Codice Civile art. 186 - Obblighi gravanti sui beni della comunione 1

Giuseppe Buffone
aggiornato da Annachiara Massafra

Obblighi gravanti sui beni della comunione 1

[I]. I beni della comunione rispondono:

a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell'acquisto;

b) di tutti i carichi dell'amministrazione;

c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli [147] e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia;

d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi [192 2].

(1)

[1] Articolo così sostituito dall'art. 65 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi.

Inquadramento

L'art. 186 va letto in connessione con l'art. 190 ove è previsto che i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti. Rispetto ai debiti contratti dai coniugi nell'interesse della famiglia, dunque, è il patrimonio comune a rispondere, in via primaria. Se esso patrimonio non è capiente, i creditori possono agire pro quota anche verso il patrimonio personale di ciascuno dei coniugi. L'art. 186 recita testualmente “i beni della comunione rispondono”: questa formula ha indotto alcuni autori a predicare la soggettività della comunione legale o la sua personalità giuridica. L'opinione prevalente è di segno contrario e, semmai, la formula stilistica adottata, richiama la comunione legale come un patrimonio separato.

Responsabilità della comunione

La comunione legale tra i coniugi costituisce, nella interpretazione giurisprudenziale assolutamente prevalente (fin da Corte cost. n. 311/1988) e nonostante dissensi in parte della dottrina, una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Cass. n. 12923/2012), trattandosi di comunione finalizzata, a differenza della comunione ordinaria, non già alla tutela della proprietà individuale, ma piuttosto a quella della famiglia (Cass. n. 517/2011); essa può sciogliersi nei soli casi previsti dalla legge ed è indisponibile da parte dei singoli coniugi, i quali, tra l'altro, non possono scegliere quali beni farvi rientrare e quali no, ma solo mutare integralmente il regime patrimoniale, con atti dalla forma solenne opponibili ai terzi soltanto con l'annotazione formale a margine dell'atto di matrimonio. La quota non è quindi un elemento strutturale della proprietà: e, nei rapporti coi terzi, ciascuno dei coniugi, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune. Tale impostazione impedisce, in primo luogo, la ricostruzione della comunione legale come una universalità; in secondo luogo, preclude l'applicabilità sì a della disciplina dell'espropriazione di quote (di cui all'art. 599 c.p.c. e ss.), sia di quella contro il terzo non debitore: dell'una, perché il bene appartiene ad altro soggetto solidalmente per l'intero, che non potrebbe comunque agire separatamente per lo scioglimento della comunione limitatamente a quel cespite; dell'altra, perché è eccezionale e quindi insuscettibile di applicazione analogica l'assoggettamento a procedura esecutiva di un individuo che debitore non è. L'unica opzione ricostruttiva che soddisferebbe le sole esigenze della comunione legale sarebbe l'esclusione della pignorabilità stessa dei beni che ne fanno parte per crediti diversi da quelli familiari: ma è opzione ricostruttiva che vanifica senza ragione le ragioni dei creditori dei singoli coniugi per crediti non familiari, i quali ultimi, invece, benché coniugati, non cessano di rispondere dei propri debiti con tutti i beni appartenenti al loro patrimonio, di cui all'art. 2740; inoltre, la destinazione dei beni in comunione legale alle esigenze della famiglia non ne determina in assoluto l'impossibilità di soddisfare i crediti dei singoli coniugi, solo prevedendosi un regime di sussidiarietà (art. 189; regime che, poi, si intende correttamente non comportare anche l'onere, per il creditore procedente, di esperire preventivamente e con esito negativo l'azione esecutiva sui beni personali del coniuge obbligato, come pure di compiere indagini sull'esistenza di essi: parendo invece preferibile rimettere a ciascuno dei coniugi — e quindi anche a quello non debitore — un vero e proprio onere di opporre od eccepire l'esistenza di beni personali del coniuge debitore, da aggredire preventivamente); infine, la sottrazione dei beni in comunione legale all'espropriabilità per crediti personali di uno di loro finisce col privare gli stessi singoli coniugi di ogni utile possibilità di accesso al credito e, paradossalmente, con il gravare negativamente sulla gestione del patrimonio familiare, per il soffocamento in radice della pienezza della partecipazione di ognuno dei singoli coniugi al traffico giuridico (Cass. n. 6575/2013). Si profilano pertanto almeno tre ipotesi ricostruttive alternative: a) la necessità di aggredire il bene per l'intero (che poi la pratica si è fatta carico di complicare in