Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 10 - Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa 1 2 .

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa 1 2.

 

Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo.

In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma 3.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 9 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 21 luglio 2000, n. 319, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui non prevedeva che il termine di un anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.

Inquadramento

La cessazione dell'esercizio dell'impresa, dalla quale decorre il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento, va individuato, per le società, non nella cessazione dell'attività — rilevante nel diverso caso dell'imprenditore individuale — o nello scioglimento della società medesima, bensì nel compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione, ma con la liquidazione effettiva dei rapporti che fanno capo alla società (Cass. I, n. 73/1997).

Nel caso di trasformazione c.d. “regressiva” ex art. 2498 c.c., è applicabile all’ente originario il termine annuale di cui all’art. 10 l. fall., posto che a seguito della trasformazione muta, da un lato, radicalmente il regime della responsabilità patrimoniale del soggetto trasformato e, dall’altro, l’esercizio dell’attività d’impresa non è più attuale (Cass. I, n. 1519/2021, fattispecie di s.r.l. trasformata in associazione sportiva).

Il termine di decadenza per l'esercizio della iniziativa fallimentare

La legge fallimentare non prevede un termine di decadenza riferito al deposito del ricorso per la richiesta di fallimento. Tuttavia, va ricordato che, ai sensi dell'art. 10, comma primo, l.fall., «gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo». Peraltro, il secondo comma della norma in esame prevede che «in caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma». Ed infine, l'art. 11, comma primo, completa la previsione, aggiungendo che «l'imprenditore defunto può essere dichiarato fallito quando ricorrono le condizioni stabilite nell'articolo precedente».

Ebbene, deve ritenersi che le previsioni normative in commento stabiliscono un terminus post quem non, ma riferito non alla domanda ex art. 6 l.fall., bensì alla dichiarazione di fallimento, e ciò per non estendere all'infinito gli effetto di una attività di impresa non più attuale (Censoni, 2009, 39; così anche De Santis, 74).

Ciò significa, in buona sostanza, che è da considerarsi inammissibile la domanda di fallimento depositata quando il suddetto termine annuale è già scaduto.

Questione più complessa è quella di stabilire la soluzione se la domanda di fallimento è introdotta prima dello spirare dell'anno previsto dall'art. 10, ma, a tale data, l'istruttoria prefallimentare — ovvero (in caso di impugnazione del decreto di rigetto) il giudizio ex art. 22 l.fall. — non sono stati ancora definiti (De Santis, ibidem).

Deve ritenersi tuttavia, al riguardo, che il termine annuale si atteggi alla stregua di un termine di decadenza dall'iniziativa fallimentare, che può essere impedita soltanto dalla tempestiva pronunzia di fallimento, nel senso che l'avvio del procedimento non comporta alcun effetto interruttivo di detto termine (Fabiani, 150, il quale evidenzia che «a questo principio fa eccezione quanto stabilito dall'art. 22 l.fall., posto che se la corte d'appello accoglie il reclamo avverso il decreto di rigetto del ricorso per fallimento e trasmette gli atti al tribunale, il periodo successivo al provvedimento della corte viene neutralizzato e l'anno si computa a ritroso proprio da tale decreto e non dalla successiva dichiarazione di fallimento; tale deroga si spiega per il fatto che la corte d'appello non può direttamente pronunciare il fallimento pur quando riscontri la sussistenza di tutti i presupposti e l'assenza di fatti impeditivi»).

Sul punto, occorre precisare la tesi da ultimo anche qui accolta — ancorché debba essere considerata maggioritaria in dottrina (si ricordi, fra tutti, Andrioli, voce Fallimento, cit., 311; e Provinciali, 411) e, nella sostanza, avallata anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 8099/2000, secondo cui «la previsione di un termine annuale rappresenta il punto di mediazione nella tutela di interessi contrapposti quali quelli dei creditori da un lato e quello generale, e non del solo cessato imprenditore, alla certezza dei rapporti giuridici (che sarebbe sacrificata ove entro l'anno fosse sufficiente non la dichiarazione di fallimento, ma la semplice presentazione dell'istanza, come tale non conoscibile dai terzi»), — non è, tuttavia, pacifica ed incontrastata, atteso che si è anche osservato (De Crescenzio, 17 ss.) che la domanda di fallimento, in specie se proposta dai creditori, dovrebbe avere, conformemente ai principi generali, connaturati effetti conservativi, secondo il noto postulato chiovendiano, principi a tenore dei quali la durata del processo non dovrebbe mai ridondare in danno della parte che ha ragione.

