Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 6 - Iniziativa per la dichiarazione di fallimento 1 .Iniziativa per la dichiarazione di fallimento 1.
Il fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero. Nel ricorso di cui al primo comma l'istante può indicare il recapito telefax o l'indirizzo di posta elettronica presso cui dichiara di voler ricevere le comunicazioni e gli avvisi previsti dalla presente legge. [1] Articolo sostituito dall'articolo 4 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoLa dichiarazione di fallimento muove su domanda di parte. La legittimazione ad introdurre la domanda tesa alla detta dichiarazione appartiene, infatti, ai sensi dell'art. 6, ai creditori, al pubblico ministero ed allo stesso debitore. Sul punto, va precisato che l'iniziativa del pubblico ministero è circoscritta dall'art. 7 l.fall. ai casi in cui l'insolvenza risulti, da un lato, nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall'irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore e, dall'altro, dalla segnalazione provenente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. GeneralitàIn realtà, si tratta di una legittimazione plurale che tiene conto dei diversi interessi sottesi al procedimento prefallimentare. Si tratta, innanzitutto, di interessi in quanto derivanti dall'impossibilità per il ceto creditorio di ottenere soddisfazione delle proprie pretese in maniera diversa e meno invasiva dell'esecuzione concorsuale, nonché dall'esigenza del debitore di affidare agli organi concorsuali la «ragionata» soluzione di quelle pretese (De Santis, 2012, 28). Ma convergono anche interessi pubblici soprattutto se connessi alla repressione di reati, affidati alla cura ed alla gestione della Procura della Repubblica (cfr. Satta, 53, ove si evidenzia «la molteplicità dei legittimati è un altro segno dell'incomunicabilità, salvo che nel fine ultimo, la soddisfazione dei creditori, tra l'esecuzione individuale e il procedimento concorsuale», poiché «l'insolvenza dell'impresa, si può dire sinteticamente, è un fatto che interessa tutti. Interessa l'ordinamento, perché l'impresa fa parte dell'organizzazione economica generale, e quindi il suo dissesto incide su questa organizzazione, portando alla necessaria eliminazione dell'impresa. Di qui l'iniziativa del p.m. o la dichiarazione ex officio. Interessa i creditori, che nell'insolvenza possono veder pregiudicate le loro ragioni, sia per la disintegrazione del patrimonio del debitore, che costituisce la loro garanzia, sia per la violazione della par condicio. Interessa il debitore stesso, che non vuole aggravare la sua situazione, né veder disperdere i propri beni attraverso disordinate azioni singolari». In arg. si v. anche Bonsignori, 25, che precisa come nelle procedure concorsuali, analogamente a quanto avviene per la tutela dei minori, si appalesa una pluralità di interessi non soggettivata, che si riferiscono «insieme e inscindibilmente a soggetti e a istituzioni non soggettive o personificate», con la emersione di forme di legittimazione ulteriori rispetto a quella del creditore istante, ossia, in primo luogo, quella del pubblico ministero; cfr. anche Tiscini, 2011, 333, secondo la quale, pur dopo le riforme della normativa concorsuale, rimane innegabile la persistenza di un profilo pubblicistico nella sede concorsuale). Ebbene, va detto che, ora, come si conviene ad ogni processo di cognizione piena, la legittimazione alla domanda di fallimento coincide con una legittimazione esclusivamente «di parte», privata o pubblica che essa sia (Ferro, 39). Sul punto, deve essere ricordato come se vi è un tratto caratterizzante, e giustamente apprezzato, tra le numerose innovazioni processuali introdotte nella legge fallimentare dalle riforme del 2006-2007, quello è sicuramente rintracciabile nella soppressione dell'iniziativa fallimentare officiosa (cfr. sempre così De Santis, 2012, 29; cfr. anche Stanghellini, 162). Nel dibattito dottrinario, va abbracciata quella tesi secondo cui la soppressione dell'iniziativa d'ufficio non deve essere considerata come il portato necessario del fenomeno di una c.d. «privatizzazione del fallimento», ove il ruolo preponderante dell'autorità giudiziaria ceda di fronte alla necessità di perseguire modelli di efficienza economica e di conservazione delle risorse e dei valori d'impresa (così De Santis, 2012, ibidem). Piuttosto, deve ritenersi che la visione privatistica della gestione dell'insolvenza importa che lo stesso procedimento propedeutico alla dichiarazione di fallimento debba essere organizzato secondo modelli quanto più possibile prossimi alle regole del diritto comune e dunque ai processi del codice di rito. Ed invero, è proprio sul terreno processuale che va rintracciata la ratio profonda della soppressione, ad opera della riforma, di ogni iniziativa officiosa ed, al contempo, la permanenza dell'iniziativa del pubblico ministero (De Santis, 2010, ibidem). Detto altrimenti, l'istruttoria prefallimentare è oggi incardinata in un processo di parti a cognizione quasi piena — sebbene, ancora, ancorato a profili di sommarietà — che è regolato tuttavia indiscutibilmente dal contraddittorio, dal diritto alla prova e dalla paritaria difesa. Ne discende che essa, al pari di tutti i processi governati dall'impulso di parte, mal tollera l'iniziativa officiosa in ordine alla proposizione della domanda, soprattutto quando a giudicare è il medesimo giudice che ha esercitato l'iniziativa (Ferrara-Borgioli, 241. Confronta sul tema l'attualità delle parole del Bonelli, in Del fallimento, I, Milano, 1923, 224) che aveva già evidenziato la singolarità della disposizione contenuta nell'art. 688 del codice di commercio sull'iniziativa officiosa, «in quanto ammette il tribunale non solo a provvedere senza