Codice Civile art. 2104 - Diligenza del prestatore di lavoro.Diligenza del prestatore di lavoro. [I]. Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale [1176 2]. [II]. Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende [2086, 2094, 2106]. InquadramentoL'art. 2104 definisce gli obblighi di diligenza (comma 1) e di obbedienza (comma 2) del prestatore di lavoro. Secondo la dottrina, si tratta di specificazioni dell'obbligazione principale gravante sul lavoratore, che è quella di svolgere le mansioni assegnategli in base alle direttive ricevute (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 169), ovvero, secondo altra, analoga, formulazione, di comportamenti integrativi e strumentali all'adempimento della prestazione lavorativa (Grandi, 341). L'obbligo di diligenzaLa dottrina è concorde nell'escludere la natura di posizione soggettiva autonoma della diligenza, giacché questa si configura non quale contenuto di una obbligazione autonoma, ma come modalità intrinseca della presupposta prestazione lavorativa, rispetto alla quale opera quale criterio di valutazione dell'esattezza dell'adempimento (Magrini, 409; Grandi, 341; Buoncristiano, 577; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 169). L'art. 2104 indica tre parametri di commisurazione della diligenza richiesta al lavoratore: la natura della prestazione dovuta, l'interesse dell'impresa, l'interesse superiore della produzione nazionale. Secondo la giurisprudenza, la diligenza così come definita dalla norma in esame deve essere utilizzata anche nella valutazione dell'adempimento degli obblighi accessori rispetto all'obbligazione principale di esecuzione della prestazione lavorativa gravanti sul lavoratore (Cass. n. 11107/1991, con riferimento all'obbligo di custodia degli strumenti di lavoro). La natura della prestazione dovuta Secondo la dottrina, l'art. 2104 applica all'obbligazione di lavoro lo stesso criterio stabilito per le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale dall'art. 1176, comma 2 (a norma del quale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata), onde non vi è differenza nella natura della diligenza (Magrini, 409; Pera, 597), ma nella sua valutazione, nel senso che la diligenza del prestatore di lavoro, come degli altri obbligati a un'attività professionale, è sempre la diligenza del «buon padre di famiglia»; quando si tratti della diligenza «propria del buon lavoratore», essa, dovendo essere commisurata alla specifica attività alla quale il prestatore è obbligato e graduarsi secondo l'indole di questa attività, può essere valutata più rigorosamente (Santoro-Passarelli, 178). Anche la giurisprudenza si esprime in termini analoghi. Così, per Cass. n. 13530/2008, la diligenza rileva quale modalità con cui la prestazione deve essere svolta; per Cass. n. 11107/1991 e Cass. n. 2951/1985, l'obbligo di diligenza previsto dall'art. 2104 costituisce una specificazione del principio generale espresso dall'art. 1176, comma 2. In concreto, poi, secondo la giurisprudenza il riferimento alla natura della prestazione impone di valutare la posizione del lavoratore con riferimento alla sua qualifica professionale, alla natura delle incombenze affidategli, nonché alle situazioni ambientali ed aziendali nelle quali egli esplica le sue mansioni (Cass. n. 5250/1989; Cass. n. 1037/1977). Peraltro, ove le parti prevedano specifiche pattuizioni dirette ad attenuare il vincolo della subordinazione, la speciale connotazione di quest'ultima assume rilevanza nella fase di esecuzione del contratto stesso, ma non sull'obbligazione di eseguire la prestazione, né sul suo contenuto, con la conseguenza che essa non trova rilievo nell'indagine e nella valutazione dell'inadempimento del prestatore d'opera, che va condotta pur sempre alla stregua delle indicazioni fornite dall'art. 2104 (Cass. n. 5122/1985, rispetto ad un contratto di lavoro artistico). La dottrina prevalente è orientata a comprendere nel concetto di diligenza ex art. 2104 anche la perizia, vale a dire l'attitudine tecnica del lavoratore (Santoro-Passarelli, 179; Magrini, 410). Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza (Cass. n. 7861/1987; Cass. n. 4833/1977). L'interesse dell'impresa Più controverso è il riferimento all'interesse dell'impresa, di chiara matrice corporativistica, onde si potrebbe dubitare della persistente rilevanza pratica di tale criterio (Pera, 597). Tuttavia la dottrina prevalente è orientata a riconoscere un ruolo anche a tale criterio, precisando che esso sta ad indicare che la prestazione del lavoratore va rapportata, oltre che ai caratteri dell'attività lavorativa in senso stretto, alle particolari esigenze dell'organizzazione nella quale il rapporto si inserisce (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 170; Buoncristiano, in Tr. Res., XV, 1986, 577), sottolineando come, attraverso il collegamento fra la misura dell'esatta prestazione dovuta dal lavoratore ed il dato dell'organizzazione imprenditoriale, si manifesta una penetrazione di elementi tipicamente istituzionali nella sfera degli effetti del contratto di lavoro (Magrini, 410) e segnalando come un ruolo determinante possa essere svolto dalla contrattazione collettiva, al fine di adeguare il contenuto dell'obbligo alle peculiarità del tipo di attività svolta dal lavoratore e al contesto organizzativo in cui essa ha luogo (Viscomi, 175). In altri termini, il riferimento dell'art. 2104 all'interesse dell'impresa non riguarderebbe tanto le attese «verso una prestazione che sia professionalmente e tecnicamente in regola», ma opererebbe «sul piano specifico della concreta utilizzabilità della prestazione di lavoro nella specifica realtà organizzativa» (Cester-Mattarolo, 170). Anche alcune decisioni della giurisprudenza appaiono consapevoli della persistente rilevanza dell'interesse dell'impresa quale criterio per la valutazione dell'adempimento del prestatore. Così, Cass. n. 5167/1983, ha affermato