Codice Civile art. 2071 - Contenuto.

Paolo Sordi

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[I]. Il contratto collettivo deve contenere le disposizioni occorrenti, secondo la natura del rapporto, per dare esecuzione alle norme di questo codice concernenti la disciplina del lavoro, i diritti e gli obblighi degli imprenditori e dei prestatori di lavoro [2072 3] (1).

[II]. Deve inoltre indicare le qualifiche e le rispettive mansioni dei prestatori di lavoro appartenenti alla categoria a cui si riferisce la disciplina collettiva.

[III]. Deve infine contenere la determinazione della sua durata [2074].

(1) Comma così modificato dall'art. 32 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 287.

Inquadramento

Nel contesto dell'ordinamento corporativo, la norma in commento aveva essenzialmente la funzione di stabilire limiti inderogabili al potere normativo dei sindacati, il legislatore intendendo evitare che potessero essere inserite nel contratto collettivo disposizioni in materie estranee al rapporto di lavoro. Alla luce della garanzia costituzionale della libertà sindacale espressa dall'art. 39 Cost., oggi non è più possibile ritenere sussistenti obblighi di contenuto dei contratti collettivi, contenuto che, in virtù del principio di autodeterminazione delle parti stipulanti, è rimesso solamente alla loro iniziativa.

La giurisprudenza non dubita comunque che l'abolizione del sistema corporativo non ha inciso, per quanto concerne i contratti collettivi di formazione successiva, sul rinvio ad essi fatto da numerose disposizioni del codice civile, data la ratio del rinvio stesso, da identificare nella volontà del legislatore di riservare al potere negoziale delle categorie interessate la determinazione specifica, entro il quadro fissato, della disciplina della materia considerata; ciò in ragione, da un canto, della maggiore aderenza in tal modo conseguibile alle concrete esigenze che per le parti si pongono nei diversi settori dell'attività produttiva e, dall'altro, della funzione socio-economica che l'ordinamento vigente assegna, al di fuori della abrogata regolamentazione corporativa e di quella, inattuata, prevista dall'art. 39 cost., ai contratti collettivi di diritto comune, nei limiti di efficacia loro propri (Cass. n. 4331/1988).

Nell'ambito delle previsioni dei contratti collettivi postcorporativi si è soliti distinguere tra clausole normative, clausole obbligatorie e clausole miste.

Le clausole normative

Le clausole normative sono quelle dirette a definire il trattamento economico e normativo dei rapporti di lavoro. Sotto questo profilo il contratto collettivo non crea rapporti, ma costituisce la disciplina di rapporti già costituiti o futuri, attribuendo diritti ed obblighi alle parti individuali. La dottrina parla, in proposito, di contratto normativo, in quanto diretto a determinare i contenuti di una futura produzione negoziale (Giugni, 132), ovvero di contratto tipo, perché non si limita alla generica predisposizione di elementi di futuri contratti, ma li fissa direttamente (Ghezzi, 6), o ancora di figura che presenta sia i caratteri del contratto normativo, sia quelli del contratto tipo (Simi, 15).

La parte normativa del contratto collettivo si distingue pertanto da quella obbligatoria, composta dalle clausole destinate a regolare rapporti obbligatori tra i soggetti che hanno stipulato il contratto collettivo.

In tali termini, la distinzione è accolta anche dalla giurisprudenza (Cass. n. 15262/2002; Cass. n. 3813/2001), che ne fa discendere conseguenze pratiche allorquando esclude che le clausole obbligatorie siano idonee a creare diritti ed obblighi (oltre che per i soggetti stipulanti, anche) per i singoli lavoratori (Cass. n. 5625/2000).

Un ulteriore profilo di rilevanza pratica della distinzione si coglie nell'orientamento giurisprudenziale che nega ai sindacati la legittimazione ad agire per l'applicazione della parte normativa dei contratti collettivi (Cass. n. 6480/1983).

Le clausole obbligatorie

Ad avviso della dottrina, rientrano nella parte obbligatoria del contratto collettivo, tra le altre: le clausole di rinvio, dirette a definire la competenza dei vari livelli negoziali; quelle che regolamentano gli obblighi di informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali; quelle che predispongono le procedure per la determinazione di elementi retributivi variabili; quelle che creano e disciplinano organismi bilaterali (commissioni, enti, ecc.); quelle che prevedono riunioni periodiche.