Pertanto, è stato autorevolmente affermato (Lamanna, 263 s.) che la norma, come interpretata dai più, non andrebbe esente da dubbi «per l'evidente iper-garantismo a senso unico che la ispira, privilegiando essa solo le ragioni del debitore in danno di quelle dei creditori, anche di quelli più diligenti, che, pur quando coltivino le proprie istanze di fallimento entro il termine annuale, magari con congruo anticipo rispetto alla sua scadenza, possono vedersele rigettare dal tribunale a causa dei tempi tecnici necessari allo svolgersi della fase istruttoria prefallimentare, così traslandosi in capo ad essi rischi e disfunzioni processuali imputabili ad organi pubblici».

Tuttavia, non può certo dimenticarsi che gli effetti costitutivi della sentenza dichiarativa di fallimento consentono di affermare un'efficacia ex nunc della relativa pronuncia, non retrodatata al momento della proposizione della domanda giudiziale, efficacia corroborata, peraltro, proprio dalla previsione derogatoria di cui all'ultimo comma dell'art. 22 l.fall. (De Santis, 75; v. anche Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2010, 197).

Deve pertanto concludersi, conformemente ad autorevole dottrina processualcivilistica (De Santis, ibidem, il quale evidenzia altresì che, al fondo, la tesi maggioritaria rischia di esporre la norma al dubbio di incostituzionalità, sia per violazione del diritto di azione protetto dall'art. 24 Cost., sia per violazione del principio di ragionevolezza sotteso all'art. 3 Cost., nel senso che non si capirebbe la ragione per la quale, se la domanda di fallimento, tempestivamente proposta dentro a termine annuale, è rigettata dal tribunale, essa può successivamente essere accolta, anche oltre l'anno, a seguito del reclamo ex art. 22 l.fall., nel mentre non può essere puramente e semplicemente accolta dal tribunale in primo grado, se la sentenza interviene oltre l'anno), nel senso che il termine di cui al 1 comma dell'art. 10 l.fall. si atteggia in realtà alla stregua di un termine decadenziale per l'esercizio dell'azione di fallimento. Invero, va osservato che, al pari delle azioni costitutive cd. «necessarie» i cui effetti non possono essere conseguiti, se non attraverso una pronunzia del giudice, anche la proposizione della domanda di fallimento vale ad impedire il decorso del detto termine, nella misura in cui essa sia accolta ed il fallimento dichiarato.

Peraltro, va aggiunto che il ricondurre il termine di cui agli artt. 10 e 11 l.fall. nell'alveo dei termini decadenziali per l'esercizio dell'azione consente altresì di meglio collocare, dal punto di vista sistematico, la diffusa opinione secondo la quale il tribunale possa rilevare d'ufficio l'intervenuta decadenza, anche a prescindere dall'eccezione di parte che dovrebbe proporre il debitore convenuto nel giudizio ex art. 15 1. fall., atteso che il rilievo officioso della decadenza dall'azione per decorso del termine e la conseguente pronunzia di improponibilità (rectius, inammissibilità) della domanda di fallimento rientra nel novero dei poteri-doveri del giudice nel processo civile, senza che sia necessario, al fine di giustificare il predetto rilievo d'ufficio, ricondurre il rispetto del termine decadenziale nel novero delle condizioni oggettive di fallibilità (Cavalli, I presupposti di fallibilità, in Ambrosini-Cavalli-Jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto Cottino, XI, 2, Padova, 2009, 69).

Fallimento di società estinta e legittimazione processuale

È d'obbligo affrontare, ora, la questione squisitamente processuale della legittimità al contraddittorio della società estinta, e ciò anche in ragione di un recente ed interessante pronunciamento giurisprudenziale della Suprema Corte.

In realtà, ha affermato la Corte di legittimità, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese, la legittimazione al contraddittorio spetta al liquidatore, poiché, pure implicando la cancellazione la estinzione della società ai sensi dell'art. 2495 c.c., nondimeno entro il termine di un anno da tale evento è ancora possibile, ai sensi dell'art. 10 l.fall., che la società venga dichiarata fallita per insolvenza manifestatasi anteriormente alla data di cancellazione o comunque nell'anno successivo. Peraltro — afferma la Cassazione — l'art. 10 l. fall. contempla eccezionalmente la sopravvivenza della società estinta, al punto che tanto il procedimento per la dichiarazione quanto le eventuali fasi impugnatorie devono svolgersi nei suoi confronti e, per essa, del suo legale rappresentante, quale il liquidatore. Non ricorre, pertanto, ai soli fini della procedura concorsuale, il fenomeno successorio di cui agli art. 2495 c.c. e 328, comma secondo, c.p.c., ma si configura una fictioiuris, che esclude la estinzione e, dunque, la successione processuale di cui all'art. 110 c.p.c. (Cass. I, n. 1365/2013).

