Codice Civile art. 2049 - Responsabilità dei padroni e dei committenti.

Francesco Agnino

Responsabilità dei padroni e dei committenti.

[I]. I padroni e i committenti [2082 ss.] sono responsabili per i danni [2056 ss.] arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.

Inquadramento

La responsabilità dei datori di lavoro e dei committenti, detta anche «institoria», è riconosciuta come una fattispecie tipica di responsabilità oggettiva per fatto altrui.

La norma, com'è noto, dispone che il preponente è responsabile per i danni arrecati dal fatto illecito del preposto e commessi nell'esercizio delle incombenze cui è adibito; ciò in base al principio per cui ciascuno deve rispondere dei danni cagionati a terzi dalle persone che impiega al proprio servizio.

Ai della operatività della norma è necessario: —a) l'esistenza di un rapporto di lavoro; —b) un collegamento tra il fatto dannoso commesso dal dipendente e le mansioni da questo espletate. Senza che, a tal fine, sia richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando invece sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria (Cass. n. 12283/2016).

Il rapporto di preposizione

L'art. 2049 lega la responsabilità di padroni e committenti agli illeciti dei domestici e commessi, purché posti in essere nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti: testo sostanzialmente mutuato dal codice francese del 1804, nonché dall'art. 1153 del codice unitario del 1865.

In particolare, il mantenimento di un lessico datato (i termini sono deliziosamente arcaici, secondo Monateri, in Tr. Sac., 977), che non trova corrispondenza in alcuna relazione o situazione legislativamente tipizzata, si è rivelato nel corso del tempo quanto mai opportuno (Scognamiglio, 1968, 699; Comporti, in Comm. S., 97, osserva che l'indeterminatezza e la genericità dei presupposti soggettivi hanno consentito un'interpretazione ampia della norma e così di soddisfare le più varie esigenze e i più diversi presupposti.), offrendo all'interprete una duplice elasticità: anzitutto, nel momento in cui si tratta di identificare il legame sufficiente a rendere il convenuto responsabile vicario per l'illecito posto in essere da altri; in secondo luogo, nella valutazione della connessione fra l'atto dannoso e i compiti assegnati al domestico o commesso.

Così, con riguardo al primo profilo, tra l'area centrale di operatività della norma — rappresentata dal classico rapporto di lavoro subordinato — e i suoi confini esterni — al di là dei quali si collocano l'appalto, l'intervento spontaneo nella sfera giuridica altrui, i rapporti di cortesia (Cass. I, n. 1135/1958) — sussiste tutta una serie di gradazioni che consentono al giudice di ritenere nei fatti integrato un rapporto di preposizione tale da implicare la responsabilità del preponente per le condotte del preposto.

Rapporti in tal senso rilevanti sono quelli che legano la società di intermediazione al promotore finanziario (Cass. n. 12448/2012; Cass. n. 17393/2009); la compagnia di assicurazioni al suo agente (Cass. n. 5370/2009); l'associazione scoutistica (Cass. n. 10213/2001; Trib. Roma 2 ottobre 1997), il circolo sportivo ( Trib. Monza 13 settembre 1988); quello di un maneggio agli istruttori — non dipendenti — incaricati di far svolgere l'attività sportiva ( Trib. Perugia 15 ottobre 1998); il notaio e il suo coadiutore (Cass. n. 3433/1981); il mandante e il mandatario (Cass., III, n. 3776/1984: occorre in tal caso che l'attività del mandatario appaia verosimilmente, al terzo di buona fede, come rientrante nei limiti del mandato); il cliente di un'autorimessa al meccanico al quale il primo aveva chiesto di essere condotto a effettuare un giro di prova della vettura (Cass. n. 1635/1964; Trib. Verona 12 febbraio 1963).