che, affinché il lavoratore adempia i doveri nascenti dal contratto di lavoro, non è sufficiente che egli metta formalmente a disposizione dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma occorre anche che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro l'uso effettivo e proficuo di dette energie. Cass. n. 3845/1992 ha stabilito che l'obbligo di diligenza, imposto al lavoratore dall'art. 2104, comma 1, si sostanzia non solo nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa, ma anche nell'esecuzione dei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro ad un'utile prestazione (sull'obbligo del lavoratore di osservare tutti quei comportamenti accessori e quelle cautele che si rendano necessari ad assicurare una gestione professionalmente corretta, v. anche Cass. n. 12769/2000). Secondo Cass. n. 6813/2004, ai fini della configurabilità della violazione, da parte del dipendente, del dovere di osservare la diligenza richiesta dall'interesse dell'impresa, assume rilievo che tale interesse sia stato specificamente valutato da organi o soggetti preposti che, in particolare, abbiano impartito specifici orientamenti o indicazioni, dovendosi escludere, in tal caso, il dovere del lavoratore di rivolgersi ad altri organi o soggetti sovraordinati. L'interesse della produzione nazionale La dottrina riconosce che il riferimento dell'art. 2104 al superiore interesse della produzione nazionale non ha ragion d'essere nella disciplina dell'obbligazione del prestatore verso l'imprenditore, proprio perché definito “superiore”, e quindi estraneo all'assetto degli interessi contrattuali (Santoro-Passarelli, 178; Magrini, 410) e, evidenziando la sua stretta connessione con il soppresso ordinamento corporativo, tende a ritenerlo ormai privo di rilevanza (Pera, 597) o addirittura implicitamente abrogato (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 169). Anche se non manca chi, seppur con formulazioni dubitative, ha prospettato la possibilità di rivalutare la disposizione alla luce del vigente assetto costituzionale, considerato che è sempre possibile orientare il comportamento delle parti nei rapporti interprivati sulla base dei princìpi di tale assetto, individuando nella norma sul dovere di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.) quella più prossima alla direttiva in parola (Grandi, 342; Buoncristiano, in Tr. Res., XV, 1986, 578). L'obbligo di obbedienzaLa dottrina ricostruisce l'obbligo di obbedienza non come un obbligo a sé, ma quale conseguenza della posizione di soggezione giuridica del prestatore a fronte del diritto potestativo del datore di lavoro di incidere unilateralmente nella sfera giuridica del primo attraverso l'esercizio del potere direttivo (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 170); in altri, termini, esso costituisce il lato passivo della subordinazione (Grandi, 343). La giurisprudenza accoglie la medesima impostazione, precisando comunque che la facoltà del datore di lavoro di predisporre unilateralmente norme interne di regolamentazione attinenti all'organizzazione tecnica e disciplinare del lavoro nell'impresa, con efficacia vincolante per i prestatori di lavoro, non è privo di limiti e, affinché non sconfini nell'arbitrio e non perda ogni collegamento con l'interesse all'ordinato svolgersi dell'attività lavorativa, occorre, a norma di principi desumibili principalmente dall'art. 1175, che il suo esercizio sia effettivamente funzionale alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell'azienda; si deve invece escludere che il datore di lavoro possa impartire prescrizioni che, imponendo limitazioni alle libertà del prestatore d'opera, risultino prive di fondamento logico o del tutto avulse dalle ragioni attinenti all'organizzazione, alla disciplina e all'attività produttiva; non trovano quindi legittimazione nei poteri datoriali riconosciuto dall'ordinamento quei provvedimenti che arrechino danno o siano di ingiustificato disagio per i lavoratori, senza realizzare alcun apprezzabile interesse dell'impresa (Cass. n. 1892/2000). La stessa giurisprudenza ha affermato che non è invece ravvisabile un'ipotesi di insubordinazione - idonea a giustificare un licenziamento per giustificato motivo - nel comportamento del lavoratore che reagisca, seppur in forma illegittima, agli atti arbitrari del superiore che siano palesemente ed incontrovertibilmente esterni al rapporto di lavoro, considerato anche che il datore di lavoro ha in generale l'obbligo di proteggere la sfera morale del lavoratore in azienda e di assicurare che l'esercizio del potere gerarchico sia ispirato a principi di correttezza (Cass. n. 12717/1998). Con riferimento ad una delle ipotesi maggiormente frequenti in materia di disubbidienza del lavoratore alle direttive impartitegli, la giurisprudenza afferma che lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 e potendo egli invocare l'art. 1460 solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass. n. 12696/2012; Cass. n. 29832/2008; Cass. n. 25313/2007). L'inosservanza degli obblighi di diligenza e obbedienzaLa violazione dei doveri di diligenza e obbedienza è fonte di responsabilità del lavoratore, sia sotto il profilo disciplinare, sia sotto quello risarcitorio (in giurisprudenza, Cass. n. 394/2009). A questo secondo riguardo, la stessa giurisprudenza ha precisato che si tratta di responsabilità contrattuale, che sussiste anche in caso di colpa lieve del prestatore (Cass. n. 16530/2004; Cass. n. 6664/2000). Stante la diversità dei due profili (quello disciplinare e quello risarcitorio), la giurisprudenza esclude che la previa contestazione dell'addebito in sede disciplinare condizioni la proponibilità dell'azione risarcitoria (Cass. n. 950/1999). Salva comunque la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere una simile condizione (Cass. n. 4083/2002, che ha giudicato valide simili clausole). 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