sede di distribuzione, con l'ulteriore opzione tra la restituzione della metà del ricavato al coniuge non esecutato oppure alla comunione); b) la facoltatività dell'aggressione per la sola metà; c) l'indispensabilità dell'aggressione per una sola metà. Orbene, ammettere un'espropriazione, in via obbligatoria od anche in via meramente facoltativa, per la sola quota della metà, a prescindere dall'astratta configurabilità di una quota nel perdurare della comunione, significherebbe applicare l'art. 599 c.p.c. e ss., e quindi, con un sostanziale stravolgimento dell'istituto della comunione legale, consentire, almeno in astratto l'assegnazione della «quota» del coniuge debitore in proprio anche ad estranei o, peggio ancora, la sua vendita giudiziaria, anche in tal caso con l'introduzione, all'interno di un bene che per definizione è restato all'interno della comunione legale, di un estraneo a quest'ultima. D'altra parte, se un bene non è diviso in quote non può il creditore pignorarne una quota soltanto, perché si attribuirebbe in tal modo al pignoramento una impossibile funzione di costituzione di diritti reali di contenuto o estensione prima insussistenti; e senza poi considerare che, quand'anche potesse ammettersi l'espropriazione della metà del bene in comunione legale, anche una cosiffatta quota della metà sarebbe, di per sé sola considerata, rientrante a sua volta nella comunione legale, tanto che i problemi si riproporrebbero anche per tale limitato oggetto dell'espropriazione. Vanno quindi sicuramente escluse le ipotesi indicate sub b) e c). Sulla scorta di questi argomenti, la Cassazione ritiene che l'assenza di quote e soprattutto l'impossibilità che, quand'anche a seguito dell'espropriazione e limitatamente ad un bene, della comunione legale entri a far parte un estraneo (cioè colui che della «quota» eventualmente da sé sola staggita divenga aggiudicatario o assegnatario) impongano di qualificare come sola legittima l'opzione ricostruttiva della necessità di sottoporre, per il credito personale verso uno solo dei coniugi, il bene a pignoramento per l'intero, nei limiti dei diritti nascenti dalla comunione legale (Cass. n. 6575/2013). A tanto conseguono la messa in vendita o l'assegnazione del bene per intero e lo scioglimento — effettivamente, eccezionale e desumibile esclusivamente dal sistema legislativo — della comunione legale limitatamente a quel bene; a seguito del medesimo scioglimento, che si perfeziona al momento del trasferimento della proprietà del bene (e, quindi, per gli immobili, con la pronuncia del decreto di trasferimento, tanto in caso di vendita che di assegnazione), consegue il diritto del coniuge non debitore, in applicazione dei principi generali sulla ripartizione del ricavato della comunione al momento del suo scioglimento, al controvalore lordo del bene nel corso della stessa procedura esecutiva, neppure potendo a lui farsi carico delle spese di trasformazione in denaro del bene (cioè quelle della procedura medesima), rese necessarie per il solo fatto del coniuge debitore, che non ha adempiuto i suoi debiti personali. Di certo, all'atto della distribuzione il ricavato del bene non potrà essere attribuito per metà alla procedura esecutiva intentata contro il coniuge debitore (e quindi, figurativamente, a quest'ultimo, ai fini di soddisfacimento dei suoi creditori personali) e per l'altra metà «restituito» alla comunione: in primo luogo, perché quel bene, con la vendita od assegnazione per intero, è uscito dalla comunione e, per l'esigenza di assicurare l'operatività della responsabilità patrimoniale del coniuge debitore in proprio, il suo ricavato va ripartito tra i due coniugi, allo stesso modo in cui allo scioglimento della comunione nel suo complesso ognuno di loro avrebbe diritto al controvalore della metà dei beni della comunione (salve le regole di attribuzione di cui all'art. 195 e ss.); in secondo luogo, perché ritenere che la metà del controvalore spettante al coniuge non debitore competesse alla comunione significherebbe poi consentire all'infinito altre esecuzioni individuali sul controvalore così solo formalmente restituito alla comunione, ma di fatto asservito esclusivamente, in virtù di successive espropriazioni delle residue metà (e matematicamente definibili come infinite, potendo procedersi appunto senza limite all'isolamento di una metà di ogni successivo residuo), al soddisfacimento del credito del creditore particolare di uno dei coniugi.

La soggezione ad espropriazione di un bene sul quale ha eguale contitolarità il coniuge non debitore lo configura come soggetto passivo dell'espropriazione in concreto operata, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato.

Bibliografia

Cian, Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015.

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