Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 229 - Accettazione di retribuzione non dovuta.

Roberto Amatore

Accettazione di retribuzione non dovuta.

 

Il curatore del fallimento che riceve o pattuisce una retribuzione, in danaro o in altra forma, in aggiunta di quella liquidata in suo favore dal tribunale o dal giudice delegato, è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da euro 103 a euro 5161.

Nei casi più gravi alla condanna può aggiungersi l'inabilitazione temporanea all'ufficio di amministratore per la durata non inferiore a due anni.

[1] L'importo di cui al presente comma è stato elevato dall'articolo 3 della legge 12 luglio 1961, n. 603 e successivamente dall'articolo 113, comma 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Inquadramento

La condotta criminosa prevista dall'art. 229 della legge fallimentare è quella del curatore che riceve o pattuisce una retribuzione, in danaro o in altra forma, in aggiunta all'altra liquidata in suo favore dal tribunale o dal giudice delegato, e la statuizione, strettamente collegata a quella dell'art. 39, comma 3, della stessa legge, è ispirata allo scopo di sottrarre il curatore alle suggestioni economiche ed ai contratti di natura patrimoniale con le parti private, per assicurarne la natura di organo processuale indipendente nelle sue determinazioni; sicché — nella qualificazione dell'ipotesi criminosa come reato di pericolo, la cui oggettività giuridica è da ravvisare nella «venalità del curatore» ed il cui elemento soggettivo si sostanzia nella consapevolezza dell'agente della mancata osservanza delle forme previste per la liquidazione del compenso — è agevole coglierne la differenza con le diverse ipotesi della concussione, nella quale la dazione o la promessa, quale realizzazione di una pretesa illecita, suppongono, altresì, l'abuso della qualità o dei poteri del pubblico ufficiale e l'esercizio di una pressione psichica, prevaricatrice della volontà del privato.

Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la definizione del fatto operata dal giudice di merito il quale aveva affermato l'esistenza della concussione nel comportamento del custode fallimentare che attraverso costrizione o induzione aveva determinato le parti a corrispondere la utilità richiesta al fine di destinarle a scopo ben diverso della integrazione del compenso, dovutogli, peraltro, all'esito della procedura fallimentare (Cass. pen. n. 4172/1995).

Risponde del reato di concussione, e non di quelli previsti dagli artt. 228 e 229 l.fall., il commissario liquidatore, nominato ai sensi dell'art. 198 l.fall., che, abusando della sua qualità di pubblico ufficiale, induca l'acquirente dei beni compresi nella liquidazione a rilasciargli indebitamente una fattura di importo inferiore al prezzo effettivamente pagato (Cass. pen. VI, n. 18732/2008).

La eventuale revoca della dichiarazione di fallimento non determina il venir meno, «ex tunc» della qualità di pubblico ufficiale attribuita dall'art. 30 della legge fallimentare al curatore del fallimento, e non incide, pertanto, sulla configurabilità dei reati che in detta qualità siano stati commessi (Cass. pen. VI, n. 8282/1993).

Presupposti applicativi

Il reati si consuma con il perfezionarsi della pattuizione relativa alla retribuzione o con la ricezione materiale di una ricompensa non in precedenza pattuita, in aggiunta a quella liquidata dagli organi fallimentari (Conti, 381).

Elemento soggettivo è il dolo che implica la coscienza e volontà di pattuire o ricevere una retribuzione diversa da quella liquidata dagli organi fallimentari.

Bibliografia

Conti, Diritto penale commerciale, I reati fallimentari, Torino, 1991, 381.

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