Codice di Procedura Civile art. 269 - Chiamata di un terzo in causa 1.Chiamata di un terzo in causa 1. [I]. Alla chiamata di un terzo nel processo a norma dell'articolo 106, la parte provvede mediante citazione a comparire nell'udienza fissata dal giudice istruttore ai sensi del presente articolo, osservati i termini dell'articolo 163-bis. [II].Il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. Il giudice istruttore, nel termine previsto dall'articolo 171-bis, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto 2. [III]. Ove, a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sia sorto l'interesse dell'attore a chiamare in causa un terzo, l'attore deve, a pena di decadenza, chiederne l'autorizzazione al giudice istruttore nella memoria di cui all'articolo 171-ter, primo comma, numero 1. Il giudice istruttore, se concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. La citazione è notificata al terzo a cura dell'attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice3. [IV]. La parte che chiama in causa il terzo deve depositare la citazione notificata entro il termine previsto dall'articolo 165, e il terzo deve costituirsi a norma dell'articolo 166. [V]. Nell'ipotesi prevista dal terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo e i termini indicati dall'articolo 171-ter decorrono nuovamente rispetto all'udienza fissata per la citazione del terzo4.
[1] Articolo così sostituito dall'art. 29 l. 26 novembre 1990, n. 353. Il testo recitava: «[I]. Alla chiamata di un terzo nel processo a norma dell'articolo 106, la parte deve provvedere mediante citazione a comparire alla prima udienza, osservati i termini stabiliti nell'articolo 163-bis. [II]. Il giudice istruttore, quando ne è richiesto nella prima udienza, può concedere un termine per la chiamata del terzo, fissando all'uopo una nuova udienza. [III]. La parte che chiama un terzo deve depositare la citazione entro il termine di cui all'articolo 165, mentre il terzo può costituirsi a norma dell'articolo 166 o all'udienza». [2] Comma così modificato dall'art. 3, comma 17, lett. c), numero 1), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito, nel secondo periodo, le parole: «nel termine previsto dall'articolo 171-bis» alle parole: «entro cinque giorni dalla richiesta» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022 , come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". [3] Comma così modificato dall'art. 3, comma 17, lett. c), numero 2), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito, nel primo periodo, le parole: «nella memoria di cui all'articolo 171-ter, primo comma, numero 1» alle parole: «nella prima udienza» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". [4] Comma così sostituito dall'art. 21 lett. p)l. 28 dicembre 2005, n. 263, con effetto dal 1° marzo 2006. Ai sensi dell'art. 2 4 l. n. 263, cit., tali modifiche si applicano per i procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006. Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «[V]. Nell'ipotesi prevista dal terzo comma, restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma il termine eventuale di cui all'ultimo comma dell'articolo 183 è fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all'articolo 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione del terzo.». Successivamente così modificato dall'art. 3, comma 17, lett. c), numero 3), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito le parole: «maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo e i termini indicati dall'articolo 171-ter decorrono nuovamente rispetto all'udienza fissata per la citazione del terzo» alle parole: «ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma i termini eventuali di cui al sesto comma dell'articolo 183 sono fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022 , come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoVi sono alcune ipotesi nelle quali può sussistere l'interesse delle parti a chiamare in causa un terzo, al fine di opporre allo stesso il giudicato formatosi nel processo. In particolare, l'art. 106 c.p.c. distingue tra la fattispecie nella quale detto interesse è costituito dalla «comunanza di causa» da quella in cui ciò si correla all'esigenza della parte di essere manlevata. La chiamata c.d. in garanzia è volta a tutelare il diritto di una delle parti ad essere tenuta indenne per il caso di sua soccombenza nel processo da un altro soggetto (Tarzia, 2002, 144). Secondo la giurisprudenza più risalente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la garanzia può essere propria ed impropria e la differenza, rilevante ai fini dello spostamento di competenza per ragioni di connessione ex art. 32, si sostanzia nel senso che la legge che disciplina il rapporto prevede un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del chiamato in garanzia (Cass. S.U., n. 13968/2004). Più di recente è invece stato chiarito cha la distinzione tra garanzia propria ed impropria assume valenza meramente descrittiva e non incide sulle facoltà processuali delle parti (Cass. S.U., n. 24707/2015). La nozione di «comunanza di causa» è molto ampia, comprendendo al suo interno le più diverse ipotesi nelle quali, per motivi di connessione, è opportuna la presenza di un terzo nel processo (Luiso, 2015, 305). Nell'ipotesi in cui un terzo sia stato chiamato in causa dal convenuto come soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore, la domanda di quest'ultimo si estende automaticamente ad esso senza necessità di una istanza espressa, costituendo oggetto necessario del processo, nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico, l'individuazione del soggetto effettivamente obbligato, mentre analoga estensione non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia (Cass. n. 12317/2011). Le modalità processuali della chiamata in causa del terzo sono regolate dall'art. 269 c.p.c. che, a riguardo, distingue l'ipotesi nella quale la chiamata è effettuata dal convenuto da quella in cui è richiesta dall'attore. Controverse sono, almeno in dottrina e nella giurisprudenza di merito, le modalità con le quali deve essere chiamato in causa il terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in ragione delle peculiari forme processuali dello stesso. Chiamata in garanziaLa chiamata c.d. in garanzia è volta a tutelare il diritto di una delle parti ad essere tenuta indenne per il caso di sua soccombenza nel processo da un altro soggetto (Tarzia, 2002, 144). Si distingue comunemente tra garanzia propria e garanzia impropria. In accordo con la giurisprudenza tradizionale la differenza si sostanzia nella circostanza che soltanto nella prima ipotesi vi è un'identità o una connessione obiettiva dei titoli posti a fondamento della domanda principale e della domanda di garanzia, mentre si configura la garanzia impropria quando il convenuto tende a riversare su un terzo le conseguenze del proprio inadempimento in virtù di un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale o in forza ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto (Cass. n. 8898/2014; Cass. n. 11711/2002; conf., in sede di merito, Trib. Aquila, 21 dicembre 2016, n. 1025). Secondo una parte della dottrina, invece, si avrebbe piuttosto garanzia propria nelle ipotesi in cui la legge che disciplina il rapporto prevede un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del chiamato in garanzia e, per questo, la partecipazione del terzo al giudizio può essere ricondotta ad una previsione legislativa (Luiso I, 321; Tarzia, 144). L'esigenza di distinguere tra garanzia propria ed impropria anche quanto alla disciplina processuale, aveva ricevuto l'avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali avevano evidenziato che si ha garanzia propria nei casi in cui la legge disciplinatrice del rapporto preveda un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del terzo chiamato in garanzia di guisa che la partecipazione del terzo al giudizio instaurato dall'attore possa ricondursi ad una previsione legislativa (Cass. S.U., n. 13968/2004, in Foro it., 2005,I, 2385, con nota di Gambineri). La giurisprudenza della S.C., sino ad una recente svolta, accordava pertanto rilevanza sotto diversi profili alla distinzione tra garanzia propria ed impropria. In primo luogo, infatti, secondo giurisprudenza sinora costante, l'art. 32 che prevede la possibilità di effettuare lo spostamento della competenza territoriale nelle cause di garanzia dinanzi al giudice competente per la causa principale si applica soltanto nei casi di garanzia c.d. propria (Cass. n. 8898/2014; Cass., n. 1515/2007). Sotto altro profilo, si riteneva che in caso di chiamata in causa per garanzia impropria, l'azione principale e quella di garanzia sono fondate su titoli diversi, dando luogo a due cause distinte e scindibili, sicché l'impugnazione proposta dal chiamato in garanzia, relativamente al capo della sentenza impugnata recante la sua condanna a manlevare la parte garantita, non consente ad un eventuale coobbligato in solido, estraneo a quel rapporto, di proporre impugnazione incidentale tardiva — ai sensi dell'art. 334 c.p.c. — avverso il capo di sentenza che lo abbia condannato, a propria volta, al risarcimento del danno nei confronti della parte attrice, salvo che dall'impugnazione principale non derivi un suo interesse giuridico ad impugnare, non ravvisabile, tuttavia, nel semplice rischio dell'eventuale insolvenza dell'obbligazione risarcitoria da parte del coobbligato garantito (Cass., n. 9369/2014). In sostanza, nell'ipotesi di garanzia impropria non si riteneva applicabile l'art. 331 c.p.c. quanto all'inscindibilità del cumulo soggettivo nel giudizio di gravame (cfr. Tedoldi, 1197). Tuttavia sulla questione sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, rivedendo la propria giurisprudenza pregressa, ed attribuendo valenza meramente descrittiva alla tradizionale distinzione tra garanzia propria ed impropria, mediante l'affermazione del principio per il quale in caso di chiamata in causa in garanzia dell'assicuratore della responsabilità civile, l'impugnazione — esperita