domanda di parte, ma anche senza aver provocato dal naturale e normale organo tutelare del diritto sociale offeso, che è il Ministero Pubblico», sicché «la dichiarazione di fallimento diviene veramente una funzione sociale, un atto d'impero più che di giurisdizione»). La richiesta di «auto fallimento»Nonostante l'imprenditore sia di norma ritroso a provocare sua ipsius manu lo spossessamento della propria impresa tramite il fallimento della stessa, tuttavia l'interesse ad agire del debitore può nondimeno derivare da ciò, che egli non intende aggravare lo stato di dissesto, né vedere disperdere disordinatamente i propri beni a seguito delle azioni esecutive individuali [così, De Matteis, 2011, 83, il quale evidenzia che, sotto l'ègida della precedente disciplina, vi erano diverse teorie volte a qualificare dal punto di vista categoriale la domanda di autofallimento, considerata ora come deroga all'eventuale azione dei creditori (Satta), ora come espressione del diritto di fallire (Provinciali, Pajardi), ora come denuncia volta a sollecitare l'esercizio del potere officioso del tribunale, ora infine come azione a contenuto meramente processuale senza diritto sostanziale (Tedeschi)]. Peraltro, va ulteriormente ricordato che l'art. 217,1 comma, n. 4, l.fall. ascrive al novero del reato di bancarotta semplice, punito con la reclusione da sei mesi a due anni, la condotta dell'imprenditore dichiarato fallito che abbia aggravato il dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa (così De Santis, 2012, 64). Di talché, il debitore istante potrebbe essere mosso a chiedere l'autofallimento per evitare la più grave incolpazione di tipo penale, sebbene debba ritenersi che la omissione anzidetta non sia di per sé sufficiente ad integrare la fattispecie di reato, rilevando la stessa solo in quanto sia stata causa efficiente dell'aggravamento di uno squilibrio economico già iniziato. Ne discende che, in mancanza della prova dell'evento ora descritto, l'omissione relativa alla mancata presentazione della istanza rimarrebbe priva di sanzione (De Matteis, 86 ss.). Da ultimo, non può neanche essere dimenticato, per una completa indagine dell'istituto, che la dichiarazione di fallimento (unitamente all'ulteriore necessario presupposto di non avere in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura) rappresenta il presupposto per l'accesso all'esdebitazione (De Santis, 2010, ibidem). Sul punto, deve pertanto convenirsi con quella autorevole dottrina (Ferrara-Borgioli, 239), là dove, pur escludendo che sussista un vero e proprio diritto soggettivo del debitore a fallire, tuttavia ritiene che esista un suo concreto interesse in questo senso, rinveniente o dalla volontà di non peggiorare la sua condizione patrimoniale ovvero dall'intenzione di riprendere, in futuro, l'attività d'impresa senza il peso dei debiti pregressi. Ebbene, secondo la legge fallimentare in vigore, il debitore, al pari del creditore e del pubblico ministero, se vuol chiedere il proprio fallimento, deve presentare un «ricorso» sottoscritto da un difensore munito di procura alle liti, ricorso che, come tale, rimane nella disponibilità di chi lo ha presentato, potendo il debitore anche rinunziarvi, fatta salva, in quest'ultimo caso, la potestà del tribunale di trasmettere la segnalazione dell'insolvenza al pubblico ministero [V. Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, in Giur. merito, 2009, 1566, con nota di Filippi. In ogni caso, pur quando il debitore istante rimanga l'unica parte in causa, il suo ricorso di fallimento — implicando il coinvolgimento di diritti indisponibili (e, segnatamente, di status personali) — non assume alcuna. valenza confessoria, e per questo può essere ritirato fino alla dichiarazione di fallimento. Similmente non assume valore confessorio la dichiarazione di trovarsi in stato d'insolvenza, atteso che quest'ultima non è un fatto, ma uno stato di impotenza economica che non può che essere valutato dal tribunale]. Né è a dirsi che l'istruttoria prefallimentare attivata su domanda del debitore non sia un processo a struttura contenziosa, ben potendo in quel processo intervenire uno o più creditori ovvero il pubblico ministero, se vi è un interesse pubblico. Peraltro, giova ricordare che, ai sensi dell'art. 14 l.fall., sull'imprenditore che chiede il proprio fallimento grava uno specifico onere di documentare la ricorrenza dello stato di insolvenza, nel senso che egli «deve depositare presso la cancelleria del tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero l'intera esistenza dell'impresa, se questa ha avuto una minore durata. Deve inoltre depositare uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, l'elenco nominativo dei creditori e l'indicazione dei rispettivi crediti, l'indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi, l'elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l'indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto» (l'art. 14 l.fall. è stato così sostituito dall'art. 12, comma primo, d.lgs. n. 5/2006). Sul punto, corre l'obbligo di precisare che la norma da ultimo in commento — prevedendo gli obblighi di deposito delle scritture contabili e fiscali a carico del debitore che agisce in autofallimento — presuppone che quest'ultimo sia comunque onerato di dimostrare lo stato di insolvenza in cui versa (De Santis, 2012, 67). Ebbene, non è dubitabile che — al fine di evitare ogni possibile abuso del ricorso allo strumento concorsuale — il debitore sia onerato di provare il fatto costitutivo della sua domanda, e cioè la sussistenza dello stato d'insolvenza. In realtà, la documentazione prescritta dall'art. 14 può certamente contenere elementi utili ad evidenziare tale stato, ma potrebbe anche non essere esaustiva, sicché il tribunale potrebbe rigettare