Codice Civile art. 2697 - Onere della prova.Onere della prova. [I]. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [115, 116 c.p.c.]. [II]. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda. InquadramentoL'art. 2697 costituisce una norma di rilievo centrale in materia di istruzione probatoria poiché contempla il principio generale secondo cui ogni soggetto che intende agire o resistere in giudizio dei fornire la prova dei fatti che pone a fondamento della propria domanda; analogamente, colui che si difende deve fornire prova delle proprie eccezioni. Corollario della norma de qua è il principio dispositivo del processo, secondo cui le prove sono a disposizione delle parti, tranne nei casi previsti dalla legge. La norma esprime, quindi, in tema di prove civili, il fondamentale principio dispositivo in forza del quale alla base della decisione del giudice devono essere poste soltanto le prove che le parti hanno prodotto nel corso del procedimento. Le disposizioni applicabili e la conseguente decisione finale del giudice dovranno dunque essere fondate su atti o fatti mostrati da attore e convenuto, con eccezione dei tassativi casi ex lege previsti di possibilità di acquisizione della prova d'ufficio (che costituisce quindi una deroga alla norma in esame). Natura della normaLa norma in esame distribuisce tra le parti le conseguenze negative che derivano dalla mancata prova dei fatti, secondo il noto brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit. Tali conseguenze sono la soccombenza della parte che non ha fornito la dimostrazione del fatto che aveva l'onere di provare. Mentre è la norma sostanziale applicabile al caso a stabilire quali fatti sono giuridicamente rilevanti, l'art. 2697 fa capo alla posizione processuale delle parti al fine di ripartire queste conseguenze tra attore e convenuto (Taruffo, 68). La disposizione afferma che deve essere l'attore ad allegare i fatti che costituiscono il fondamento della domanda, ossia del diritto che con essa l'attore fa valere, e che il convenuto debba allegare i fatti che fondano le sue eccezioni, ovvero le ragioni di inefficacia, modificazione o estinzione di quel diritto. In tal modo, puramente formale, si impone ad ognuna delle parti l'onere di provare ciò che ha affermato a sostegno delle proprie posizioni, rendendo relativamente agevole al giudice la decisione nei singoli casi concreti (Comoglio, 98; Taruffo, 68). Tipologia delle allegazioni e conseguenti oneri probatoriL'art. 2697, come anticipato, adotta un criterio di ripartizione di natura processuale, poiché si riferisce ai fatti giuridici che attore e convenuto hanno rispettivamente allegato. Sono, dunque, le specifiche allegazioni rispettivamente effettuate dalle parti a determinare di volta in volta l'oggetto dei loro oneri probatori. Ad ogni modo è necessario far riferimento alla disciplina sostanziale della fattispecie per stabilire quali fatti siano giuridicamente rilevanti e idonei a fondare la domanda e l'eccezione. Con specifico riferimento alla questione della ripartizione dell'onere probatorio in materia contrattuale sono intervenute le S.U. della Cassazione (Cass. S.U., n. 13533/2001), a risolvere alcuni precedenti contrasti giurisprudenziali. In tale pronuncia delle S.U., la posizione del creditore cha agisce per l'adempimento viene equiparata a quella del creditore cha agisce per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, potendo questi limitarsi a fornire la sola prova del titolo e ad allegare l'inadempimento della controparte, sulla quale, invece, incombe l'onere di provare il fatto estintivo dell'adempimento. Peraltro, sul debitore convenuto per l'adempimento o la risoluzione che eccepisca l'altrui inadempimento ex art. 1460, grava solo l'onere di allegare l'inadempimento, dovendo in questo caso l'attore-creditore fornire la prova del proprio adempimento. Nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto prestazioni negative, spetta in ogni caso al creditore la prova dell'inadempimento, agisca egli per l'adempimento o per la risoluzione. Con riferimento alla prova dei fatti costitutivi, la giurisprudenza