esclusivamente dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale, di affermazione della responsabilità del convenuto e di condanna dello stesso al risarcimento del danno, sia quella di garanzia da costui proposta — giova anche al soggetto assicurato, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, indipendentemente dalla qualificazione della garanzia come propria o impropria, che ha valore puramente descrittivo ed è priva di effetti ai fini dell'applicazione degli artt. 32, 108 e 331 c.p.c., dovendosi comunque ravvisare un'ipotesi di litisconsorzio necessario processuale non solo se il convenuto abbia scelto soltanto di estendere l'efficacia soggettiva, nei confronti del terzo chiamato, dell'accertamento relativo al rapporto principale, ma anche quando abbia, invece, allargato l'oggetto del giudizio, evenienza, quest'ultima, ipotizzabile allorché egli, oltre ad effettuare la chiamata, chieda l'accertamento dell'esistenza del rapporto di garanzia ed, eventualmente, l'attribuzione della relativa prestazione (Cass. S.U., n. 24707/2015, in Riv. dir. proc., 2016, n. 3, 827, con nota di Tiscini ed in Giur. it., 2016, 586, con note di Carratta e di Consolo, Baccaglino, Godio). Analogamente, in dottrina, si era già in precedenza evidenziato, in senso critico rispetto alla giurisprudenza tradizionale che attribuiva rilevanza, quanto alla disciplina processuale, alla distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, che in entrambe le ipotesi tutto ruota intorno al fenomeno della connessione per pregiudizialità-dipendenza, poiché nella garanzia vi è un'azione avente ad oggetto un diritto condizionato nell'esistenza e nell'ammontare al diritto oggetto originario del giudizio (Gambineri, 160 ss.). Peraltro, in una recentissima decisione della S.C. sembra, con riferimento alla competenza per territorio, assumere rinnovata rilevanza la distinzione tra chiamata in garanzia propria ed impropria. In particolare, si è affermato che il terzo chiamato in causa ad istanza del convenuto il quale, ai sensi dell'art. 106 c.p.c., chieda di essere garantito, ma che non abbia proposto alcuna eccezione di incompetenza nei termini e nei modi di legge (come pure nel caso in cui vi sia stato un accordo tra attore e convenuto chiamante in garanzia), non può eccepire l'incompetenza per territorio del giudice davanti al quale è stato chiamato, sia con riferimento alla causa principale (non eccepita dal convenuto) sia con riferimento alla sola causa di garanzia (al fine di impedire il “simultaneus processus” con la causa principale), ove si tratti di garanzia cd. propria, ossia della garanzia del godimento di diritti che si sono trasferiti (garanzia per evizione nella compravendita, nella donazione, nella permuta, nel trasferimento dei crediti) o costituiti (locazione) o di quella che derivi da vincoli di coobbligazione (fideiussione, obbligazioni solidali contratte nell'interesse esclusivo di uno solo dei debitori), che si caratterizzano tutte per una connessione tra la pretesa dell'attore (della causa principale) e la posizione del garante (chiamato in causa) particolarmente intensa (Cass. n. 14476/2017). In altra pronuncia le Sezioni Unite avevano tuttavia confermato la propria rinnovata impostazione anche con riferimento alle problematiche connesse al mandato, evidenziando che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria (Cass. S.U., n. 4909/2016). Chiamata in causa del terzo al quale la causa è comuneLa nozione di «comunanza di causa», alla quale fa riferimento la norma in esame, è molto ampia, comprendendo al suo interno le più diverse ipotesi nelle quali, per motivi di connessione, è opportuna la presenza di un terzo nel processo (Luiso, 2015, 305). La funzione di tale chiamata è di evidente utilità nei casi di connessione particolarmente intensa, ossia qualora il convenuto affermi che il terzo è il vero titolare del diritto in contesa, il vero obbligato o responsabile (Tarzia 2002, 143). In quest'ultima situazione, per esempio, l'attore può essere interessato a chiamare in causa il terzo per evitare, rigettata la domanda in accoglimento dell'eccezione del convenuto che afferma di non essere il vero obbligato, di essere costretto ad instaurare un altro processo nei confronti del soggetto indicato quale vero obbligato dal convenuto, rischiando peraltro di ottenere un nuovo rigetto della propria domanda sull'assunto della responsabilità del primo convenuto (Luiso, 2015, 306 ss.). Diversamente, una volta chiamato in causa, il soggetto indicato dal convenuto quale vero obbligato sarà una parte a tutti gli effetti, con la conseguenza che la sentenza farà stato anche nei suoi confronti e potrà essere idonea ad accertare definitivamente chi è il vero obbligato. Ciò implica, come più volte affermato in giurisprudenza, che nell'ipotesi in cui un convenuto chiami in causa un terzo per ottenere la declaratoria della sua esclusiva responsabilità e la propria liberazione dalla pretesa dell'attore, la causa è unica ed inscindibile, potendo la responsabilità dell'uno comportare l'esclusione