Pertanto, il procedimento deve svolgersi in contraddittorio con il liquidatore, il quale, anche dopo la cancellazione, è altresì legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa.

Ebbene, la quaestio iuris affrontata dalla sentenza in esame si incentra sulla domanda relativa al se e in quali limiti l'art. 10 l.fall. possa autorizzare l'interprete a ritenere ancora esistente una società già estinta per intercorsa cancellazione dal registro delle imprese e ad escludere, di conseguenza, l'applicabilità dell'art. 110 c.p.c. e se si possa predicare la legittimazione processuale del liquidatore (Cordopatri).

In realtà, si tratta di appurare in quali termini il sistema prefigurato dall'art. 10 l.fall. si connetta e si coordini con quello voluto dall'art. 2495 c.c., per il quale l'estinzione della società conseguente alla sua cancellazione dal Registro delle imprese potrebbe comportare un particolare fenomeno successorio quanto alle situazioni giuridiche soggettive di diritto sostanziale e ne determinerebbe il suo «venir meno» sul piano processuale, al punto che nessuna azione potrebbe essere esperita o resistita dalla società estinta e le vicende verificatesi lite pendente si risolverebbero nella successione processuale dei soci, con conseguente ripudio della legittimazione processuale del suo organo rappresentativo, quale, appunto, il liquidatore: sul punto vedi anche Longo, 2013, 912 ss. Come autorevolmente sostenuto in dottrina (cfr. sempre Codopatri, cit.), la sentenza de qua non ripropone espressamente l'annoso problema della determinazione dell'effettivo significato e dell'effettiva implicazione da attribuire alla estinzione conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese. Meno che mai essa intende rinverdire la questione della distinzione fra le conseguenze ricollegabili alla morte della persona fisica e quelle proprie dell'estinzione della persona giuridica nel senso che la morte della persona fisica non inciderebbe sulla permanenza in vita dell'attivo e del passivo del defunto mentre la estinzione della società non determinerebbe mai la successione (se non forse nelle ipotesi di fusione o scissione) e presupporrebbe l'eliminazione definitiva del suo attivo, se non anche del suo passivo. Ma non consente neppure di ripercorrere le tappe della polemica circa la perfetta sovrapponibilità (Ferri, 350), o meno (Bussoletti, 463; Bussoletti-Fazzuti, 306-307), fra morte della persona fisica e cancellazione della società dal registro delle imprese e circa la ammissibilità della distinzione fra organizzazione dell'impresa e organizzazione della società. Semmai consiglierebbe un accenno al rilievo secondo cui la cancellazione porterebbe alla estinzione immediata della società quanto alla sua organizzazione sociale, giacché la legale rappresentanza si estingue con la cancellazione dal registro e pertanto non esisterebbero più titolari di cariche e non si ipotizzerebbe così un'inverosimile prorogatio di amministratori e/o liquidatori, ma non all'estinzione immediata della società quanto alla organizzazione dell'impresa, giacché i creditori conservano le azioni, possono chiedere la dichiarazione di fallimento della società, agire in revocatoria ed esperire le azioni di responsabilità nei confronti di soci, amministratori o liquidatori, o addirittura fare riaprire il fallimento ex art. 121 l.fall. Tant'è che la possibilità di riaprire, nel concorso, il fallimento non impedisce che il creditore possa ottenere, fuori del concorso, la cancellazione della cancellazione (spunti in tal senso, e nella scia di Bussoletti, loc cit., in Tedoldi, Cancellazione di società dal registro delle imprese e impugnazioni civili: la parola alle sezioni unite e alla Consulta (con una proposta di ‘immortalità relativa' ad effetti meramente processuali), in Corr. giur. 2012, 1202 e 1206, che invoca addirittura l'applicazione degli art. 4 e 51 della l. 2248, all. E, del 1865). La decisione sotto analisi non pone neppure la questione se l'art. 2495, comma secondo, c.c. configuri un'ipotesi di successione processuale (ex art. 110 c.p.c. o ex art. 111 c.p.c.: v., però,Vaira, 2004, III; e Parrella, 2003, II), o meno (per Minervini, 1036 ss., era da escludersi la perpetuatio legittimationis dell'ente societario estinto ed era invece da invocarsi la cessazione del processo; sul punto, anche Longo, 2013, 930; e Santagada, 593, nonché, ancora, Longo, 2012, I, c. 3088).