la domanda di autofallimento, allorché il debitore non abbia convincentemente provato di non essere più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Più articolato è invece il raccordo tra l'iniziativa di autofallimento e l'onere della prova di almeno uno dei requisiti dimensionali, previsti dall'art. 1 l.fall., a seguito delle modifiche apportare a quest'ultima norma, e più in particolare al secondo comma dal d.lgs. n. 169/2007, in base al quale grava sul debitore 1'onere di provare che egli non sia soggetto fallibile, in quanto congiuntamente mancante dei tre requisiti previsti dalla legge con riferimento all'attivo patrimoniale, ai ricavi lordi ed all'ammontare dei debiti anche non scaduti. In dottrina (Ferro, Sub art. 14, in AA. VV., La legge fallimentare, Decreto legislativo 12 settembre 169, a cura di Ferro, Padova, 2008, 47), si è argomentato che, allorquando a chiedere il fallimento sia il debitore medesimo, l'onere della prova dovrebbe essere ribaltato rispetto all'ipotesi in cui il debitore sia convenuto dinanzi al tribunale fallimentare da altro legittimato, nel senso che se è il debitore a chiedere di fallire, scomparsa l'azione dell'ufficio, l'onere della prova cadente a carico dell'istante si estende sino alla dimostrazione dello sfondamento di almeno un parametro dei tre previsti dal comma secondo dell'art. 1 l.fall., in funzione deterrente rispetto all'abuso dell'istituto ed in piena coerenza con la tesi della vicinanza o riferibilità dei fatti. La tesi è largamente condivisibile. Sul punto, giova ulteriormente ricordare che la Corte costituzionale (così, Corte cost. n. 198/2009, in Fall., 2009, 1141, con nota di De Santis, Istruttoria prefallimentare ed oneri della prova), — nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell'art. 1, comma secondo, 1.fall. (come modificato dal d.lgs. n. 169/2007) — ha, tra l'altro, ritenuto privo di pregio 1'argomento svolto nelle ordinanze di remissione, con riferimento all'ipotesi dell'istanza di fallimento proposta dallo stesso fallendo, argomento volto a sostenere che, essendo egli stesso istante, ed avendo, pertanto, in ipotesi un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi all'onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di fallimento, anche là dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi. Ebbene, occorre concordare con il giudice delle leggi — per privare di significato il pur suggestivo rilievo sopra riportato — ha correttamente osservare che l'art. 14 della legge fallimentare prevede, a carico del debitore richiedente il proprio fallimento, alcuni adempimenti istruttori che significativamente vengono qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri, tali da far ritenere pacifico l'assegnazione al debitore in auto fallimento l'onere di provare la sua condizione di soggettiva fallibilità. In senso contrario, è stato anche affermato in dottrina che vi sarebbe l'assenza di una specifica sanzione in caso di mancato deposito dei documenti previsti dall'artt. 14 l.fall. (De Matteis, 93), nonché la possibilità che il tribunale, in questo caso, accolga egualmente la domanda di autofallimento, se lo stato d'insolvenza risulti comunque dagli atti di causa (Lamanna, Sub art. 14, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio-Fabiani, I, 2006, 293). Da ultimo, va anche ricordato che – in tema di legittimazione ad agire in auto fallimento nei casi di imprenditore collettivo – la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall'amministratore, investito del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell'assemblea o dei soci, riposando la ratio decidendi sulla considerazione che non si tratta di un atto negoziale, né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza (peraltro doverosa, in quanto l'omissione risulta penalmente sanzionata), e che esso non determina, di per sé alcun effetto diretto sulla società e sui diritti dei soci, eventualmente ricollegabile alla successiva sentenza dichiarativa di fallimento (cfr. Cass. n. 19983/2009. Cfr. anche Bonfatti-Censoni, 51, i quali ritengono che la delibera in questione possa essere presa dagli amministratori secondo quanto si dovrebbe desumere, tra l'altro, dall'art. 152 l.fall. che attribuisce agli amministratori il potere di deliberare la proposta e le condizioni del concordato). Altra questione da affrontare attiene alla legittimazione a domandare il fallimento della società in capo al socio illimitatamente responsabile di società di persone ovvero di società di società in accomandita per azioni (De Santis, 2012, 69). Ebbene, a siffatta questione si tendeva — e ciò, pur dopo le riforme, tuttora si tende — a fornire risposta negativa, sul presupposto che — se è vero che, nei detti casi, il fallimento della società determina ex se il fallimento dei soci illimitatamente responsabili — è altrettanto vero che la legittimazione in parola è da escludersi in considerazione della natura sussidiaria della responsabilità del socio al quale è, per conseguenza, negata anche la legittimazione a chiedere il fallimento di se stesso, se prima non sia intervenuta la dichiarazione di fallimento della società. La legittimazione a proporre istanza di fallimento in proprio, ex art. 6 l.fall., nel caso di società di capitali posta in liquidazione spetta direttamente al suo liquidatore, il quale è investito, ai sensi dell'art. 2489, comma 1, c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società, senza che detta legittimazione possa essere avocata dall'assemblea o dai singoli soci (Cass. I, ordinanza n. 10523/2019). Il ricorso del creditoreStatisticamente rappresenta l'ipotesi più comune di apertura del fallimento (sul tema: De Santis, 2010, 208 ss.; Fabiani, Sub artt. 6 e 7 l.fall., cit., 111 ss.; Ferro; Germano Cortese, 47 ss.; Montanaro, 