di quella dell'altro, ovvero, nel caso di coesistenza di diverse, autonome responsabilità, ponendosi l'una come limite dell'altra, sicché si determina una situazione di litisconsorzio processuale che, pur ove non sia configurabile anche un litisconsorzio di carattere sostanziale, dà luogo alla formazione di un rapporto che, nel giudizio di gravame, soggiace alla disciplina propria delle cause inscindibili (Cass. VI-2, n. 8486/2016). Nel caso di cosiddetto litisconsorzio «alternativo», sussistente allorché il convenuto nel giudizio di danno chiami in causa un terzo, assumendo che questi debba ritenersi in via esclusiva tenuto al risarcimento domandato dall'attore, quest'ultimo deve ritenersi vittorioso tanto se la domanda venga accolta nei confronti del convenuto, quanto se venga accolta nei confronti del chiamato in causa, al quale l'originaria domanda si estende automaticamente: ne consegue che, proposto appello dal chiamato in causa soccombente, il danneggiato non ha l'onere di proporre appello incidentale condizionato per fare dichiarare la responsabilità di uno dei possibili responsabili, per l'ipotesi in cui venisse accolto l'appello proposto dall'altro (Cass. III, n. 3613/2014). È stato recentemente chiarito che nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di risarcimento dei danni, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo, l'atto di chiamata, al di là della formula adottata, va inteso come chiamata del terzo responsabile e non già come chiamata in garanzia «impropria», in quanto, da un lato, tale condotta è logicamente e giuridicamente incompatibile con la qualificazione dell'evocazione del terzo come chiamata in garanzia (la quale, di per sé, non può non presupporre la non contestazione della legittimazione passiva) e, dall'altro, va privilegiata l'effettiva volontà del chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la responsabilità del danno (Cass. I, n. 24294/2016). Peraltro, la distinzione tra chiamata in manleva e chiamata in causa dell'effettivo obbligato (o terzo responsabile) incide anche sulla necessità per l'attore di formulare anch'egli un'espressa domanda nei confronti del terzo. Invero, in accordo con un orientamento pressoché consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità, nell'ipotesi in cui un terzo sia stato chiamato in causa dal convenuto come soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore, la domanda di quest'ultimo si estende automaticamente ad esso senza necessità di una istanza espressa, costituendo oggetto necessario del processo, nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico, l'individuazione del soggetto effettivamente obbligato (cfr. Trib. Modena 3 febbraio 2014, n. 94), mentre analoga estensione non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia, stante l'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo (Cass. n. 8411/2016). In altre e più chiare parole, in caso di chiamata in causa del terzo, questi assume, per effetto della stessa chiamata, la posizione di contraddittore nei confronti della domanda originaria solo se viene chiamato in causa quale soggetto effettivamente e direttamente obbligato (o, in caso di azione risarcitoria, quale unico responsabile del fatto dannoso) e non anche se viene chiamato in causa dal convenuto per esserne garantito: in quest'ultimo caso, se l'attore vuole proporre domanda anche nei confronti del terzo chiamato, deve formulare nei confronti dello stesso una espressa ed autonoma domanda, che può trovare fondamento in fatti anche diversi rispetto a quelli posti a base del rapporto di garanzia, avvalendosi della facoltà disciplinata dall'art. 183, comma 4 (Cass. n. 27525/2009). A riguardo, è stato chiarito che, nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa al terzo anche in mancanza di un'espressa dichiarazione in tal senso dell'attore, in quanto la diversità e pluralità delle condotte produttive dell'evento dannoso non dà luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo non determina il mutamento dell'oggetto della domanda ma evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio (Cass. III, n. 5057/2010). Peraltro, se in giurisprudenza è costante il richiamato principio secondo cui la domanda dell'attore si estende automaticamente al terzo chiamato in causa dal convenuto come soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore, senza necessità di un'espressa istanza, dal momento che il giudizio verte sull'individuazione del responsabile sulla base di un rapporto oggettivamente unico (v., tra le tante, Cass. n. 1522/2006), è tuttavia stato precisato, al contempo, che qualora il convenuto evocato in causa estenda il contraddittorio nei confronti di un terzo assunto come l'effettivo titolare passivo della pretesa dedotta in giudizio dall'attore, se quest'ultimo escluda espressamente la condanna del terzo chiamato in causa qualora riconosciuto come responsabile e si limiti, invece, a chiedere la sola condanna dell'originario convenuto, al giudice, in virtù del principio generale della domanda, è