Codice Civile art. 1368 - Pratiche generali interpretative.Pratiche generali interpretative. [I]. Le clausole ambigue s'interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso. [II]. Nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore [2082], le clausole ambigue s'interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell'impresa. InquadramentoIl ricorso alle pratiche degli affari del luogo in cui il contratto è concluso, ai fini di interpretare le clausole ambigue, trova giustificazione nel fatto che il contratto si adegua normalmente al significato che in un dato ambiente socio-economico ad esso è riconosciuto (Bianca, 410). Infatti l'uso interpretativo si identifica in quei comportamenti dai quali sia possibile ricavare il significato che individui di un determinato luogo attribuiscono a certe espressioni, in sé polisense o plurivoche, inserite in un certo tipo di contratti. Il riferimento agli usi praticati generalmente non richiede che esso sia praticato da tutti i membri di una certa collettività, ma vale semplicemente ad escludere dal novero degli usi interpretativi gli usi speciali, ossia riferiti ad una determinata categoria di contraenti, che non siano anche locali, ossia che non siano collegati ad un certo ambito territoriale (Oppo, 100). Anche tale criterio ha valenza sussidiaria, trattandosi di un criterio di interpretazione oggettiva che può essere utilizzato solo quando non sia stata rinvenuta alcuna soluzione interpretativa alla luce dell'utilizzazione dei criteri di interpretazione soggettiva. Ne discende che il criterio non è invocabile con riferimento alle clausole che non presentino elementi di ambiguità. Qualora l'ambiguità riguardi l'interpretazione di una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, l'interpretazione a favore dell'altro contraente di cui all'art. 1370 prevale sull'eventuale contenuto difforme di un uso negoziale, da cui invece sia desumibile un'interpretazione favorevole al predisponente (Bianca, 413; Oppo, 103). Ove invece l'uso interpretativo riferito al luogo in cui ha sede l'impresa non sia idoneo a sciogliere l'ambiguità della clausola, prima di applicare l'uso riferito al luogo di formazione del contratto dovrà verificarsi che l'ambiguità non possa essere risolta facendo riferimento al criterio interpretativo finale di cui all'art. 1371, ossia leggendo la clausola nel senso meno gravoso per l'obbligato, ove si tratti di contratto a titolo gratuito, o nel senso dell'equo contemperamento degli interessi delle parti, ove si tratti di contratto a titolo oneroso (Oppo, 103; Bianca, 413). Non si pone una questione di conflitto tra usi interpretativi e norme dispositive, poiché i primi operano sul piano interpretativo mentre le seconde attengono al momento attuativo e dunque presuppongono l'interpretazione (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 278). Anche secondo la S.C. si tratta di criterio ermeneutico di carattere oggettivo e sussidiario, la cui applicazione presuppone che le clausole del contratto siano ambigue e che l'ambiguità non sia risolvibile con i criteri di interpretazione soggettiva (Cass. n. 6601/2012; Cass. n. 6752/1991; Cass. n. 2631/1966; Cass. n. 1613/1966). Gli usi interpretativi generali e individualiLa norma fa riferimento alle pratiche generalizzate degli affari, che siano costantemente applicate in termini generali in un dato luogo o settore di affari (Bianca, 409). Pertanto gli usi a cui la disposizione si riferisce sono quelli interpretativi generali. Per converso gli usi interpretativi individuali, ossia gli usi ai quali le parti del contratto normalmente si attengono nella conclusione di negozi, presupponendo che le parti abbiano fatto ricorso in passato ad altre contrattazioni della stessa specie, ovvero cui le parti si siano attenute con riferimenti a contratti successivi, rientrano nei comportamenti anteriori o successivi che possono essere valutati sul piano interpretativo ai sensi dell'art. 1362, comma 2 (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 531). Anche la giurisprudenza distingue gli usi interpretativi generali dagli usi interpretativi individuali. La norma in commento fa riferimento agli usi generalizzati in un determinato settore e luogo, non già alla prassi istituitasi tra le parti in occasione di precedenti contrattazioni (Cass. n. 3342/1968). L'applicazione degli usi interpretativiGli usi interpretativi che trovano applicazione sono quelli riferiti al luogo in cui il contratto è stato concluso, a prescindere dal fatto che le parti risiedano in tale luogo (Bigliazzi Geri, Note in tema di interpretazione secondo buona fede, Pisa, 1970, 75). Nei contratti conclusi dall'imprenditore dovrà invece aversi riguardo alle pratiche interpretative del luogo in cui ha sede l'impresa; ove sussistano più sedi in luoghi diversi, dovrà darsi prevalenza al luogo della sede principale; nel conflitto tra sede formale e sede effettiva prevarrà la seconda, salvo che non sia invocato l'interesse a far valere la sede registrata a favore della parte in buona fede (Oppo, 77). Qualora entrambe le parti del contratto siano imprenditori, troverà applicazione l'uso interpretativo del luogo in cui il contratto è stato concluso (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 545), salvo che le imprese non abbiano sede nel medesimo luogo. In tale ultima ipotesi, ove le imprese che hanno sede nel medesimo luogo appartengano a diversi settori commerciali, assume prevalenza la pratica del settore al quale appartiene l'impresa che fornisce il bene o il servizio (Bianca, 411). Ugualmente si applicherà l'uso del luogo di formazione del contratto qualora, pur essendo una delle parti un imprenditore, non si tratti di contratto d'impresa, ossia di contratto che abbia attinenza con l'attività imprenditoriale