2009, 183 ss.; Pajardi-Paluchowski, 117; AA. VV., 36; Zanichelli, 14 ss.). Ciò a segnalare comunque in termini concreti che essa rappresenta, in fatto, il più comune tentativo di tutela del proprio credito che il creditore attua dopo il tentativo di pignoramento e spesso anche al posto del tentativo di pignoramento che si sia reso inutile. In realtà, il creditore agisce per la tutela del proprio interesse, anche se come «risultanza di fatto» realizza la tutela degli interessi di tutti i creditori. Ebbene, la soppressione dell'iniziativa officiosa e la contestuale costruzione dell'istruttoria prefallimentare come giusto processo rappresentano il nuovo quadro di riferimento dentro il quale collocare, anche sistematicamente, la legittimazione alla domanda di fallimento riconosciuta al creditore dall'art. 6 l.fall.. In realtà, allorché dominava l'impulso officioso, l'iniziativa del creditore poteva apparire come una variabile sufficiente, ma non necessaria a sostenere la procedibilità del giudizio fallimentare (De Santis, 2012, 36), tanto ciò è vero che in dottrina si sosteneva la valenza del ricorso come mera denunzia dell'insolvenza al tribunale (Micheli, I, 17) ovvero come trasformazione dell'iniziativa esecutiva individuale in esecuzione concorsuale, a beneficio dell'intero ceto creditorio (Provinciali, 396). Sul punto, non può sfuggire, sul piano processuale, la singolarità di un diritto meramente processuale di azione, proteso ad ottenere la sola dichiarazione di fallimento, svincolato dalla compresenza di un sottostante diritto sostanziale. La riprova di ciò risiede nel fatto che il creditore ricorrente, se vuole diventare creditore concorsuale, doveva (e deve ancora oggi) presentare in ogni caso istanza di insinuazione al passivo (Colesanti, 17. Andrioli, 324. La giurisprudenza riteneva che l'eventuale inesistenza del credito di chi avesse proposto istanza per la dichiarazione di fallimento non ostava alla dichiarazione medesima, né poteva comportarne la successiva revoca, ove non fosse tale da far escludere il presupposto per l'instaurazione della procedura concorsuale, cioè l'impossibilità del debitore di fronteggiare tempestivamente i propri obblighi con mezzi normali di pagamento: cfr. Cass. n. 3095/1981). In realtà, la forza espansiva del processo di fallimento era tale che l'istanza di un creditore per la dichiarazione di fallimento, ancorché limitata a taluno dei partecipanti all'impresa ritenuta in stato d'insolvenza, dovesse intendersi implicitamente riferita a tutti coloro che per legge rispondono del dissesto denunciato (Cass. n. 3095/1981). Risulta anche attuale e condivisibile quell'autorevole orientamento dottrinario che, in subiecta materia, insegnava che il potere del creditore di chiedere il fallimento del suo debitore è da ricondursi alla difesa sul piano giudiziario del diritto, risolvendosi in una forma di tutela del credito (Ferrara-Borgioli, Il fallimento, cit., 237). Invero, la domanda di fallimento non rappresenta l'esercizio di un'azione esecutiva in senso tecnico, in quanto, avendo ad oggetto la sola dichiarazione di fallimento, non dà, perciò solo, diritto al creditore di partecipare all'esecuzione concorsuale, rappresentando la stessa, bensì, una modalità di esercizio del credito, che, essendo correlata ad un diritto ordinariamente disponibile, è anche rinunziabile (De Santis, 2012, 37). Sul punto, va tuttavia precisato che la rinunzia non assume le caratteristiche della perdita del diritto — non essendo il potere dissociabile dal credito di cui è manifestazione – bensì quello del pactum de non petendo (Ferrara-Borgioli, Il fallimento, cit., ibidem. L'attualità della lezione del Ferrara riposa su ciò, che il creditore che chiede il fallimento del suo debitore non intende perseguire la condanna al pagamento di un credito, ma una tutela di quest'ultimo ritenuta più efficace di ogni azione giudiziaria di recupero, perfino attraverso l'esecuzione individuale). Pertanto, la tutela del credito cui il creditore aspira è una tutela di tipo indiretto, e se si vuole, anticipata e cautelare, che ha ad oggetto la preservazione della generale garanzia patrimoniale del debitore. Né ciò deve apparire eccentrico dal punto di vista sistematico, se inquadrato nel contesto della tutela costitutiva, alla quale si ascrive la sentenza dichiarativa di fallimento (così De Santis, 2012, ibidem). Venendo ai profili più prettamente tecnico-procedurali, va detto che la domanda di fallimento presentata dal creditore deve essere contenuta in un atto processuale, diretto al tribunale fallimentare che assume la veste di ricorso rispetto al quale la esistenza del credito è presupposto della legittimazione del soggetto richiedente e proprio per tal motivo non occorre che esso sia accertato con un titolo esecutivo. Tuttavia, va detto che la nuova configurazione dell'istruttoria prefallimentare che prescinde dalla possibilità di una iniziativa d'ufficio deve necessariamente avere una maggiore attenzione cognitiva, seppure sempre sommaria, nei confronti della esistenza del credito azionato, il cui fumus deve essere attentamente indagato. Sul punto, va aggiunto che, a differenza della ipotesi in cui sia il debitore a chiedere il proprio fallimento, l'art. 6 l.fall. non specifica in alcun modo come deve essere redatto e con quali contenuti il ricorso del creditore. Esso indica solo ed esclusivamente la necessità di precisare il recapito al quale si vogliono ottenere gli avvisi, eventualmente attraverso un numero di telefax ovvero un indirizzo di posta elettronica cui indirizzare le comunicazioni al creditore istante. Ne discende che, in assenza di indicazioni specifiche il ricorso deve ritenersi avere il contenuto di cui all'art. 125 c.p.c. e cioè deve essere redatto per iscritto, sottoscritto