inibito il potere di emettere una statuizione di condanna nei confronti dello stesso terzo e a favore dell'attore, senza che all'attore medesimo sia consentito di estendere successivamente la domanda condannatoria nei riguardi del terzo in appello, perché essa, configurandosi come nuova, incorrerebbe nella preclusione prevista dall'art. 345 c.p.c. (Cass. n. 998/2009). Si precisa, inoltre, che il suddetto principio, non opera, invece, allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come causa petendi e in particolare, ove l'azione dell'attore sia di natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo verso l'attore diverso da quello da lui invocato, al fine non già dell'affermazione della responsabilità diretta ed esclusiva del terzo verso l'attore sulla base del rapporto dedotto dal medesimo, bensì allo scopo di ottenere, sulla base del dedotto diverso rapporto di responsabilità dedotto, il rilievo dalla responsabilità invocata dall'attore con la domanda introduttiva della lite; e in questo secondo caso resta ferma l'autonomia sostanziale dei due rapporti confluiti nello stesso processo (Cass. n. 1748/2005, in Foro it., 2005, I, 2385, con nota di Gambineri, la quale, in un'ipotesi nella quale l'attore, nella qualità di danneggiato, aveva invocato nei confronti di un condominio la responsabilità ex art.2043, 2051 e 2053 c.c. per il danno cagionato dalla caduta di una canna fumaria condominiale, ed il convenuto aveva chiamato in causa ai sensi dell'art. 1669 c.c. il costruttore, il direttore ed il progettista dei lavori per la sua realizzazione, e due di costoro avevano a loro volta chiamato in causa altri tre soggetti indicandoli come direttori dei lavori e collaudatore, ha ritenuto che erroneamente il giudice di merito avesse considerato automaticamente estesa la domanda dell'attore nei confronti dei chiamati ed ha cassato senza rinvio la sentenza sul punto). Modalità processuali della chiamata del terzo in causa
Chiamata ad iniziativa del convenuto L'art. 269, nel testo sostituito a seguito della riforma operata dalla l. n. 353 del 1990, dopo aver disposto, al comma 1, che alla chiamata del terzo ex art. 106 la parte provvede mediante citazione all'udienza fissata dal giudice istruttore nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis, detta una disciplina diversa per il convenuto e per l'attore (Attardi, 109). Più in particolare, il convenuto è tenuto a dichiarare la propria intenzione di chiamare in causa il terzo nella comparsa di risposta depositata, a pena di decadenza, entro venti giorni dalla data fissata per la prima udienza ed a chiedere contestualmente al giudice di differire lo svolgimento di una tale udienza in modo che il terzo possa essere citato in giudizio nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis c.p.c. . La S.C. ha chiarito che, in base al disposto dell'art. 269, secondo comma, c.p.c., il convenuto che intenda chiamare in giudizio un terzo ha l'onere di inserire nella comparsa di risposta sia la formulazione della chiamata che l'istanza di spostamento della prima udienza, sicché incorre nella decadenza prevista dalla medesima di disposizione anche quando provveda solo al primo di tali adempimenti, ma non al secondo (Cass. VI, n. 10579/2013; conf., tra le molte, Trib. Bari IV, 8 aprile 2008, n. 892). In sede applicativa si è evidenziato che se a seguito dell'istanza di chiamata in causa di terzo tempestivamente proposta dalla convenuta, il giudice istruttore concede (implicitamente) alla stessa un termine per tale chiamata attraverso l'indicazione dell'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 269 comma 2, c.p.c., detto termine si qualifica come termine ordinatorio; pur tuttavia l'inosservanza dei termini ordinatori non è priva di effetti giuridici atteso che, ai sensi dell'art. 154 c.p.c. il rimedio per ovviare alla loro scadenza è quello della proroga prima del verificarsi di essa. Pertanto, il decorso dei termini ordinatori senza la previa presentazione di un'istanza di proroga ha gli stessi effetti preclusivi della scadenza dei termini perentori ed impedisce la concessione di un nuovo termine per svolgere la medesima, salva in ogni caso la sussistenza dei presupposti per l'istanza di remissione in termini (Trib. Milano X, 15 marzo 2011). Maggiori dubbi sono state manifestati con riferimento alla sussistenza della possibilità per il convenuto, qualora sia nei termini di cui all'art. 163-bis c.p.c., di citare direttamente il terzo in giudizio, senza effettuare l'apposita istanza al giudice. Per alcuni, tale possibilità, pur nel silenzio del legislatore sul punto, può sussistere, in quanto discende direttamente dalla richiamata premessa, cioè a dire dall'assenza di un potere discrezionale del giudice rispetto alla tempestiva decisione del convenuto di chiamare in causa un terzo (Capponi (-Vaccarella – Cecchella), 136). La decadenza per inosservanza dei termini per la chiamata in causa del terzo, sancita per la funzionalità del processo, è rilevabile d'ufficio, anche in appello (Cass. II, n. 10610/2014, la