La giurisprudenza ha qualificato come obbligatoria anche la clausola relativa all'impegno del datore di lavoro di effettuare la trattenuta dei contributi sindacali (Cass. n. 6656/2002; Cass. n. 3813/2001) e quelle che istituiscono le c.d. quote di servizio, cioè i contributi per le spese di negoziazione (Cass. n. 6394/1992).

La giurisprudenza nega che la parte obbligatoria del contratto collettivo sia dotata di forza espansiva, onde essa è inapplicabile ad associazioni sindacali diverse da quelle contraenti (Cass. n. 1700/1986). Così come è stato escluso che le clausole obbligatorie, essendo estranee alla regolamentazione del rapporto di lavoro, possano essere vincolanti per il lavoratore per effetto della sola recezione del contratto collettivo (Cass. n. 6394/1992).

Le clausole miste

Appartengono a questa categoria quelle clausole dei contratti collettivi che impongono obblighi reciproci ai soggetti collettivi stipulanti, ma contemporaneamente costituiscono posizioni giuridiche in capo ai singoli.

Si tratta, anzitutto, delle clausole di amministrazione del contratto collettivo, le quali predispongono procedure destinate a comporre i conflitti originati dall'applicazione delle norme dei contratti collettivi.

La dottrina parla, al riguardo, di funzione compositiva di conflitti giuridici, mediante la quale i soggetti collettivi dispongono di situazioni giuridiche in atto (Giugni, 144).

Essa, come affermato dalla giurisprudenza, se spiega la propria efficacia diretta nei confronti delle parti stipulanti, indirettamente può incidere anche su singoli lavoratori e non è soggetta ai limiti, circa l'efficacia erga omnes, stabiliti costituzionalmente per i contratti collettivi (Cass. n. 15500/2006; Cass. n. 11634/2004). Al riguardo rilevano, ad esempio, le previsioni dei contratti collettivi che, in occasione dell'introduzione di nuove qualifiche in coincidenza con ristrutturazioni o modifiche di portata generale dell'organizzazione del lavoro, stabiliscono che alla classificazione dei lavoratori provvedano commissioni paritetiche, le cui determinazioni sono considerate come ricognizioni negoziali di interpretazione autentica delle declaratorie contrattuali, con lo stesso valore normativo delle disposizioni contrattuali originarie (Cass. n. 20066/2004; Cass. n. 12771/2002; Cass. n. 11255/2000).

Altra categoria di clausole rilevanti in proposito sono quelle c.d. di procedimentalizzazione, dirette a sottoporre l'esercizio, da parte del datore di lavoro, del suo potere organizzativo a vincoli procedurali che implicano la partecipazione dei sindacati in varie forme (informazione preventiva, esame congiunto, ecc.). Al riguardo si tratta di stabilire se la violazione di quei vincoli determini l'invalidità dell'atto negoziale compiuto dal datore di lavoro e se il lavoratore interessato sia legittimato a far valere la violazione della previsione del contratto collettivo.

La durata del contratto collettivo

È del tutto pacifico in giurisprudenza che ai contratti collettivi postcorporativi non sia applicabile la norma dell'art. 2071, ultimo comma, relativa all'obbligo di determinare la durata del contratto, con la conseguente possibilità che un contratto collettivo sia stipulato senza indicazione del termine finale, ossia a tempo indeterminato (Cass. n. 4507/1993).

In tale ipotesi, la mancata indicazione anzidetta non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, atteso che — in sintonia con il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto ex art. 1375 ed in coerenza con la naturale temporaneità dell'obbligazione — deve riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l'efficacia, previo recesso, anche in mancanza di un'espressa previsione legale, non essendo a ciò di ostacolo il disposto dell'art. 1373, che contempla il recesso unilaterale nei contratti di durata quando tale facoltà è stata introdotta dalle parti, senza nulla disporre per il caso di mancata previsione pattizia al riguardo (Cass. n. 1694/1997; Cass. n. 4507/1993).

Peraltro la facoltà di recesso spetta solamente alle parti stipulanti, vale a dire alle associazioni sindacali e datoriali e non al singolo datore di lavoro, il quale non può recedere unilateralmente dal contratto collettivo neppure adducendone l'eccessiva onerosità (Cass. n. 24575/2013).

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