Gli esempi potrebbero continuare, ma quelli forniti appaiono sufficienti a evidenziare come: —a) non è necessaria la presenza di un rapporto di lavoro subordinato e nemmeno di un vero e proprio vincolo contrattuale (Cass. n. 868/1991, a mente della quale la responsabilità del committente per fatto proprio dell'ausiliario di cui all'art. 2049 sussiste non solo in presenza di un rapporto contrattuale, ma anche in presenza di un rapporto effettuale che leghi due soggetti, dei quali l'uno esplichi, in posizione di subordinazione, una attività per conto dell'altro, il quale conservi un potere di direzione e di sorveglianza sulla condotta del primo); —b) non soltanto la figura del padrone o committente non coincide con quella dell'imprenditore, ma non è neppure collegata allo svolgimento di un'attività di carattere economico. Ciò che conta è la presenza — in ciascuna singola situazione — di indici tali da far emergere l'esistenza di poteri — anche se generici e non effettivi — di direzione e di controllo del preponente sul preposto; App. Torino 24 dicembre 2009).

Pertanto, è acquisito il principio per il quale il rapporto che lega preponente e preposto non deve essere necessariamente un rapporto di lavoro subordinato, essendo sufficiente che il preposto sia inserito, anche se temporaneamente o occasionalmente, nell'organizzazione aziendale e abbia agito per conto e sotto la vigilanza del primo (Cass. n. 21685/2011).

Ed ancora, come si evince dallo stesso all'art. 2049, il rapporto di preposizione sussiste anche in ambiti meno vasti dell'attività imprenditoriale, estendendosi pure ad attività senza scopo di lucro (Annunziata, 337). Restano, pertanto, escluse dalla disciplina della responsabilità solidale solamente le ipotesi nelle quali manca l'incarico o difetta in capo al preponente il potere di direzione e sorveglianza.

Il rapporto di occasionalità necessaria

Secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato (Cass. n. 16887/2016Cass. n. 7331/1997; Cass. n. 6970/2001; Cass. n. 89/2002; Cass. n. 9764/2005; Cass. n. 18926/2009; Cass. n. 1530/2010; Cass. n. 1741/2011, ritiene sussistere la responsabilità del soggetto abilitato laddove sia verificato un rapporto di necessaria occasionalità tra incombenze affidate e fatto del promotore, non circoscritto alle negoziazioni che abbiano ad oggetto prodotti finanziari del soggetto preponente. La circostanza che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle per le quali è legittimato a riceverle non è suscettibile di interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell'attività del promotore finanziario e la consumazione dell'illecito e non preclude la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell'intermediario preponente), affinché possa operare l'art. 2049 non è più necessario accertare un vero e proprio nesso di causalità tra l'esercizio dell'incombenza e il danno; è, invece, sufficiente che tale esercizio favorisca di fatto la condotta illecita, ovvero che si ponga con questa in un rapporto di occasionalità necessaria. Si tratta, dunque, di un concetto di creazione giurisprudenziale (Cass. n. 1632/1972; Cass. n. 1354/1974; Cass. n. 2766/1975), di un collegamento che non si risolve in un vero e proprio nesso di causalità, dovendo essere inteso nel senso che l'incarico svolto deve aver determinato una situazione tale da rendere possibile ed agevole il fatto illecito. Non deve, cioè, trattarsi di una condotta estranea al rapporto.

Sicché: — a) i padroni e committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti; —b) la responsabilità del preponente ex art. 2049, sorge per il solo fatto dell'inserimento dell'agente cioè di colui che ha posto in essere la condotta dannosa nell'impresa, senza che assumano rilievo né la continuità dell'incarico affidatogli, né l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: basta che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dall'imprenditore e che il commesso abbia svolto la sua attività sotto il controllo del primo atteso che il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi; —c) in altri termini, con riferimento alla responsabilità dei padroni e committenti, ai fini dell'applicabilità della norma di cui all'art. 2049, non è richiesto l'accertamento del nesso di causalità tra l'opera dell'ausiliario e l'obbligo del debitore, nonché della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l'autore dell'illecito ed il proprio datore di lavoro e del collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dai dipendente, essendo sufficiente, per il detto fine, un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque il collaboratore dell'imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purché sempre nell'ambito dell'incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (Cass. n. 7634/2012; Cass. n. 10032/2012).