quale ha ritenuto, di conseguenza, che l'eccezione di tardività, quale eccezione in senso improprio, può essere sollevata per la prima volta in appello). Il terzo, chiamato in causa su istanza di parte, non può eccepire l'irritualità della stessa per mancata osservanza delle prescrizioni stabilite dall'art. 269, secondo comma, essendo al riguardo carente di interesse, atteso che il suo interesse a far valere questioni relative al rapporto processuale originario è correlato esclusivamente alla correttezza della decisione in merito o in rito su di esso e non anche alla stessa ritualità della chiamata in giudizio (Cass. VI, n. 10579/2013). Si ritiene comunemente, almeno in dottrina, che il giudice non abbia alcun potere discrezionale in ordine alla decisione di chiamare in causa il terzo e, pertanto, che non possa negare la stessa (Capponi (- Vaccarella – Cecchella), 136). Non si può trascurare a riguardo che la stessa Corte Costituzionale (Corte cost., n. 80/1997), investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede, diversamente da quanto previsto per l'attore, la necessità di alcuna autorizzazione per la chiamata in causa ad istanza del convenuto, ha ritenuto infondata la questione prospettata dinanzi a sé, chiarendo che l'insindacabile facoltà per il convenuto di estendere l'ambito soggettivo del processo si riconnette alla circostanza che l'attore per primo ha la facoltà di convenire in giudizio qualunque soggetto, senza limitazioni di sorta, di talché le parti sarebbero in una condizione di perfetta parità. Peraltro, a riguardo non può trascurarsi che nella più recente giurisprudenza di legittimità è stato posto in dubbio che il giudice sia sempre tenuto a differire la prima udienza ove il convenuto richieda di chiamare un terzo e ciò in virtù del principio di ragionevole durata del processo (Cass. S.U., n. 4309/2010). In particolare, in accordo con l'orientamento ormai costante della S.C., in tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, sicché, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo ex art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo (Cass. III, n. 9570/2015; v., in sede applicativa, Trib. Arezzo, 24 settembre 2015, n. 1042, in dejure.giuffre.it). Il provvedimento di diniego, quindi, non può essere oggetto di censura con appello o ricorso per cassazione, stante la discrezionalità dell'autorizzazione (Cass. I, n. 7406/2014). È stato precisato, peraltro, che in materia di chiamata in causa ad istanza di parte, qualora sia stata proposta dal convenuto, a tale scopo, tempestiva richiesta di differimento della prima udienza di trattazione, l'eventuale provvedimento di rigetto può essere revocato (anche implicitamente) dallo stesso giudice, o da altro avanti al quale la causa sia stata riassunta a seguito di declinatoria di competenza ad opera del primo, sempreché ciò avvenga anteriormente all'esaurimento della fase della prima udienza di trattazione (Cass., n. 21462/2016). Nell'ipotesi in cui sia stata implicitamente autorizzata la chiamata in causa mediante differimento da parte del giudice adito dell'udienza di comparizione, di regola la chiamata viene effettuata notificando al terzo un atto di citazione che riproduce la vicenda processuale e l'atto difensivo della parte che effettua la chiamata stessa. Peraltro, la S.C. ha ritenuto, in omaggio al generale principio della strumentalità delle forme, che la chiamata del terzo in garanzia può avvenire anche tramite la comunicazione della comparsa di costituzione, ad opera della parte costituita in giudizio nelle forme dell'art. 170 c.p.c., dato che quest'ultima è idoneo a consentire al destinatario della domanda di apprestare le idonee difese (Cass. III, n. 23088/2010). Chiamata da parte dell'attore L'attore può invece chiamare in causa un terzo soltanto ove una tale esigenza sia sorta in virtù delle difese spiegate dal convenuto (in tal senso v. anche, in sede di merito, Trib. Roma 15 novembre 1996, in Banca borsa tit. cred., 1998, II, 197, secondo la quale la disciplina processuale introdotta dalla riforma, operata dalla l. n. 353 del 1990, agli artt. 183, comma 4, e 269, comma 3, c.p.c. preclude all'attore la possibilità di chiamare in causa un terzo a meno che la necessità della chiamata non scaturisca dalle difese del convenuto oppure si tratti di litisconsorzio necessario). A ciò consegue, come evidenziato in dottrina, che in questo caso la chiamata in causa deve essere autorizzata dal giudice, il quale dovrà valutare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 106 c.p.c., nonché del «nesso genetico» tra l'interesse dell'attore alla chiamata del terzo e le difese svolte dal convenuto (Balena, 248). A tal proposito si è sottolineato che tale nesso sussiste nell'ipotesi in cui l'esigenza di chiamare in causa il terzo si ricolleghi ad una circostanza dedotta dal convenuto a fondamento di una sua eccezione nei confronti dell'attore, di talché non sarà sufficiente che si tratti di una circostanza cui pure il convenuto faccia riferimento nella comparsa di risposta, ma priva