ha affermato che spetta all'attore l'onere di provare il nesso di causalità tra il comportamento del convenuto e il danno di cui si chiede il risarcimento, mentre ha escluso che la titolarità del bene sia fatto costitutivo nell'azione negatoria, e quindi vada provata rigorosamente dall'attore (Cass. II, n. 4120/2001). Così, in tema di telecomunicazioni, in caso di malfunzionamento del servizio di connessione analogica, l'indennizzo previsto dalla carta dei servizi non solleva l'utente che chieda il risarcimento per malfunzionamento, dall'onere di provare il danno, dal momento che l'esistenza e l'entità del disservizio non può fondarsi su di una presunzione da cui trarre il pregiudizio risarcibile (Cass. III, n. 27609/2019). Abbastanza agevole è, di regola, anche l'individuazione dei fatti modificativi (come l'adempimento parziale, la sopravvenuta impossibilità parziale di adempiere o la riduzione della prestazione), che mutano l'oggetto del diritto, e dei fatti estintivi (come lo scioglimento del contratto, il verificarsi di una condizione risolutiva, o la prescrizione), che hanno l'effetto di caducarlo o di farlo venir meno (Comoglio, 197; Tommaseo, 159). Più complessa è invece la problematica attinente ai fatti impeditivi, che ha dato luogo ad ampi dibattiti dottrinali dovuti essenzialmente alla difficoltà di distinguere la mancanza di un fatto impeditivo dalla presenza degli elementi veramente costitutivi del diritto (Comoglio, 199; Patti, Prove, 97; Tommaseo, 159). D'altronde, al di là delle difficoltà di sistemazione dogmatica del concetto di fatto impeditivo, la norma in commento opera una decisa semplificazione della fattispecie nel momento in cui attribuisce comunque al convenuto l'onere di dare la prova del fatto impeditivo, e quindi di allegarne in positivo l'esistenza, e non configura invece in capo all'attore alcun onere di allegare e provare l'inesistenza dei possibili fatti impeditivi. La c.d. regola di giudizioI presupposti funzionali sui quali si fondano le regole attinenti all'onere della prova si identificano nei più importanti corollari del principio dispositivo, il quale evidenzia la signoria che le parti mantengono sul rapporto controverso. Primo corollario del principio appena indicato è il principio della domanda (art. 2097; art. 99 c.p.c.) in base al quale il giudice non può pronunciarsi oltre le richieste formulate dalle parti. Secondo corollario è rappresentato dal c.d. onere di allegazione dei fatti che giustificano le richieste avanzate dagli interessati e che vanno a circoscrivere l'ambito di cognizione dell'organo giudicante. Il carattere dispositivo del processo civile si esprime, infine, nel c.d. principio di disponibilità delle prove di cui all'art. 115 c.p.c., in base al quale attore e convenuto devono dimostrare i fatti da loro allegati, non potendo il giudice acquisirne d'ufficio la relativa conoscenza. Non necessitano di prova, invece, ex art. 115, comma 2, c.p.c. i fatti notori rientranti nella comune esperienza e, in base ad un principio risalente e non codificato, ma avallato da recente giurisprudenza di legittimità, i fatti non contestati. In base al summenzionato principio di disponibilità della prova, quest'ultima viene dunque a costituire oggetto di un onere gravante sulle parti del processo civile, la cui ripartizione è appunto regolata dall'art. 2697. In dottrina si è ritenuto che tale norma non possa essere intesa solo come regola volta a ripartire tra gli interessati l'iniziativa processuale, ma deve essere letta anche come regola che mira a consentire una pronuncia giudiziale pur nell'ipotesi in cui il fatto sia rimasto incerto. Il giudice non può mai sottrarsi all'unica alternativa consentitagli, che è quella di accogliere o respingere la domanda, egli soggiace al divieto di non liquet. Dall'art. 2697, dunque, scaturisce una regola formale di giudizio, avente carattere residuale, in forza della quale, laddove le risultanze istruttorie non offrano elementi idonei per l'accertamento pieno di quei fatti, va dichiarata la soccombenza della parte che aveva l'onere di fornire la relativa prova. Limiti