La natura giuridica

Una volta accertata la sussistenza dei due presupposti — rapporto di preposizione e nesso di occasionalità necessaria con le incombenze affidate — la responsabilità ricade sul preponente in via oggettiva (Cass. n. 12448/2012; Cass. n. 6325/2010).

In giurisprudenza appare infatti ormai superata la lettura della regola dettata dall'articolo in questione quale manifestazione di una presunzione assoluta di colpa, "in eligendo" o "in vigilando" (Cass. n. 10034/1998; Cass. n. 6506/1995; Cass. n. 2734/1994).

Anche in dottrina è prevalsa la considerazione secondo la quale tale previsione costituisce una regola di responsabilità oggettiva per fatto altrui (De Cupis, 1961, 63; Scogamiglio, 1968, 635). All'origine dell'obbligazione risarcitoria, cioè, non vi è la colpa nella scelta o nella sorveglianza del preposto bensì la riferibilità della condotta colposa all'area di rischio del preponente, il quale, servendosi di altri per lo svolgimento della propria attività d'impresa, si vede imputati, secondo il canone cuius commoda eius et incommoda, i danni che derivino a terzi. È opportuno notare che l'art. 2049 non contempla una prova liberatoria per il preponente, diversamente da quanto accade in altre fattispecie di responsabilità per fatto altrui (si pensi alla responsabilità conseguente all'esercizio di attività pericolose).

Ed è proprio da tale constatazione che sia la giurisprudenza (Cass. n. 11375/2006; Cass. n. 12448/2012, secondo la quale a norma dell'art. 2049, la società di intermediazione è responsabile degli illeciti commessi dal promotore finanziario anche a titolo oggettivo, cioè indipendentemente da comportamenti negligenti o colposi suoi propri, in relazione ai danni che l'investitore possa aver subito per aver fatto affidamento sull'esistenza del rapporto di preposizione) che la dottrina hanno inquadrato la norma nell'ambito della responsabilità oggettiva (Bianca, 729).

Pertanto, il suo fondamento teorico, deve essere individuato in un criterio di allocazione dei rischi, per il quale i danni cagionati a terzi dal fatto illecito dei dipendenti devono essere posti per ragioni di solidarietà sociale a carico del preponente, e ciò in considerazione del fatto che quest'ultimo trae un vantaggio dallo svolgimento dell'attività commissionata, sia pure per realizzare una finalità non lucrativa (Cass. n. 1541/1968 che ravvisa la ragione della responsabilità del padrone e del committente « nel criterio di inscindibilità degli effetti dannosi da quelli utili (principio del cuius commoda eius et incommoda), per cui chi trae vantaggio dall'attività del dipendente è tenuto alle conseguenze dannose dell'attività dei medesimi autori del danno, indipendentemente da propria colpa).

È quindi confermata la tesi della responsabilità oggettiva che trova ragione nel c.d. rischio di impresa (Trimarchi, 1961), che ravvisa proprio nell'art. 2049 un cardine della disciplina del rischio di impresa, secondo cui l'imprenditore dovrebbe rispondere dei danni che siano la realizzazione del maggior rischio che l'impresa introduce nella società) e nella massima garanzia del danneggiato, restando pur sempre una responsabilità vicaria e non diretta. Ciò significa che essa non opera per qualsiasi danno cagionato dall'attività di impresa (anche a prescindere da un comportamento umano), ma soltanto quando è accertata la sussistenza di una condotta illecita e dannosa del preposto, la cui realizzazione è condizione dell'insorgere della responsabilità del preponente. La disposizione di cui all'art. 2049, cioè, prevede una duplice responsabilità: quella del preposto, che può essere soggettiva o oggettiva, e quella del proponente, che è sempre oggettiva.