di rilievo, in sé, per l'accoglimento o il rigetto della domanda dello stesso attore (v., con varie esemplificazioni, Attardi, 109). Tale nesso genetico (Tarzia, 143) può derivare, innanzitutto, da una contestazione della propria legittimazione passiva da parte del convenuto ovvero della titolarità del diritto fatto valere in giudizio in capo allo stesso attore. Infine dalle difese del convenuto potrebbe sorgere l'interesse dell'attore a proporre una domanda in garanzia. Quest'impostazione trova conferma anche nella giurisprudenza di legittimità: si è, ad esempio, ritenuto che nel giudizio di impugnazione della deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo solo se la relativa esigenza è sorta in conseguenza delle difese della parte convenuta (Cass. I, n. 16617/2016). Proprio l'istanza di chiamata in causa del terzo proveniente dall'attore, regolata dai commi 3 e 5 dell'art. 269, è quella che ha determinato maggiori problemi interpretativi a seguito della riforma realizzata dalla l. n. 353 del 1990, della c.d. controriforma di cui alla l. n. 534 del 1995, nonché dopo la novella di cui alla legge n. 80 del 2005. Sul punto occorre evidenziare che, soprattutto dopo la c.d. controriforma del 1995, si è sviluppato un dibattito avente ad oggetto il termine ultimo entro il quale l'attore può domandare al giudice di essere autorizzato a chiamare in causa il terzo (cfr. Marelli, 334). Infatti, ai sensi dell'art. 269, comma 3, c.p.c. l'attore deve, a pena di decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo entro la «prima udienza». La norma, nonostante la necessaria distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione introdotta dalla controriforma del 1995, non è mai stata modificata. Secondo una posizione rigorosa, nel nuovo sistema l'attore sarebbe stato tenuto a chiedere l'autorizzazione in questione entro l'udienza di prima comparizione (Cass., n. 6092/2000). Si è posta tuttavia l'esigenza di un'interpretazione non letterale della locuzione «prima udienza» di cui al comma 3 dell'art. 183 in quanto il convenuto potrebbe, avvalendosi della facoltà concessa dall'art. 171, costituirsi direttamente in udienza o, comunque, spiegare solo alla prima udienza del difese dalle quali deriva l'interesse dell'attore a chiamare in causa il terzo (Balena 249). Pertanto, in sede applicativa, si è ritenuto che l'udienza oltre la quale l'attore decade dal potere di chiamare in causa il terzo è in ogni caso la prima udienza di trattazione e non quella di prima comparizione (cfr. Trib. Terni 29 novembre 1999, in Foro it., 2002, I, 642 ed in Giur. it., 2001, 1879, con nota di Socci). In dottrina si è pertanto affermato, in una prospettiva più elastica che prescinde dalla lettera del comma 3 dell'art. 269, che l'attore potrebbe chiedere al giudice l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo in tutte le ipotesi in cui una tale esigenza derivi dalle difese non precluse spiegate dal convenuto (v., tra gli altri, Capponi, 138). Si è, d'altra parte, acutamente sottolineato che ai medesimi risultati di un'interpretazione non assoluta della locuzione in esame si perverrebbe applicando la rimessione in termini (Balena, 248). Una diversa interpretazione porterebbe invero alla contraddizione di consentire alle preclusioni di «strangolare» il processo nonché a quella di ritenere una parte decaduta dall'esercizio di un certo potere processuale prima che lo stesso sia sorto (Luiso, 238-239). È tuttavia necessario coordinare il comma 3 dell'art. 269 con la riforma delle preclusioni del processo di cognizione ordinario in primo grado operata dalla l. n. 80 del 2005, di conversione del c.d. decretone competitività. Infatti in un ritorno, almeno sotto tale aspetto, a quello che era il sistema delineato originariamente dalla l. n. 353 del 1990, è stata eliminata la distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione, dovuta alla c.d. controriforma del 1995, mossa dalla volontà di tutelare maggiormente la posizione del convenuto. Il che fa venir meno qualsivoglia dubbio in ordine alla «prima udienza» nella quale, stando alla lettera del comma 3 dell'art. 269 c.p.c., l'attore deve, a pena di decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo, ma non risolve il maggior problema che, come si è detto, è posto da una tale disposizione, cioè a dire quello legato alla paradossale situazione che si determina ogni qual volta l'interesse dell'attore alla partecipazione del terzo al processo sorge successivamente poiché il convenuto si difende in un certo senso soltanto in un dato momento. Probabilmente l'unica soluzione offerta dall'ordinamento in simili casi, posta l'evidente iniquità del sistema, è quella della rimessione in termini (Balena, 248). Sempre con riferimento all'intervento su istanza dell'attore, occorre considerare anche il quinto comma dell'art. 269 c.p.c., disposizione che cerca di risolvere i problemi derivanti, in questo caso, dallo «sdoppiamento» della prima udienza per alcuni dei soggetti che partecipano al giudizio (Marelli, 336). La norma è stata