In sintesi, si pone la questione, prefigurata dall'obiter dictum di altro importante pronunciamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 6070/2013, ora ripreso da Cass. n. 21026/2013, sul quale, v. le pertinenti osservazioni di La Malfa, Alcune problematiche in tema di art. 10 legge fallimentare derivanti dall'applicazione della sentenza della Corte Costituzionale del 21 luglio 2000, n. 319, in Dir. fall. 2005, I, 645 ss.; e Finardi, 831 ss.), se all'interno dell'art. 10 l.fall. sia dato rinvenire la fictio iuris per la quale la cancellazione dal registro delle imprese non porterebbe la estinzione della società e dunque non darebbe luogo ad alcuna ipotesi successoria, ma postulerebbe «come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un soggetto ormai estinto (come del resto accade anche per l'imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l'anno dalla morte)» e di conseguenza conserverebbe la legittimazione processuale in capo al liquidatore. Cass. I, ord. n. 6324/2023 ha però affermato che la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, sicché è giuridicamente inesistente la sentenza che dichiari il fallimento di quest'ultima oltre l'anno previsto dall'art. 10 l.fall. e tale vizio radicale, impedendo il passaggio in giudicato del provvedimento, può essere fatto valere, oltre che con l'impugnazione ordinaria, con un'autonoma "actio nullitatis".

Detto altrimenti, l'interprete è sollecitato hic et nunc ad accertare se l'art. 10 l.fall. contenga, in buona sostanza, una fictio iuris che autorizzi a ritenere che la società estinta a seguito di cancellazione dal registro delle imprese mantiene la capacità di stare in giudizio tanto nel processo per la dichiarazione di fallimento e nelle successive fasi impugnatorie, quanto nella eventuale conseguente procedura concorsuale (Cordopatri , cit.).

La rilevata questione, così come posta dalla  sentenza di Cass. n. 13659/2013, cit. si svolge e può essere colta sulla linea che congiunge il portato della sua massima ufficiale con l'obiter dictum pronunciato dalla Cass.S.U., n. 6070/2013, così come ripreso da ultimo dalla sentenza della Cass. n. 21026/2013 (Cass. S.U., n. 6072/2013, in Foro it. 2013, I, c. 2189, con note di Nigro, Cancellazione ed estinzione delle società:una parola definitiva dalle Sezioni Unite; e di D. Longo, Ancora sugli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese: chiarimenti o nuove incertezze?, in Corr. giur., 2013, 691, con nota di Consolo-Godio, Le Sezioni Unite sull'estinzione di società: la tutela creditoria ”ritrovata” (o quasi), nonché in Soc., 2013, 536, con nota di Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il ‘problema' del soggetto: qualche considerazione critica; v. anche Cass. S.U., n. 6071/2013, in Giur. it., 2013, c. 858, con nota di G. Cottino, La difficile estinzione della società: ancora un intervento (chiarificatore?) delle Sezioni unite, in Fall. 2013, 831, con nota di La Croce, La Cassazione mette la parola fine alla querelle sugli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese, e in Corr. trib. 2013, 1531, con nota di Iorio-Ambrosi, Estinzione della società e obblighi patrimoniali).

Secondo il predetto obiter dictum, la società estintasi per intercorsa cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell'art. 2495 c.c., può essere dichiarata fallita entro il termine di un anno dall'evento estintivo, ex art. 10 l.fall., e il liquidatore della medesima società conserva eccezionalmente la legittimazione al contraddittorio, al punto che anche successivamente alla cancellazione egli è legittimato a proporre il reclamo di cui all'art. 18 l.fall. tanto il processo per la dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi impugnatorie continuano a svolgersi nei confronti della società e, per essa, nei confronti del suo legale rappresentante: qui, per l'appunto, il liquidatore. Dunque, la figura di fallito è sempre impersonata, per l'art. 10 l.fall., dalla società o da chi legalmente la rappresenta. Più in particolare, l'arret sotto analisi, nella parte in cui riprende il richiamato obiter, nega che si tratti di successione dei soci alla società, come potrebbe lasciare intendere una inappropriata lettura degli art. 2495 c.c. e 328, comma secondo, c.p.c., e che il contraddittorio vada instaurato con i soci nel quadro di un fenomeno successorio. Esso ritiene, invece, che la fictio iuris voluta dall'art. 10 l.fall., esclude la estinzione della società e l'emersione di qualsivoglia ipotesi successoria e comporta, di conseguenza, l'instaurazione del contraddittorio con la società, recte, con il suo organo rappresentativo, i.e., il liquidatore: così, Cordopatri , cit.