oggettivi dell'onere della provaAlcuni fatti, dotati di caratteristiche peculiari, non rientrano nell'applicazione delle regole relative all'onere della prova. Si tratta anzitutto delle “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” di cui parla l'art. 115, comma 2, c.p.c., ossia dei fatti notori e delle c.d. massime d'esperienza. L'art. 115 prevede, infatti, che il giudice possa servirsi di queste nozioni ai fini della decisione senza bisogno di prova, ossia traendole dalla propria scienza privata (cfr. Patti, Prove, 73). La dottrina ritine, inoltre, che le regole in questione si applichino soltanto ai fatti contestati tra le parti. In effetti la mancata contestazione di un fatto allegato da una parte ad opera dell'altra parte renderebbe questo fatto «pacifico» e, quindi, non bisognoso di prova. Con una importante pronuncia resa a sezioni unite in materia di rito del lavoro, la Cassazione ha affermato che la non contestazione vincola il giudice a ritenere esistenti i fatti principali non contestati, precisando altresì che la contestazione tardiva è ammissibile solo nei limiti consentiti dall'art. 184 bis c.p.c. (articolo abrogato dall'art. 46, l. 18 giugno 2009, n. 69) (Cass. S.U., n. 761/2002). I principi affermati dalle sezioni unite sono stati ribaditi dalla giurisprudenza successiva anche in relazione alla non contestazione nel processo ordinario (Cass. I, n. 6936/2004). Ad ogni modo, sul tema della non contestazione è intervenuto il legislatore modificando il comma 1 dell'art. 115 c.p.c., il quale espressamente prevede che il giudice può porre a fondamento della decisione, oltre alle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Non rileva invece, al fine dell'applicazione delle regole sull'onere della prova, la circostanza che la norma sostanziale dia del fatto una determinazione negativa. I fatti negativi sono dunque normalmente oggetto di onere probatorio: la parte onerata potrà darne la prova, normalmente dimostrando fatti «positivi» incompatibili con la verità del fatto di cui deve dimostrare l'inesistenza (Patti, Prove, 53). In proposito la giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 24052 /2017) ha specificato che il nuovo testo dell'art. 115 non ha inteso creare nuove fattispecie di prova legale, considerato che il momento valutativo, contestabile come impugnazione per error in procedendo , verificando la specificità dell'allegazione avversaria, giacché, diversamente, davanti ad una deduzione probatoria del tutto generica la non contestazione diviene problematica e, comunque, sempre che quelle allegazioni siano “vicini” al convenuto secondo il principio della vicinanza della prova. Non ha nulla a che vedere con gli oneri probatori la dimostrazione dell'esistenza e del contenuto di norme giuridiche, anche quando si tratti di norme antiche, consuetudinarie o straniere. Opera al riguardo il principio jura novit curia, per il quale il giudice conosce d'ufficio la norma giuridica applicabile, nonché il principio generale per cui le prove riguardano i fatti e non le norme. In tema di usi normativi va affermato il principio secondo il quale il giudice, non essendo obbligato a conoscerli, è tenuto ad applicarli solo quando siano a lui noti. Ne deriva che l'onere di provare la loro esistenza grava sulla parte che ne richieda l'applicazione e la relativa prova non può essere fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità (Cass. II, n. 11127/2022). Modificazioni e inversioni dell'onere della provaLa regola di cui all'art. 2697 subisce delle deroghe previste in diverse disposizioni legislative. La prima a venire in rilievo è la presunzione legale (art. 2727). Le presunzioni legali possono essere assolute o relative. Le presunzioni assolute sono poco numerose; per di più si ritiene che esse attengano alla disciplina sostanziale della fattispecie, e quindi non incidano sulla materia degli oneri probatori (Taruffo, Onere, 76). Per l'esclusione di una presunzione assoluta non prevista dalla legge si veda la giurisprudenza (Cass. lav., n. 9588/2001). Sono invece le presunzioni relative, che ammettono la prova contraria, a