) toglie al problema di una dichiarazione giudiziale pratica rilevanza (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 311). La giurisprudenza ha affermato che l'attivarsi del condannato al fine dell'eliminazione, per quanto possibile, di tutte le conseguenze di ordine civile derivanti dalla condotta criminosa, costituisce condizione imprescindibile per l'ottenimento del beneficio, anche nel caso in cui sia mancata nel processo la costituzione di parte civile e non vi sia stata alcuna pronuncia in ordine alle obbligazioni civili conseguenti al reato (Cass. I, n. 49447/2014). In altri termini, l'obbligo risarcitorio non è subordinato ad una richiesta da parte della persona offesa, ben potendo l'iniziativa essere assunta dal riabilitando, mediante consultazione del danneggiato e idonea offerta riparatoria (Cass. I, n. 23343/2015). Così, ad es., è stato affermato che ai fini del conseguimento della riabilitazione dal reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, è onere del condannato sollecitare il Comune nel cui territorio l'organizzazione criminale si è insediata, anche se non costituitosi parte civile, a provvedere alla stima del danno ad esso arrecato, in quanto sicuramente valutabile in modo equitativo in relazione alla gravità della lesione determinata per l'interesse della collettività (Cass. VII, n. 2903/2014). Così, ancora, essendo il diritto al risarcimento del danno morale conseguente da reato trasmissibile agli eredi della persona offesa, anche in assenza di determinazione del «quantum», non è concedibile la riabilitazione, ostandovi il disposto di cui all'art. 179 comma 4, n. 2, a colui il quale, pur essendo stati rintracciati gli eredi, non abbia effettuato né offerto di effettuare il risarcimento, in loro favore, del danno in questione (Cass. I, n. 2995/1991). Naturalmente, per potersi valutare il mancato risarcimento del danno a favore della parte offesa, o comunque l'omessa tacitazione delle sue ragioni creditorie, occorre accertare se il debito fosse liquido ed esigibile, se vi è stata quantificazione di esso da parte del creditore, se, in sintesi, l'inadempimento sia stato volontario o non già, per qualsiasi ragione, necessitato. L'impossibilità di adempimentoLa giurisprudenza è costante nel ritenere che spetta al condannato dimostrare di avere fatto quanto in suo potere per adempiere alle obbligazioni civili derivanti dal reato, ovvero dimostrare la impossibilità di adempiervi (Cass. I, n. 17952/2004). In particolare, egli è tenuto a dare prova che, pur non essendo indigente, non disponeva di mezzi patrimoniali che gli consentissero di eseguire il risarcimento senza subire un sensibile sacrificio; o che le parti offese hanno rinunciato al risarcimento, oppure che sono irreperibili. In altri termini, l'impossibilità non va intesa in senso particolarmente restrittivo, ma comprende tutte le situazioni non ascrivibili al condannato, che gli impediscano l'esatta osservanza dell'obbligo di adempiere, non potendosi frapporre un ingiustificato ostacolo al suo reinserimento sociale qualora abbia dato prova, con la condotta tenuta, di esserne meritevole (Cass. I, n. 39468/2007). Ad es. l’assenza di reddito del condannato, costituisce un'ipotesi di rimozione del limite alla concedibilità del beneficio, valutabile ai sensi dell'art. 179, comma 6, n. 2, poiché tale circostanza giustifica l'inadempimento delle obbligazioni civili da reato (Cass. I, n. 23359/2018). In conclusione, da un lato la impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato non va intesa in senso restrittivo, e cioè come conseguenza della sola impossidenza economica, ma ricomprende tutte le situazioni non imputabili al condannato che, comunque, gli impediscono l'adempimento; dall'altro, si deve ritenere sussistente a carico dell'interessato uno specifico onere probatorio, in base al quale egli è tenuto alla dimostrazione dell'emenda e della condotta di ravvedimento successiva alla condanna. E ciò pur considerando che il Tribunale, nell'ambito del proprio potere discrezionale, ha la facoltà di svolgere indagini al fine di acquisire ulteriori elementi di conoscenza circa le condizioni economiche dell'interessato, facoltà che comunque deve trovare un aggancio negli elementi di prova offerti dall'interessato stesso (Cass. I, n. 3002/1999). Così, ad es., la dichiarazione di fallimento costituisce prova dell'impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili nascenti dal reato solo in riferimento ad un ambito temporale contiguo alla chiusura della procedura fallimentare (Cass. I, n. 5649/2009). Invece, non vale a dimostrare tale impossibilità la mera produzione del verbale di udienza del giudizio di sfratto per morosità (Cass. I, n. 4362/1993), o l'allegazione della circostanza dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ottenuta sulla base della dichiarazione di insufficienza reddituale contingente (Cass. I, n. 33527/2010). La riabilitazione da misura