A dire il vero, la citata Cass. S.U., n. 6070/2013, contenente quell'obiter, era stata chiamata a svolgere un discorso diverso e più ampio. Essa ha, infatti, ritenuto che la estinzione della società per cancellazione dal registro delle imprese, quanto alle situazioni passive, comporta il passaggio dei debiti insoddisfatti in capo ai successori dell'ente, in una sorta di successione inter vivos: is oci rispondono del medesimo rapporto già in capo all'ente estinto e non anche di rapporti sorti ex novo o ad essi imputabili ab origine, poco o nulla valendo il rilievo che essi, nelle società di capitali, sono obbligati intra vires (in generale, Andrioli, passim; adde: Dalfino, La successione tra enti nel processo, 2012, spec. 78 ss.). Quanto alle situazione attive (attivi non liquidati e/o sopravvenienze attive) tuttora in essere al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, queste tornano ad essere direttamente imputabili a coloro che della società costituiscono il sostrato personale: «il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta che, sparita la società, s'instauri tra i soci medesimi, (...) un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione». In altre parole, «le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi, la inclusione dei quali in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato» (peraltro, in questo senso si era già espressa la tradizione: Oppo, 163 ss.; Minervini, 1040 ss.; e Racugno, 722 ss.).

La rilevata insorgenza del fenomeno successorio sul piano del diritto sostanziale induce il Supremo Collegio (Cass. S.U., n. 6070/2013, cit.) a ritenere sic et simpliciter l'inesistenza sul piano processuale dell'ente-società (Glendi, 515; Dalfino, 2013, § 6; e già Dalfino, 2010, 1012 s.).

La società non potrà essere parte processuale, e, dunque, non potrà instaurare un nuovo procedimento o essere chiamata quale parte convenuta, ovvero, impugnare provvedimenti giudiziari (Tedoldi, Cancellazione di società dal registro delle imprese e impugnazioni civili: la parola alle sezioni unite e alla Consulta (con una proposta di “immortalità relativa” ad effetti meramente processuali), cit., 1203; e Glendi, L'estinzione postliquidativa delle società cancellate dal registro delle imprese. Un problema senza fine?, in Corr. giur., 2013, 10 ss.). Invero, la cancellazione dal registro delle imprese sopraggiunta in pendenza di un giudizio del quale era parte comporta che la società vada incontro ad un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 110 e 299 c.p.c., con facoltà di proseguire o riassumere il procedimento nei confronti o da parte dei soci, divenuti ormai “giusta parte” (Cordopatri, cit. Su questi problemi, autorevolmente, già Punzi, 285 ss.).

Per completezza di indagine, occorre ricordare che un importante corollario delle considerazioni svolte dalle Sezioni Unite più volte qui richiamate è costituito dal rilievo che i soci, come noto, succedono nei debiti della società estinta fino alla concorrenza delle somme distribuite in base al bilancio finale e il curatore della società estinta e dichiarata fallita può esperire nei loro confronti l'azione ex art. 2495 c.c. solo una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento della società: l'azione si aggiunge alla procedura concorsuale ma non la sostituisce. In tal caso, l'art. 10 l.fall. si limita ad individuare la legittimazione passiva della società alla procedura di fallimento (Cordopatri, cit.).