costituire il mezzo con cui il legislatore modifica o inverte la distribuzione degli oneri probatori fra le parti. Il meccanismo della presunzione legale relativa consiste nel dare per vero, senza richiederne la prova, un fatto che una parte dovrebbe provare se si applicasse la regola dell'art. 2697. La legge prevede quindi una relevatio ab onere probandi in favore della parte che allega il fatto presunto: questo fatto non ha bisogno di essere provato, e tuttavia il giudice fonderà su di esso la decisione. Spetterà quindi all'altra parte, se vuole evitare ciò, fornire la prova contraria del fatto presunto: è in ciò che si verifica l'inversione o modificazione dell'onere della prova. Peraltro, sotto il profilo oggettivo la distribuzione degli oneri probatori in realtà non viene modificata. Ciò in quanto la parte contro cui opera la presunzione avrebbe comunque l'onere della prova contraria, anche qualora la presunzione non vi fosse, nel caso in cui l'altra parte desse la prova positiva del fatto. Numerose presunzioni legali sono disseminate nella fornirne una descrizione sia pure sommaria. Le ragioni per cui il legislatore interviene sulla normale ripartizione degli oneri probatori sono eterogenee; talvolta la ragione consiste nell'estrema difficoltà di fornire la prova di un fatto, e nella relativamente maggiore facilità di provare il contrario; talvolta si presume un fatto che corrisponde all'id quod plerumque accidit e si colloca l'onere della prova in capo a chi allega un fatto che non corrisponde alla «normalità»; talvolta il legislatore mira a facilitare la tutela dei diritti di determinati soggetti, e quindi elimina o riduce gli oneri probatori che costoro dovrebbero soddisfare. L'onere di dimostrare che, se adeguatamente informato, il paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l'atto terapeutico articolato attraverso una successione di interventi chirurgici di tipo "riparatorio", rimasti senza successo nell'ambito di un pregiudizio già manifestatosi nel primo intervento medico, ricade sul sanitario, proprio in conseguenza dell'epilogo non risolutivo dei detti tentativi di risoluzione di un atto terapeutico originario non correttamente eseguito (Cass. III, n. 23328/2019). Normalmente è il legislatore che modifica o inverte gli oneri probatori tra le parti per mezzo delle presunzioni legali. Accade tuttavia che fenomeni analoghi si verifichino al di fuori di specifiche previsioni normative, ad opera della giurisprudenza (le c.d. presunzioni giurisprudenziali), la quale presume la verità di determinati fatti in favore di una parte, attribuendo all'altra parte l'onere di provare il contrario (Comoglio, 228, 262, 475; Patti, Prove, 109; Taruffo, Onere, 77). In altri casi la giurisprudenza non crea vere e proprie presunzioni ma ritiene sufficiente che una parte dimostri, anche solo con indizi, l'apparenza di una situazione tipica secondo l'id quod plerumque accidit, ossia la mera verosimiglianza o «normalità» del fatto che dovrebbe provare. Un caso d'inversione dell'onere della prova in tema di usucapione, si rinviene nella presunzione di cui all'art. 1141, comma 1, c.c. in punto di animus possidendi, cosicché non spetta al possessore dimostrare l'esistenza di tale elemento soggettivo, ma alla parte che si opponga all'avvenuta maturazione dell'usucapione dimostrarne la mancanza (Cass. II, n. 25095/2022). L'inversione unilaterale dell'onere della provaAccade talvolta che una parte offra la prova di un fatto che non avrebbe l'onere di provare secondo il criterio fissato dall'art. 2697. In virtù del principio di acquisizione probatoria il giudice si servirà eventualmente dei risultati della prova dedotta dalla parte non onerata, ma ciò non comporta alcuna conseguenza sulla distribuzione originaria degli oneri probatori. Se la prova riesce, la parte non onerata che l'ha prodotta soccombe in quanto l'altra parte, che aveva l'onere di provare quel fatto, lo vede dimostrato per iniziativa dell'avversario. La responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall'art. 1337 nella formazione progressiva del negozio, va ricondotta al regime