dalla parte personalmente se può stare in giudizio senza il patrocinio di un legale ovvero dal legale se questi lo rappresenta attraverso una regolare procura. Va precisato che deve escludersi la possibilità che la richiesta di fallimento possa essere presentata con atto di citazione, benché si ritenga che il giudice possa interpretare in una ottica di salvaguardia l'atto e dunque salvarne la finalità e gli scopi in una prospettiva di garanzia della celerità del procedimento cui il creditore non può comunque rinunziare, procedendosi in tal modo alla fissazione comunque dell'udienza ex art. 15 l.fall., anche se il giudizio sia stato introdotto in modo errato (Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1964, 472. Per la improponibilità della domanda con citazione, cfr. anche Tedeschi, 256). Va altresì ricordato che, nella prassi formatasi prima della riforma, era assolutamente incontrastato il principio secondo cui il creditore potesse presentare istanza di fallimento in proprio ovvero senza l'ausilio di un legale. Tuttavia l'accentuata processualità dell'azione e il completo mutamento della procedura di cui all'art. 15 l.fall. devono far propendere per la soluzione della necessarietà della difesa tecnica per la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento (Amatore, 209; in senso contrario alla soluzione indicata nel testo, si v. Montanaro, 2006, 87; Ferro, Sub art. 6, cit., 41). Da ultimo, deve essere precisato che la presentazione del ricorso, essendo esercizio del diritto di credito di cui si pretende la tutela, interrompe la prescrizione del diritto azionato (Cfr. Cass. n. 2239/1998, la quale non solo afferma che la presentazione del ricorso interrompe la prescrizione nel momento della notifica del debitore, ma anche che è equiparabile, per tale effetto, all'atto di costituzione in mora). In ordine alle caratteristiche del credito azionato e alle conseguenze sul piano processuale, occorre puntualizzare che l'accertamento della qualità di creditore della parte istante deve essere compiuto, incidenter tantum, dal tribunale al fine di verificare, in primo luogo, la legittimazione attiva del creditore alla presentazione della istanza di fallimento (Trib. Latina, 20 gennaio 2012). Tale legittimazione attiva sussiste anche nei confronti dell'obbligato sussidiario solidale qualora sia stata pattuita una delegazione o accollo cumulativi ed operi il “beneficium ordinis” di cui all'art. 1268, comma 2, c.p.c., in quanto la nozione di creditore si riferisce anche ai titolari di crediti condizionali (Cass. I, ord. n. 23896/2022). E sussiste anche in capo al liquidatore di società di capitali, in quanto investito del potere di compiere ogni atto utile alla liquidazione, senza che rilevi in senso contrario le sue eventuali dimissioni dalla carica, stante la prorogatio dei poteri (Cass. I, ord. n. 24123/2022). Per completezza di indagine, va rilevato, in termini generali, che la sussistenza del credito del ricorrente può rilevare, in sede prefallimentare, sotto tre diversi profili, e cioè, da un lato, la legittimazione ad agire e, dall'altro, lo stato di insolvenza e l'entità dei debiti scaduti e non pagati. Sul punto, va chiarito che, in ogni caso, l'accertamento del credito della parte ricorrente con la istanza di fallimento non costituisce mai oggetto del procedimento per la dichiarazione di fallimento, giacché tale accertamento, in ambito concorsuale, è riservato al procedimento di accertamento del passivo fallimentare che segue la dichiarazione di fallimento ed al quale anche chi abbia chiesto tale dichiarazione — allegando di essere creditore del fallendo — ha l'onere di partecipare per divenire creditore concorrente. In realtà, tale accertamento potrebbe richiedere tempi e mezzi di prova incompatibili con le esigenze di particolare celerità e con le forme del procedimento per la dichiarazione di fallimento. In proposito la giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza del credito del ricorrente, necessario ai fini della sua legittimazione, deve essere oggetto di una valutazione incidentale da parte del giudice che, non richiedendo un accertamento giudiziale e neppure l'esecutorietà del titolo, può in sede di reclamo avverso la sentenza di fallimento fondarsi anche sulle risultanze del processo di verificazione dei crediti, quali elementi dimostrativi dell'esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento (Cass. I, ord. n. 19477/2022); e che il tribunale è chiamato a verificare, invia incidentale, e compatibilmente con la sommarietà del procedimento, la sussistenza del credito dedotto a sostegno della domanda, e a tale fine è tenuto a prendere in esame non solo le allegazioni e le produzioni del creditore, ma anche i fatti rappresentati dal debitore, che valgano a dimostrare l'insussistenza dell'obbligazione addotta o la sua intervenuta estinzione; ne deriva che l'eccezione di nullità del titolo da cui scaturisce il credito posto a fondamento del ricorso, anche se è sollevata in sede di gravame, deve essere esaminata dal giudice, potendo la stessa incidere sulla legittimazione del ricorrente (Cass. I, ord. n. 16853/2022). Con specifico riferimento al profilo della legittimazione ad agire, poiché si tratta, secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, di una condizione dell'azione diretta all'ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo, dunque, dall'effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa e non investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza (Cass. n. 14177/2011; Cass. n. 11284/2010; Cass. n. 12832/2009), essa va verificata sulla base della mera allegazione di chi agisce affermandosi titolare attivo della situazione giuridica dedotta in giudizio ed affermandone la titolarità passiva in capo al