Secondo il richiamato obiter dictum delle Sezioni Unite (che riprende peraltro il pronunciamento della sentenza della Cass. n. 22547/2010), pur se applicabili al sistema disegnato dall'art. 2495 c.c., le conclusioni di cui sopra non sarebbero però predicabili per il sistema prefigurato dall'art. 10 l.fall., il quale postula, invece, come esistente ai soli fini del processo concorsuale un soggetto ormai estinto, cioè la società cancellata dal registro delle imprese, come accade, d'altronde, per l'imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l'anno dalla sua morte (Bussoletti, cit., 456 ss). Si legga sulle questioni qui dibattute il pregevole intervento di Cordopatri, il quale acutamente evidenzia che dalla cennata fictio iuris «non si saprebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti processuali diversi». Come dire che –in questi termini, il detto obiter dictum acquistato rango di vera e propria massima ufficiale in Cass. n. 21026/2013- «la società estinta a seguito di cancellazione dal registro delle imprese mantiene, in virtù della fictio iuris postulata dall'art. 10 l.fall., la capacità di stare in giudizio tanto nel processo per la dichiarazione di fallimento e nelle eventuali successive fasi impugnatorie, quanto nella eventuale conseguente procedura concorsuale» (Cordopatri F., cit.). Si dovrebbe inferire dall'art. 10 l.fall. che la società estinta per cancellazione cessa di essere ipso iure centro di imputazione di nuova attività sociale, ma non scompare del tutto, in quanto può essere ancora, per l'appunto in forza della norma richiamata, dichiarata fallita (Alleca, Le Sezioni Unite e l'estinzione delle società a seguito della cancellazione, in Riv. dir. civ., 2010, II, 648 ss.). Parrebbe che si tenda, così, a proclamare e a difendere la peculiarità e la diversità del sistema concorsuale, laddove si assume che la società non scompare del tutto ma solo limitatamente alla possibilità, normativamente prevista, di essere ancora dichiarata fallita (Cordopatri F., cit. L'Autore evidenzia altresì che occorrerebbe trarre le mosse, al fine di tentare di giungere a una ragionevole soluzione della quaestio, da una constatazione tanto palmare quanto addirittura ovvia. E cioè, è ben vero che una cosa è la morte della persona fisica e altra cosa è la estinzione per cancellazione della società dal registro delle imprese: quest'ultima non ricollega, all'evidenza, l'inesistenza meramente giuridica a un fatto naturale o involontario. Ma è altrettanto vero e incontrovertibile che, pure a fronte della opzione teorica secondo cui la cancellazione non sarebbe affatto idonea a produrre effetti processuali interruttivi e successori ma farebbe venire meno de futuro la legittimazione processuale, la topografia degli art. 10 e 11 l.fall. profila, all'interno del sistema del diritto concorsuale, una sorta di sinonimia esegetica fra la norma che disciplina la ipotesi di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore-persona fisica defunto e la norma che disciplina la ipotesi di dichiarazione di fallimento della società estinta per cancellazione dal registro delle imprese, come ritenuto peraltro da Cass. n. 21026/2013, secondo cui l'art. 10 l.fall. suppone esistente, seppure ai soli fini del processo concorsuale, l'ente societario estinto, ad instar dell'art. 11 l.fall., che suppone esistente, ancora e sempre ai soli fini del processo concorsuale, una persona fisica defunta. È a questo punto evidente, secondo l'autorevole dottrina qui richiamata, che lo snodo della soluzione passa (può passare) per la previa determinazione del rapporto in cui si pongono fra loro, da un lato, il sistema per dir così monadico del diritto concorsuale concretato dall'art. 10 l.fall. e, dall'altro lato, il sistema disegnato in thesi generale dallo (e incentrato nello) art. 2495 c.c. Detto altrimenti, è d'uopo chiedersi, hic et nunc, se l'art. 10 l.fall. costituisca ed esaurisca un sistema a sé, dunque, eccezionale e di tipo derogatorio, oppure rappresenti uno sviluppo del tutto coerente e compatibile di fondate e ragionevoli opzioni ermeneutiche dell'art. 2495 c.c.).

Di contro, per quanto concerne il disposto dettato dall'art. 2495 c.c., si tenta di inferire dalla constatazione che la connotazione di tipo costitutivo così della cancellazione come della iscrizione, per lo meno nelle società di capitali, comporta, a fare data per l'appunto dall'annotazione della cancellazione, la perdita della personalità giuridica e, dunque, della capacità di essere titolare di nuovi rapporti giuridici, ma non comporta certamente la scomparsa della responsabilità per le obbligazioni contratte fino a tale data e consente così che la società, ancorché estinta, prosegua seppure in parte qua la sua esistenza sul piano giuridico.

La valenza giuridica della società cancellata può cioè essere ben affermata per un ulteriore periodo di un anno o, in caso di riapertura della procedura concorsuale, per ulteriori cinque anni dalla chiusura.

Si vuol dire che, in questo lasso di tempo, la società, ancorché estinta, conserva la capacità necessaria, sul piano del diritto sostanziale e su quello processuale, alla cura dei rapporti ancora pendenti.

Più specificatamente, si potrebbe assumere, sotto un profilo più schiettamente dommatico (Bussoletti, cit., l c.), che alla cancellazione dal registro delle imprese conseguirebbe la estinzione della sola organizzazione sociale, i.e., della legale rappresentanza della società (così, ad esempio, la cessazione della operatività della titolarità delle cariche sociali), ma di certo non conseguirebbe –né potrebbe conseguire- la estinzione della organizzazione dell'impresa, tant'è che i creditori conservano le azioni, possono chiedere la dichiarazione di fallimento della società, agire in revocatoria ed esperire le azioni di responsabilità nei confronti di soci, amministratori o liquidatori, o, addirittura, fare riaprire il fallimento ex art. 121 l.fall. (Bussoletti, cit., l c.).