di prevenzioneAi fini della riabilitazione da misura di prevenzione, la giurisprudenza ha affermato che la valutazione della personalità dell'istante va effettuata sulla base non già della mera astensione dal compimento di fatti costituenti reato, bensì della instaurazione e del mantenimento di uno stile di vita improntato al rispetto delle norme di comportamento comunemente osservate dalla generalità dei consociati, attraverso la acquisizione di indici che abbiano un significato univoco di recupero del soggetto ad un corretto modello di vita. Ed a tal fine è necessaria la dimostrazione di fatti o di comportamenti sintomatici in chiave positiva atti a costituire prova idonea, come richiesto dal legislatore, di una condotta improntata, con effettività e costanza, al rispetto delle regole della convivenza sociale (Cass. II, n. 35545/2008). L'accertamento della buona condotta, necessario per la concessione della riabilitazione, deve essere correlato alle concrete caratteristiche della pericolosità sociale che aveva giustificato la misura e, pertanto, nel caso di soggetto sottoposto a misura di prevenzione in ragione della sua "pericolosità qualificata" derivante dall'appartenenza ad una "mafia storica", si richiede la prova positiva dell'avvenuta rescissione del vincolo con l'associazione criminale (Cass. V, n. 5530/2019). Peraltro, il giudice può considerare anche l'esistenza di una o più denunce o la sola pendenza di procedimenti penali o amministrativi per fatti successivi a quelli cui inerisce la domanda, a condizione che ne sia apprezzato il significato concreto, dimostrativo della commissione di condotte devianti o irregolari, tali da provare il mancato recupero del condannato (Cass. I, n. 13753/2020). Profili processualiLa procedura prende l'avvio su richiesta dell'interessato: trattasi di atto personalissimo del soggetto, non delegabile e non trasferibile mortis causa, sicché l'erede non è legittimato ad avviare il procedimento di riabilitazione (Fiorentin-Sandrelli, 699); d'altronde, avendo essa ad oggetto la reintegrazione della capacità giuridica del condannato, mancherebbe, in caso di decesso del riabilitando, proprio del suo oggetto, atteso che la capacità giuridica si estingue anch'essa con la morte. Per ulteriori approfondimenti vedi sub art. 178. Modifiche introdotte dalla l. n. 3/2019La l. 9 gennaio 2019, n. 3 recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonchè in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, ha introdotto importanti novità anche in materia di sanzioni accessorie e rapporti di queste con l'istituto della riabilitazione. Per quanto qui interessa, è espressamente previsto che la riabilitazione non produce effetto sulle pene accessorie perpetue (ad es., sulla interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 317-bis), ma – decorso un periodo di sette anni dalla irrevocabilità della sentenza che concede il beneficio, la pena accessoria perpetua è estinta, qualora il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. CasisticaLa giurisprudenza ha precisato che l'offerta di una somma manifestamente inferiore all'entità del danno dichiarato dalla parte lesa non può essere ritenuta idonea a configurare una volontà di ristoro e di eliminazione delle conseguenze derivate dai reati commessi, soprattutto quando le condizioni economiche del condannato possano consentirgli di provvedere al risarcimento in maniera maggiormente adeguata anche se non necessariamente integrale (Cass. I, n. 7752/2012). L'inosservanza dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo non può costituire, di per sé, un elemento ostativo alla concessione del beneficio, in difetto della valutazione di ulteriori elementi dimostrativi del mancato ravvedimento del condannato (Cass. I, n. 37829/2014). Particolare interesse si è registrato in giurisprudenza in relazione alla riabilitazione dello straniero condannato per violazione dell’ordine di espulsione dal territorio dello Stato, che non abbia ottemperato all’ordine di allontanamento: si è infatti affermato che contrasterebbe con i principi fondamentali della convivenza civile non ritenere sussistente il requisito della buona condotta laddove il soggetto non abbia altri carichi pendenti e abbia svolto dopo la condanna attività lavorativa (Cass. I, n. 29490/2011); così come la titolarità del permesso di soggiorno non costituisce condizione pregiudiziale per ottenere la riabilitazione (Cass. I, n. 47339/2011). BibliografiaCerquetti, voce Riabilitazione, in Enc. dir., XL, Milano,1989, 302 ss; Fiorentin-Sandrelli, L'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, Padova, 2007, 693 ss.; Gallo, Diritto penale italiano. Appunti di parte generale, Torino, 2014, 1915; Garavelli, voce Riabilitazione, in Dig. d. pen., Torino, 1997; Padovani, Commento alla l. 11 giugno 2004, n. 145-Modifiche al codice penale e alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato, in Leg. pen. 2004, 748 s. |