convenuto. Invero, è da escludersi che sia necessario un compiuto o definitivo accertamento del credito vantato dal ricorrente nei confronti del debitore, dovendo pertanto la verifica — che nel corso del procedimento per la dichiarazione di fallimento, il tribunale (o eventualmente la corte d'appello in sede di reclamo) deve compiere sull'esistenza e la titolarità del credito vantato dalla parte ricorrente — rivestire carattere meramente incidentale e sommario e concludersi con esito positivo qualora la esistenza di tale credito o la sua titolarità in capo al ricorrente non possa essere ragionevolmente esclusa sulla base di semplici e rapidi accertamenti, così come quella che il giudice dell'azione surrogatoria di cui all'art. 2900 c.c. o dell'azione revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c. (l'una e l'altra, alla pari di quella volta ad ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore, mezzi di conservazione della generica garanzia dei creditori rappresentata dal patrimonio del debitore) deve compiere in ordine alla legittimazione dell'attore (è notorio che da sempre la Suprema Corte ha affermato una netta cesura tra la legittimatio ad causam vera e propria e la concreta titolarità del diritto controverso. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, a fondare la legittimazione attiva e passiva delle parti di un giudizio è sufficiente che l'attore si affermi titolare del lato attivo del rapporto, e che attribuisca al convenuto la titolarità del lato passivo. Per contro — prosegue sempre la Suprema Corte — l'accertamento della effettiva titolarità non investe il profilo della legittimazione, concerne il merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di tale titolarità (in capo ad una o entrambe le parti) sfocerà non in una pronuncia in rito, ma nel rigetto nel merito della domanda (cfr. da ultimo Cass. n. 11284/2010, cit.; Cass. n. 12832/2009; Cass. n. 14468/2008; Cass., n. 6132/2008; Cass. n. 355/2008; Cass. n. 11321/2007; Cass. n. 21192/2006; Cass. n. 13756/2006; Cass. n. 15721/2005; Cass. n. 12904/2004) la cui titolarità, per costante giurisprudenza, va riconosciuta anche a chi alleghi di essere titolare di un credito che non sia stato ancora giudizialmente accertato o che sia contestato dal debitore e dunque solo eventuale (Trib. Latina, 20 gennaio 2012). Sul punto, va detto che la riforma del 2006 non sembra avere inciso in modo particolarmente profondo sugli orientamenti della dottrina, registrandosi in molti casi l'affermazione della necessità che nel «nuovo rito» il vaglio circa l'esistenza del credito sia più «attento» o ponderato che in precedenza (Fabiani, Sub artt. 6 e 7 l.fall., cit., 112; Pajardi-Paluchowski, 118. In senso contrario Auletta, 124 ss., il quale afferma la necessità di «accertare tra i presupposti per la dichiarazione di fallimento che il rapporto di credito-debito, indispensabilmente allegato, sia stato effettivamente sussistente al tempo della domanda». Cfr. anche da ultimo Trib. Cagliari 4 gennaio 2010), ma permanendo la convinzione che la presenza del credito incida sulla sola legittimazione, senza che un eventuale accertamento sul punto possa dar luogo ad un giudicato che renda superflua la successiva insinuazione al passivo. Si tratta di una conclusione peraltro logica: se prima il potere di dichiarazione d'ufficio rendeva persino superfluo il problema della legittimazione attiva, consentendo la dichiarazione di fallimento anche a seguito dell'iniziativa di un creditore «millantatore», con il «nuovo rito» l'imprescindibilità dell'impulso di parte rende necessario verificare anche solo sommariamente che il soggetto che chiede il fallimento sia effettivamente «parte», cioè creditore, pena la neutralizzazione di fatto di una delle novità fondamentali della riforma (Rolfi, 1193). Le opinioni sinora riportate, peraltro, lasciano aperto almeno un problema, e cioè quello di stabilire la profondità dell'istruttoria che il tribunale può o deve svolgere in ordine alla sussistenza del debito in caso di contestazione. Occorre partire per l'inquadramento della questione da una preliminare delimitazione dell'area «critica» nella quale il problema sinora delineato viene a porsi con maggiore gravità, escludendo, invece, aree dove la questione della legittimazione del creditore potrà essere più facilmente superata. Così, appare evidente che nessun problema di legittimazione potrà porsi nel caso in cui il creditore sia assistito da un titolo anche solo provvisoriamente esecutivo, sembrando in siffatte ipotesi corretto negare all'istruttoria prefallimentare qualsivoglia potere di sindacato sul titolo medesimo, eccetto, forse le ipotesi di palese abnormità nella formazione del medesimo. Questa conclusione tuttavia non può significare che, ove medio tempore l'esecutività venga meno, con essa venga meno la legittimazione del ricorrente, in quanto la decadenza del credito da «titolato» a «non titolato», non può essere automaticamente equiparata all'accertamento della insussistenza del credito (D'Aquino, 51). Occorrerà, anzi, verificare caso per caso se il venir meno della esecutività sia connesso ad un accertamento giurisdizionale negativo sull'esistenza del credito (nel qual caso si assisterà al venir meno della legittimazione dell'istante); o se invece discenda dall'esercizio di un potere cautelare di sospensione della esecutività privo (ad esempio perché basato su meri vizi formali del titolo) di valenza di accertamento diretto, anche provvisorio, sull'esistenza del credito, nel qual caso il credito tornerà ad essere «contestato», col conseguente riproporsi del problema di accertamento dello stesso da parte del tribunale fallimentare (Rolfi, ibidem). Un'ipotesi ricorrente di difetto sopravvenuto di legittimazione del creditore si