della responsabilità extracontrattuale, con tutte le conseguenze in merito alla distribuzione dell'onere della prova. Ne consegue che, in caso di recesso ingiustificato di una parte, l'onere della prova che il proprio comportamento corrisponda ai canoni di buona fede e correttezza non grava sul recedente, ma incombe, al contrario, sull'altra parte che ha l'onere di dimostrare che il recesso subito viola i principi della buona fede e della correttezza (Cass. II, n. 24738/2019). La giurisprudenza è costante nel richiedere una specifica dichiarazione di volontà della parte che si assume le conseguenze negative che deriverebbero dal fallimento della prova che intende fornire (Cass. trib., n. 17573/2002). Altra giurisprudenza ha escluso che la produzione di un atto notorio sia idonea a provocare un'inversione dell'onere della prova, che dovrebbe essere prevista da una norma positiva (Cass. III, n. 5154/2001). In tema di revoca della confessione per errore di fatto secondo Cass. I, n. 9777/2016 l'onere grava sul confitente con la conseguenza occcorre dimostrare non solo l'inesistenza del fatto confessato ma anche che, al momento della confessione, il confitente versava in errore. Ne consegue che costui è tenuto a provare le circostanze che lo avevano indotto a ritenere che il fatto confessato fosse vero. Secondo Cass. lav, n. 17713 /2016 nel caso, invece, della promessa di pagamento e ricognizione di debito grava sul creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988, che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotesi , una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato dal creditore (ovvero dallo stesso debitore, essendone il creditore esentato e non essendo la promessa titolata). Secondo Cass. II n. 26984/2013 la prova del potere di fatto sulla cosa destinata all'usucapione grava sul deducente il quale si giova della presunzione di possesso exart. 1141, primo comma con la conseguenza che chi lo contesta deve dimostrare la mera detenzione (Cass. lav, n. 17713/2016). Infatti, l'attore deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della vantata usucapione ossia del "corpus", ma anche dell'"animus"; il quale elemento può emergere in via presuntiva dal primo, sempreché vi sia stato esercizio di poteri dominicali sul bene. In questo modo il convenuto diventa onerato della dimostrazione del contrario per esempio cercando di provare che quei poteri derivano, in realtà da un contratto per esempio di comodato ( Cass. II, n. 22667 /2017). L'onere di allegare il negozio presupposto e di dimostrarne l'insussistenza, grava sul terzo proponente un'azione di simulazione assoluta dell'accordo sotteso all'emissione (o alla successiva circolazione) di un titolo cambiario considerato il carattere formale ed astratto dell'obbligazione cambiaria assistita da una presunzione di esistenza del rapporto sottostante perché diversamente rimarrebbe vanificato ove fosse il creditore cambiario nel caso di esperimento dell'azione di simulazione tenuto a palesare la natura giuridica del contratto sotteso al rilascio dei titoli. (Cass. III, n. 23502/2022). Le presunzioni legali in favore dell'erario derivanti dagli accertamenti bancari determinano in capo al contribuente un preciso ed analitico onere della prova contraria che non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, dal momento che queste ultime non costituiscono prove esclusive della provenienza del reddito accertato, o a fondare esse sole il convincimento del giudice (Cass. V, n. 22302/2022). Secondo Cass. L, n. 19163/2022 ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato il cd. aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto. Ne consegue che ove vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze ai fini della quantificazione del danno stesso. BibliografiaComoglio, Le prove civili, Torino, 2004; Patti, Le condizioni generali di contratto, Padova, 1996; Taruffo, Onere della prova, in Dig. Civ., XIII, Torino, 1996; Taruffo, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. Trim. dir. proc. civ. 1992; Tommaseo, Delle prove, in Comm. Cendon, VI, Torino, 1991. |