Così si è affermato che La responsabilità indiretta della compagnia assicuratrice per il fatto illecito del sub-agente, fondata, ai sensi dell' art. 2049 , sul nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze di quest'ultimo e il danno subìto dal cliente, postula che il fatto dannoso sia stato agevolato o reso possibile dall'inserimento del sub-agente nell'organizzazione dell'impresa e sussiste, pertanto, nonostante la tendenziale autonomia della posizione del sub-agente rispetto all'assicuratore, nell'ipotesi in cui quest'ultimo, quale primo preponente, abbia conferito al sub-agente un autonomo e diretto potere rappresentativo oppure mantenga comunque un controllo diretto anche sul suo operato o, ancora, si avvalga di un'organizzazione imprenditoriale articolata in un reticolo di agenzie che operano di regola a mezzo di sub-agenti abilitati a vendere i suoi prodotti assicurativi, nonché nell'ipotesi in cui ricorra la prova di un'apparenza di rapporto diretto del sub-agente con la compagnia per ottenere prodotti assicurativi in nome e per conto di essa (Cass. n. 23973/2019).

L'applicazione dell'art. 2049 c.c. nei confronti della P.A

La P.A. risponde infatti del fatto illecito dei propri dipendenti tutte le volte che tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente esista un nesso di occasionalità necessaria, e quest'ultimo sussiste tutte le volte che il pubblico dipendente non abbia agito come semplice privato per fini esclusivamente personali e del tutto estranei all'Amministrazione, ma abbia tenuto una condotta anche solo indirettamente ricollegabile alle attribuzioni proprie dell'agente (Cass. n. 29727/2011).

In tema di responsabilità della Pubblica amministrazione per fatto illecito del dipendente non è sufficiente la sola contestualità tra condotta criminosa e lo svolgimento delle mansioni affidate. Perché resti integro il rapporto organico fonte della diretta responsabilità della Pubblica amministrazione occorre altresì, indefettibilmente, che il comportamento del reo possa dirsi in linea con le finalità proprie dell'Ente. La responsabilità dell'ente deve in coerenza ritenersi sussistente là dove il comportamento nocivo del dipendente — ancorché deviato per violazione di norme regolamentari o per eccesso di potere — risulti finalizzato al raggiungimento dei fini istituzionali, rimanendo in tal senso insensibile il rapporto organico all'azione illecita con il conseguente coerente coinvolgimento dell'ente nell'obbligo risarcitorio in presenza di una preesistente immedesimazione. Se, invece, l'illecito si concreta nel perseguimento di finalità personali dell'agente, di fatto sostituite a quelle della P.A. e in contrasto con queste ultime, viene meno il rapporto di immedesimazione organica e quest'ultima rimarrà esente da ogni responsabilità civile (Cass. n. 26285/2013).

Nella giurisprudenza penale di legittimità, alcune sentenze hanno consapevolmente affermato la sussistenza di responsabilità civile della P.A. in casi nei quali si era in presenza di un nesso di occasionalità necessaria, perché la condotta illecita era stata resa possibile proprio in ragione esclusiva del contesto di adempimento di una specifica mansione pubblica, ancorché certamente l'intento perseguito in nessun modo poteva essere ricondotto a finalità istituzionale pubblica (Cass. pen. n. 33562/2003; Cass. pen. n. 40613/2013; Cass. pen. n. 21195/2011, che ha affermato sussistere la responsabilità civile del Ministero della Difesa nel caso di un omicidio volontario commesso sulla terraferma in danno di un cittadino straniero).

Di seguito, quindi, è stato affermato il principio di diritto a mente del quale sussiste la potenziale responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per le condotte di propri dipendenti che, sfruttando l'adempimento di funzioni pubbliche ad essi espressamente attribuite, ed in esclusiva ragione di un tale adempimento che quindi costituisce l'occasione necessaria e strutturale del contatto, tengano condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a terzi, ogniqualvolta le condotte che cagionano danno risultino non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni. La conclusione si impone in ragione dell'assenza di alcuna ragione di ordine costituzionale per escludere la responsabilità della P.A. (cui in definitiva compete la selezione e l'organizzazione delle persone che in concreto svolgono le sue proprie funzioni) per i danni che il non corretto, ma tuttavia non assolutamente imprevedibile ed eterogeneo, esercizio della funzione cagioni a terzi coinvolti nell'esercizio della funzione. Anzi, come è stato osservato, il senso dell'introduzione del principio di responsabilità della P.A. per fatto dei propri dipendenti con l'art. 28 Cost. è nella direzione esattamente contraria: più che la mancanza di un principio negativo, vi è l'affermazione espressa di un principio positivo.