In realtà, alla postulazione della sopravvivenza della società estinta, seppure in limiti e termini determinati e circoscritti, si potrebbe giungere così anche per altra via, e cioè non più dall'art. 10 l.fall., ma da una lettura sistematicamente corretta dell'art. 2495 c.c.

Comunque, deve concludersi, quale che sia la opzione teorica da seguire, nel senso che, come la società continua ad esistere rispetto al soggetto che non ha dato causa all'evento estintivo e può quindi proseguire la propria azione nei suoi confronti, recte, del suo liquidatore, così essa continua ad esistere nei confronti dei creditori insoddisfatti che ne potranno chiedere, nei limiti di tempo suddetti, addirittura la dichiarazione o la riapertura di fallimento (deve ritenersi che nel contesto di Cass. S.U., n. 6070/2013, le considerazioni di ordine generale si collegano coerentemente con quelle contenute nell'obiter dictum: le argomentazioni in punto di lettura dell'art. 2495 c.c. si pongono in correlazione con quelle in punto di lettura dell'art. 10 l.fall.).

Sul punto, non può non rilevarsi come la pretesa di contrapporre il fenomeno estintivo e, dunque, di tipo successorio — proprio dell'art. 2495 c.c.- alla fattispecie di cui all'art. 10 l.fall., in cui non emergerebbe alcun fenomeno assimilabile a quello di cui all'art. 110 c.p.c., si risolverebbe in una operazione ermeneutica di difficoltosa omologazione.

Invero, il ritenuto sdoppiamento, sul piano schiettamente giuridico, della datazione della efficacia del momento estintivo consente che la società, per la parte in cui essa sopravvive alla estinzione, può essere dichiarata fallita, a mezzo del proprio rappresentante, i.e. il liquidatore, al di là e a prescindere, e dunque senza ricorrere all'ausilio della postulazione di qualsivoglia fictio iuris nell'art. 10 l.fall.: in questi termini si esprime in modo convincente e condivisibile Cordopatri, cit.

Queste conclusioni potrebbero trovare ulteriore conforto, ove se ne avvertisse il bisogno, nelle considerazioni svolte dalla ordinanza di rimessione di App. Milano 18 aprile 2012, che lamentava l'illegittimità degli art. 2495 c.c. e 328 c.p.c., con riferimento agli artt. 3,24, e 111 Cost., nella parte in cui essi non avrebbero espressamente prefigurato delle ipotesi successorie. E, soprattutto, nella motivazione dell'ordinanza di Corte cost. n. 198/2013 (in Foro it., 2013, I, c. 2341), per la quale la manifesta inammissibilità della proposta quaestio legitimitatis riposa su ciò, che il giudice remittente non aveva esaustivamente vagliato tutte le possibili interpretazioni costituzionalmente orientate (o secundum constitutionem), così quella poi fatta propria da Cass. S.U., n. 6070/2013, per la quale, appunto, un'ipotesi successoria sussiste. La verità è che il Giudice delle leggi ha sì lasciato intendere, a quel che sembra, che l'art. 2495 c.c. prefigurerebbe quanto meno una ipotesi estintiva e dunque successoria ma di certo non ha escluso una lectura dell'art. 2495 c.c. che riservasse alla società un margine (seppur cronologicamente limitato) di sopravvivenza, che per definizione esclude, seppure in parte qua, la estinzione e la successione. Come confermerebbero anche le riflessioni della recente Cass. n. 28187/2013, secondo le quali è ben vero che la cancellazione della società ha un'efficacia sostanziale in quanto determina l'estinzione dell'ente e, di conseguenza, quest'ultimo — non più esistente e dunque ormai carente della capacità di stare in giudizio — non potrebbe, secondo l'insegnamento di Cass. n. 6070/2013, né validamente intraprendere un processo né esservi convenuto, ma è altrettanto innegabile che all'ente estinto, cui sia stata notificata una cartella di pagamento nulla perché diretta a soggetto inesistente e che potrebbe soffrire pregiudizio, sia da consentire di proporre ricorso, da ritenere ammissibile solo ed esclusivamente per la dichiarazione di nullità. In una, il liquidatore della società estinta conserva comunque la legittimazione a proporre il ricorso onde far dichiarare la nullità, peraltro rilevabile dal giudice ex officio, di un atto e/o provvedimento che potrebbe essere di pregiudizio all'ente estinto. Il quale — nonostante la estinzione- sul piano sostanziale può soffrire vulnus e sul piano processuale può conservare, per il medio del liquidatore, la legittimazione. Altrimenti, sarebbe inevitabile la discrasia — a volere rinverdire lo schema superato del rapporto processuale — fra la legitimatio ad causam e la legitimatio ad processum.