avrà, invece, nel caso di adempimento, medio tempore, dell'obbligazione da parte del resistente. L'estinzione del credito dell'istante sarà — di regola — accompagnato da una dichiarazione di desistenza da parte del ricorrente, ma detta dichiarazione potrebbe mancare per le più svariate ragioni. A questo punto si porranno due ipotesi. Se l'estinzione del credito sarà comunque incontestata, allora inevitabile sarà una conclusione del procedimento in rito, con declaratoria di sopravvenuto difetto di legittimazione attiva del creditore ricorrente. Se invece l'estinzione stessa potrà essere oggetto di contestazione ed allora graverà ancora sul tribunale fallimentare l'onere di verificare la persistenza totale o parziale del credito stesso, ai fini della legittimazione del creditore, nonché dello stesso stato di insolvenza del resistente. Per quanto sopra detto, deve ritenersi che, in primo luogo, il credito può anche non risultare da un titolo esecutivo (giudiziale o stragiudiziale) o da un provvedimento monitorio del giudice, ed essere perciò oggetto di contestazione da parte del debitore (De Santis, 2012, 38). È evidente che, in assenza di titolo esecutivo (ed in presenza, per converso, di una contestazione del credito), il tribunale dovrà procedere all'accertamento incidentale del credito medesimo ai fini della valutazione della legittimazione ad agire del creditore, così come già sopra accennato. Sul punto, si può discutere se il deposito della fattura in sede prefallimentare rappresenti, in presenza di contestazioni, prova sufficiente del credito ai fini che qui interessano. In realtà, deve ritenersi che il carattere unilaterale rivestito dalla fattura commerciale induca a far ritenere più corretta la tesi contraria alla sufficienza della prova, e ciò allorquando la sua esibizione non sia accompagnata da un estratto autentico delle scritture contabili regolarmente tenute e da cui risulti la registrazione delle fatture ovvero, e più ancora, dalla documentazione attestante la fornitura della merce o l'avvenuta prestazione del servizio. Allo stesso modo occorrerà procedere nei casi in cui il titolo esecutivo, pur esistente, sia stato sospeso dal giudice della impugnazione ovvero dal giudice della esecuzione in sede di opposizione esecutiva. Altra questione da affrontare riguarda le caratteristiche dell'accertamento che il tribunale deve compiere in sede di istruttoria prefallimentare, atteso che – essendo lo stesso finalizzato non alla condanna del debitore al pagamento, ma ad appurare la ricorrenza dello stato di insolvenza – deve ritenersi non idoneo all'efficacia di giudicato circa l'esistenza e la titolarità del credito, fatto valere al solo fine di radicare la legittimazione ad agire ed oggetto di verifica giudiziale incidenter tantum (De Santis, 2012, 38). Ne discende che il creditore istante può chiedere l'ammissione al passivo e questa può essergli rigettata anche nel caso in cui il giudice prefallimentare abbia ritenuto sussistere il credito, o, all'opposto, in caso di rigetto dell'istanza di fallimento perché il credito è stato ritenuto insussistente, il creditore potrà farlo valere in giudizio innanzi al giudice ordinario (Cass. n. 23338/2010). Infine, va chiarito che — trovando la dichiarazione di fallimento il suo presupposto, dal punto di vista oggettivo, nello stato d'insolvenza del debitore – il riscontro incidenter tantum della titolarità del credito, che radica la legittimazione ad agire, può essere legittimamente effettuato dal giudice ordinario, anche quando il credito vantato dall'attore derivi da rapporti riservati alla cognizione di un giudice diverso (Cass. n. 25961/2011). L'ulteriore corollario ai principi sopra affermati è rintracciabile nella conseguenza che, se l'esistenza e la titolarità del credito di chi ha agito ex art. 6 l.fall. non vengono riconosciute, la dichiarazione di fallimento non può essere pronunziata, pur nella ricorrenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.fall., in assenza di altre iniziative di qualificati creditori, ovvero dell'iniziativa del pubblico ministero, attesa che la carenza di legittimazione ad agire impone una pronuncia in rito d'inammissibilità della domanda, senza alcuna possibilità di ulteriore esercizio della giurisdizione (Cass. n. 3472/2011). Da ultimo, va esaminata anche la discussa questione della legittimazione del fideiussore non ancora escusso. I invero, il fideiussore non ancora escusso è un creditore meramente «eventuale», in quanto solo con l'escussione viene ad attualizzarsi il diritto di regresso verso il debitore principale fallito. Ne discende che, a rigore, il fideiussore non potrebbe considerarsi ancora «creditore» del resistente, con conseguente preclusione della possibilità di presentare la domanda di fallimento. Diverso, coerente con la dottrina maggioritaria e qui condiviso da chi scrive è, invece, il ragionamento della Suprema Corte, la quale rimarca il nesso tra la qualifica di «creditore» ai fini della legittimazione alla presentazione di ricorso ex art. 15 l.fall., e la qualifica di creditore ai fini della legittimazione alla presentazione della domanda di insinuazione al passivo. L'affermazione della sostanziale coincidenza tra le due figure, invero, viene a comportare la piena legittimazione ex art. 15 l.fall. del fideiussore, per la semplice ragione che lo stesso è — in virtù del chiaro disposto di cui all'art. 55 l.fall. — legittimato ad insinuarsi nel passivo del fallimento del debitore garantito, sia pure tramite il meccanismo della riserva ex art. 96 l.fall. [Cass. n. 903/2008; Cass. n. 13508/2004, in Fall., 2005, 399 (con nota di Cataldo); Trib. Milano 9 maggio 2008; Trib. Monza III, 16 aprile 2008, in Fall., 2008, 1351; App. Napoli I, 19 marzo 2007; Trib. Milano 4 novembre 2005, in Fall., 