In particolare, in virtù del principio di immedesimazione organica, la pubblica amministrazione è civilmente responsabile in via diretta della condotta penalmente rilevante posta in essere dai propri dipendenti o funzionari nell'esercizio delle potestà istituzionali dell'ente, essendo conseguentemente ammissibile l'azione di regresso condotta, nei suoi confronti, da parte di altre amministrazioni solidalmente responsabili in via indiretta (Cass. n. 865/2024, principio affermato dalla S.C. in relazione all'azione di regresso esercitata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero dell'Interno, a seguito della condanna in solido degli stessi quali corresponsabili civili, nei confronti di un Comune, il quale, in virtù del principio di immedesimazione organica, era tenuto a rispondere per fatto proprio del danno ingiusto provocato dalla condotta del Sindaco).

Così, sussiste una responsabilità concorrente dell'amministrazione penitenziaria nell'ipotesi di uso volontario di sostanza stupefacente da parte di un detenuto, poi deceduto, atteso che tale condotta non esclude il nesso causale fra la condotta dell'amministrazione penitenziaria e la morte, ponendosi in rilievo, invece, che l'uso consapevole della droga importa senza dubbio assunzione del rischio, ma tanto non produce totale neutralizzazione degli antecedenti causali con conseguente esclusione della responsabilità dell'ente (Cass. n. 12469/2018).

Ed ancora, in relazione alle scommesse sportive online, nel caso in cui la società concessionaria del servizio non procede alla restituzione della somma versata dallo scommettitore, quest'ultimo può avanzare la pretesa direttamente alla P.A. Ciò in quanto l'inserimento del concessionario dell'attività di organizzazione e di esercizio di giochi di abilità e concorsi pronostici nell'apparato organizzativo della P.A. comporta che dei danni arrecati dal fatto illecito del concessionario medesimo risponda l'autorità ministeriale concedente, titolare del potere di vigilanza e controllo (Cass. n. 4026/2018).

Rapporto di preposizione ed intermediazione finanziaria

In tema di intermediazione finanziaria, l'intermediario preponente risponde in solido del danno causato al risparmiatore dai promotori finanziari da lui indicati, in tutti i casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra il fatto del promotore e le incombenze affidategli. Tale responsabilità sussiste non solo quando detto promotore sia venuto meno ai propri doveri nell'offerta dei prodotti finanziari ordinariamente negoziati dalla società preponente, ma anche in tutti i casi in cui il suo comportamento, fonte di danno per il risparmiatore, rientri comunque nel quadro delle attività funzionali all'esercizio delle incombenze affidategli.

La Corte di Cassazione ha ritenuto la responsabilità della banca per l'attività del promotore finanziario, non legato da vincolo di subordinazione, qualora la presenza negli uffici della banca, l'uso di modulistica di pertinenze e la spendita del nome abbiano concorso ad ingenerare il legittimo convincimento, nel terzo in buona fede, dell'attività svolta dal consumatore l'illecito come riferibile alla banca mandante (Cass. n. 17393/2009; Cass. n. 12448/2012).

La norma di cui all'art. 2049 c.c. è finalizzata a proteggere i terzi danneggiati dalla condotta del dipendente - rispetto alla quale il preponente risponde per il cd. collegamento funzionale - e non è volta a tutelare i terzi che, in cooperazione col dipendente, abbiano cagionato danni al soggetto preponente (Cass. n. 22717/2022, in applicazione del principio, la S.C. ha escluso che, in mancanza di un concorso ex art. 1227 c.c., l'art. 2049 c.c. potesse fondare una corresponsabilità della banca danneggiata dalla condotta truffaldina del direttore di una sua filiale, che in cooperazione con un notaio e con un imprenditore in crisi, aveva concesso di una serie di mutui garantiti da ipoteche su immobili di consistenza molto inferiore rispetto alle somme mutuate).

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