Si potrebbe, pertanto, concludere nel senso di assumere comunque la coesistenza fra un'ipotesi successoria, per la parte in cui la cancellazione abbia determinato il «venir meno» della società ai sensi dell'art. 110 c.p.c., e una ipotesi di legitimatio propria, per il medio della rappresentanza del liquidatore, per la parte in cui la cancellazione abbia consentito e consenta la sopravvivenza della società quanto all'organizzazione dell'impresa.

Per quanto concerne la ulteriore quaestio della individuazione del fondamento della legittimazione processuale del liquidatore, è da dirsi che la sopravvivenza della società quanto all'organizzazione di impresa riguarda, e non può non riguardare, i rapporti pregressi ma la cui operatività e la cui definizione, sub specie iuris, sono senz'altro procrastinate.

Ne discende che la cura di questi rapporti pregressi ma ancora in essere non può essere confidata ad alcuno (ovvero alla pluralità) dei soci ad essi per definizione estraneo.

Non si tratta, tuttavia, di ipotizzare e riproporre quella che pure è stata definita un'inverosimile prorogatio di amministratori o liquidatori (Bussoletti, cit., l c.).

Qui si intende piuttosto limitare e ricostruire il rapporto fra la società estinta e l'amministratore o liquidatore.

Non vi è dubbio che il rapporto di rappresentanza, in ordine alla società e quanto all'organizzazione di impresa, che riguarda come si è visto i rapporti pregressi ma la cui operatività e la cui definizione sub specie iuris sono senz'altro procrastinate, continua ad astringere, in questi termini, la società e il liquidatore.

Si vuol dire che ove si assuma che la società quanto all'organizzazione di impresa sopravviva all'estinzione, si deve concludere coerentemente che essa tenga in vita e conservi anche il rapporto che la lega al liquidatore in quanto organo. Come la società continua ad essere centro di imputazione, quanto meno rispetto all'organizzazione di impresa e ai rapporti a quest'ultima inerenti de praeterito, così rispetto a questi sopravvive il rapporto di rappresentanza e dunque la legittimazione del liquidatore (Cordopatri , cit.).

E il detto rapporto permane, altresì, in ordine alla dichiarazione di fallimento di cui all'art. 10 l.fall.

Sul punto, va precisato che se è vero, per un verso, che la procedura concorsuale conseguente, ove si postuli l'estinzione totale della società e dunque l'insorgenza di un fenomeno successorio, potrebbe virtualmente coinvolgere tutti i soci in quanto aventi causa della società estinta e dichiarata fallita (App. Napoli 8 febbraio 2012, in Fall., 2012, 1242, con nota di Speranzin, Società estinta e procedimento per la dichiarazione di fallimento), per altro verso, è altrettanto vero che, all'opposto, l'assunto secondo cui la estinzione ha lasciato sopravvivere i rapporti — quanto all'organizzazione di impresa e, per questa, quelli ad essa relativi — consente di ritenere soggetto fallibile la società ancorché cancellata dal registro dell'imprese e di predicare la legittimazione dei propri organi, così quella del liquidatore. Ed invero, quest'ultimo come sarà legittimato a resistere all'azione del socio, così sarà altrettanto legittimato a dire e a contraddire nella procedura concorsuale incoanda e incoata (in questo senso, già Cass. n. 22547/2010). Detto altrimenti, si postula, in capo al liquidatore, la legittimazione o la capacità di stare in giudizio tanto nel processo per la dichiarazione di fallimento e nelle eventuali successive fasi impugnatorie, quanto nella eventuale conseguente procedura concorsuale (così, anche Cass. n. 18138/2013). Cass. V, n. 1689/2022 ha poi affermato che il sopravvenuto fallimento della società estinta (una s.r.l.) entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese non comporta il venir meno della soggettività passiva del socio di detta società e, quindi, della sua legittimazione processuale, considerato che egli è la “giusta parte” del processo instaurato avverso l'avviso di accertamento allo stesso socio correttamente notificato quale successore e che la previsione dell'art. 10 l. fall. non comporta una reviviscenza della società.

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