esercitata dalla parte (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 545). L'applicazione degli usi o pratiche interpretative prescinde dalla prova che essi siano stati voluti o richiamati dalle parti (Bianca, 411). È possibile però dimostrare che le parti hanno escluso l'applicazione degli usi negoziali interpretativi (Bianca, 411; Oppo, 87). La prova dell'esistenza e del contenuto dell'uso può essere data con qualsiasi mezzo, compresa la testimonianza (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 545). Sono rilevabili d'ufficio gli usi noti al giudice (Oppo, 90; Bianca, 411). In senso contrario però si evidenzia che, non avendo gli usi interpretativi natura normativa, è preclusa la possibilità del giudice di rilevarli d'ufficio (Pavone La Rosa, Consuetudine, in Enc. dir., 1961, 519). Essi non trovano applicazione ai negozi a titolo gratuito (Oppo, 103) e al testamento (Santoro Passarelli, 234; contra Bigliazzi Geri, cit., 320). La giurisprudenza ritiene che le pratiche interpretative generalizzate possano applicarsi anche con riferimento agli atti di ultima volontà (Cass. n. 458/1974). Sebbene l'interpretazione degli atti amministrativi possa essere guidata dai criteri ermeneutici stabiliti per il contratto, non è mai applicabile il criterio delle pratiche generali interpretative (Cass. n. 3713/1988). La loro applicazione non esige che essi siano stati voluti o richiamati dalle parti (Cass. n. 275/1954). La parte che richiede l'applicazione di un uso interpretativo deve fornire la prova della sua esistenza e del relativo contenuto, salvo che esso non sia noto al giudice (Cass. n. 2970/1962); anche la prova testimoniale è ammissibile ai fini di dimostrare l'uso (Cass. n. 940/1961). Ove l'esistenza di un determinato uso risulti dall'esibizione di una raccolta della camera di commercio, la rilevanza di un uso difforme non può essere fondata sul fatto notorio, ma esige che sia assolto un rigoroso onere probatorio, volto a contrastare l'efficacia probatoria della raccolta (Cass. n. 4093/1977). La distinzione dagli usi normativi e dagli usi negozialiGli usi normativi o consuetudini costituiscono fonte sussidiaria del diritto nelle materie in cui difetti una disciplina legislativa (usi praeter legem) o in cui essi siano richiamati dalla legge o dai regolamenti (usi secundum legem), mentre gli usi interpretativi sono mezzo di interpretazione della volontà dei contraenti a fronte dell'uso di clausole ambigue. L'uso interpretativo ricorre quando la pratica generalizzata sia o avrebbe dovuto essere nota ad entrambe le parti; diversamente l'uso normativo si applica anche qualora sia ignorato dalle parti in base al brocardo ignorantia legis non excusat (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 545). Ma in senso contrario altro autore rileva che, affinché l'uso interpretativo non sia applicato, non è sufficiente la prova dell'ignoranza, ma è necessario che sia provato che le parti abbiano inteso derogarvi (Oppo, 87). Al pari degli usi o pratiche interpretative le clausole d'uso di cui all'art. 1340 hanno anch'esse natura negoziale e non normativa; tuttavia incidono non già sull'interpretazione del contratto, bensì sull'integrazione del suo contenuto negoziale, ritenendosi inserite nel contratto anche se non espressamente richiamate, salvo che non risulti che le parti non le abbiano volute. Secondo la S.C. gli usi normativi costituiscono norme non scritte, sussidiarie e integrative, derivanti da una pratica costante e generale, attuata con la convinzione di obbedire ad una regola giuridica, e non hanno valenza interpretativa, perché non hanno la funzione di chiarire o integrare la volontà negoziale (Cass. n. 2966/1999). Mentre gli usi normativi o giuridici sono fonte sussidiaria di diritti nelle materie non regolate dalla legge e con funzioni integrative del contenuto delle norme scritte, gli usi negoziali possono essere interpretativi o integrativi della volontà dei contraenti incompletamente od ambiguamente espressa, in forza di clausole comunemente adottate nella località o nella zona in cui il contratto è concluso, che possono quindi essere applicate normalmente ai negozi conclusi da contraenti che appartengano ad una determinata categoria di operatori economici, ove siano implicitamente od esplicitamente richiamati dalle parti (Cass. n. 6948/1983; Cass. n. 3342/1968). Gli usi interpretativi esigono comunque la reiterazione di determinati comportamenti (Cass. 839/1984). La giurisprudenza descrive la distinzione tra usi interpretativi e usi negoziali nel modo che segue: i primi sono un mezzo di chiarimento della volontà dei contraenti ambiguamente espressa; i secondi costituiscono un mezzo di integrazione della volontà medesima con le clausole che, generalmente praticate nel luogo in cui il contratto è concluso o in cui è la sede dell'impresa, si presumono volute dalle parti anche se non esplicitamente consentite (Cass. n. 1572/1963; Cass. n. 3421/1959). BibliografiaBianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Casella, Il contratto e l'interpretazione, Milano, 1961; Cataudella, I contratti. Parte generale, Torino, 2014; Costanza, Profili dell'interpretazione del contratto secondo buona fede, Milano, 1989; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993; Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici inter vivos e mortis causa, in Nss. D.I. Torino, 1965; Messineo, Contratto, in Enc. dir., Milano, 1961; Mosco, Principi sull'interpretazione dei negozi giuridici, Napoli 1952; Oppo, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943; Rizzo, Interpretazione del contratto e relatività delle sue regole, Napoli, 1985; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1985; Scognamiglio C., Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992. |