2006, 852]. L'importanza di un simile approdo è evidente sol che si consideri anche che l'ammissione con riserva del fideiussore fallito «non contiene alcuna delibazione favorevole circa l'esistenza del credito e non determina alcun giudicato endofallimentare sull'esistenza del credito, atteso che il credito condizionale è del tutto eventuale nel suo stesso venire ad esistenza, la riserva attenendo proprio all'evento costitutivo del diritto fatto valere» (Così, Cass. n. 13508/2004, cit.), volendo significare ciò che il credito del fideiussore risulta collocato in una sorta di «soglia di doppia esenzione» dall'accertamento pieno della sua esistenza: una operante nel procedimento prefallimentare, ed una operante nella fase di accertamento del passivo, ove viene a differenziarsi dai crediti non condizionali, per i quali l'ammissione acquista quella peculiare valenza di accertamento che è il «giudicato endofallimentare». Solo con lo scioglimento della riserva — che è successivo all'ammissione al passivo — sulla pretesa del fideiussore potrà coagularsi un vero e proprio accertamento, seppure «semipieno», perché limitato alla procedura concorsuale (cfr. Rolfi, 1193 e ss.). Ne discende, come ultima conseguenza del ragionamento sopra tratteggiato, che il riconoscimento della legittimazione attiva ex art. 15 l.fall. ad un creditore «doppiamente eventuale» — e quindi in una situazione in cui l'accertamento del credito risulta ontologicamente precluso, se non nei limiti della esistenza e validità della garanzia (il cui adempimento fonderà il credito da regresso) — costituisce riprova evidente della impossibilità di postulare, in sede di giudizio prefallimentare, un accertamento pieno del credito del ricorrente ai fini del riscontro della sua legittimazione attiva, e conferma la tesi — qui sostenuta — della sufficienza, a tal fine, della mera allegazione della veste di creditore. Solo nei casi di evidente insussistenza del credito, quindi, potrà porsi un problema di difetto di legittimazione tale da precludere l'esame dell'istanza di fallimento, conducendo invece ad una decisione in rito. Segue. Le forme speciali di legittimazione attiva e la legittimazione ad agire del concessionario alla riscossioneEbbene, giova ricordare che l'art. 97, comma terzo, del d.P.R. n. 602 del 1973 —peraltro dichiarato incostituzionale (Corte cost. n. 89/1992) e successivamente espressamente abrogato dal d.lgs. n. 471 del 1997 — prevedeva che il fallimento potesse essere dichiarato sulla semplice istanza dell'Intendenza di finanza perla morosità di una rata o di più rate d'imposta d'impono superiore a lire 500mila, purché iscritte a ruolo e nonostante la pendenza innanzi alle commissioni tributarie, senza che il tribunale dovesse accertare l 'esistenza dello stato d'insolvenza, né sentire le parti o accordare dilazioni (era il c.d. fallimento fiscale) (De Santis, 2012, 42 ss.). Per effetto, poi, dell'abrogazione del citato art. 97, comma 3, era rimasto peraltro privo di contenuto anche il 2 comma dell'art. 4 l.fall., che faceva salve le disposizioni delle leggi speciali circa la dichiarazione di fallimento del contribuente per debito d'imposta. Successivamente, l'art. 3, d.l. n. 138/2002, ha riformulato l'art. 87, d.P.R. n. 602/1973, prevedendo che il concessionario della riscossione può presentare la domanda di fallimento per conto dell'Agenzia delle entrate. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato, in modo del tutto condivisibile, che tale norma non riveste alcun carattere speciale o derogatorio rispetto alla norma sulla legittimazione ad agire di cui all'art. 6 l.fall., giacché si fonda sul presupposto secondo cui l'amministrazione finanziaria possa, come ogni altro soggetto creditore, presentare l'istanza di fallimento per crediti d'imposta del debitore, il quale può essere dichiarato fallito soltanto dopo che il credito dell'amministrazione sia stato vagliato alla stregua di tutti quanti gli altri crediti e sia stato comunque accertato lo stato d'insolvenza del debitore. In realtà, la norma in esame contiene perciò semplicemente una disposizione di carattere processuale, con cui individua nel concessionario il soggetto legittimato ad agire per conto dell'agenzia delle entrate, titolare del credito [Cass. n. 23338/2010, la quale ha peraltro ritenuto che «la possibilità per l'amministrazione di chiedere il fallimento del debitore d'imposta non presenta alcun manifesto profilo d'incostituzionalità perché il credito tributario è in tutto equiparabile agli altri e nessuna violazione dell'art. 24 Cost. è, quindi, ipotizzabile, perché il credito in questione è suscettibile di una delibazione incidentale in ordine alla sua fondatezza, in caso di ricorso alle commissioni tributarie (la cui decisione rimane impregiudicata), da parte del giudice della procedura prefallimentare alla stregua di tutti gli altri crediti contestati, senza quindi che vi sia una violazione del diritto di difesa»]. Ebbene, deve ritenersi, in subiecta materia, che si è in presenza di una sorta di «speciale» rappresentanza processuale, che consegue alla titolarità della riscossione, ossia del potere di far azionare in sede esecutiva il credito dell'erario, non necessariamente congiunto alla titolarità della gestione sostanziale del credito medesimo (De Santis, 2012, 43). È noto che, in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone come causa di esclusione anche della legittimatio ad processum del rappresentante, il cui accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e dunque anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto, e con la ulteriore possibilità di diretta valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo (Cass. n. 24169/2009). BibliografiaAA. 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