modificata dall'art. 2, n. 1, lett. p, l. 28 dicembre 2005, n. 263, al fine di un necessario coordinamento con la riforma avente ad oggetto gli artt. 180, 183 e 184 c.p.c. realizzata dalla l. n. 80 del 2005 e «corretta» dalla stessa l. n. 263 del 2005. Tale modifica si riconnette all'esigenza di coordinare il testo della suddetta disposizione con la più generale riforma in tema di preclusioni e, nella specie, con l'attuale necessità di chiedere i termini per le istanze istruttorie sin dall'udienza ex art. 183 c.p.c. e non più alla successiva udienza di cui all'art. 184 c.p.c. Nella prima parte la disposizione chiarisce che «per le parti originarie restano ferme le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione». Ne deriva, pertanto, che la chiamata in causa del terzo non costituisce un motivo di remissione in termini per le attività già precluse nel rapporto tra le parti originarie (Tarzia 148). Tale assunto è stato oggetto di una vivace critica già in sede di primo commento alla novella realizzata dalla l. n. 353 del 1990. Si era a riguardo evidenziata, infatti, la sussistenza di una palese incongruità del sistema complessivo [Capponi (-Vaccarella – Cecchella), 139] poiché, nell'ipotesi di chiamata in causa ad istanza del convenuto, scattano per le parti costituite meramente le preclusioni riconnesse al deposito degli atti introduttivi, mentre nel caso di chiamata ad opera dell'attore restano, per l'appunto, ferme per le stesse le preclusioni maturate sino a quel momento. Ciò potrebbe implicare che all'atto della costituzione in giudizio del terzo i «giochi» sono già irrimediabilmente chiusi per le parti originarie. Si era, poi, affermato, sulla base delle suddette considerazioni, che il descritto sistema, per evitare censure di incostituzionalità ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., avrebbe dovuto funzionare nel modo seguente: a prescindere dalla lettera della norma si sarebbe dovuto invero ritenere il giudice obbligato, a seguito dell'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo ad opera dell'attore, a rinviare la prima udienza, con salvezza delle posizioni delle parti costituite ovvero almeno privo di discrezionalità quanto alla concessione, nella fattispecie, dei termini c.d. eventuali di cui all'art. 183 c.p.c. [Capponi (-Vaccarella – Cecchella), 140]. Una limitata possibilità per le parti originarie di replicare alle affermazioni del terzo è comunque riconosciuta poiché all'udienza di comparizione del terzo le parti possono chiedere al giudice istruttore la concessione dei termini eventuali dell'odierno sesto comma dell'art. 183 c.p.c. Proprio alla luce di tale possibilità può essere percorribile anche de jure condito la seconda strada [Capponi (-Vaccarella – Cecchella], 140) in ipotesi idonea ad evitare l'incostituzionalità del sistema delineato dall'art. 269 c.p.c., i.e. quella tesa a negare una discrezionalità del giudice nella concessione dei termini eventuali di cui all'art. 183, sesto comma, c.p.c. all'udienza di comparizione del terzo. Né una siffatta conclusione, alla luce del concreto enjeu, potrebbe essere posta in dubbio da quella dottrina che, in sede di primo commento alle modifiche apportate al sistema delle preclusioni dalla l. n. 80 del 2005, ha sostenuto, con riguardo più generale alla c.d. appendice scritta dell'udienza di trattazione, che il giudice potrebbe negare la concessione dei relativi termini, al fine di garantire la ragionevole durata del processo, almeno ove ravvisi che non sussistano le esigenze alla base delle richieste di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni. In effetti nella fattispecie in discussione si ritiene che senza dubbio sussistono tali esigenze anche perché occorre tenere presente che la ragionevole durata del processo, seppur assurta secondo la medesima Corte costituzionale a criterio — guida per l'interpretazione delle disposizioni che regolano lo svolgimento del processo, non può portare ad un totale misconoscimento del diritto di difesa (cfr. Corte cost., n. 78/2002). Peraltro, la S.C. ha affermato costantemente il principio per il quale la chiamata in causa di un terzo non può essere autorizzata dal giudice, dopo la prima udienza, neanche se l'interesse della parte a ottenere la partecipazione del terzo nel giudizio sia sorto nel corso dello svolgimento del processo e a seguito della difesa avversaria e dell'istruttoria espletata (Cass. III, n. 28061/2008). A riguardo, si è invero osservato che in tema di intervento nel processo di un terzo su istanza di parte, ai sensi dell'art. 106 c.p.c., rientra nei poteri discrezionali del giudice istruttore autorizzare o non autorizzare la chiamata in causa, ma non anche autorizzare la chiamata tardiva e imporre al terzo chiamato di accettare il contraddittorio nello stato in cui la controversia si trova, così ledendone il diritto di difesa, sicché, se il terzo non presti adesione a tale stato ed eccepisca in via principale l'irritualità della chiamata difendendosi nel merito solo in via subordinata, le disposizioni sulle modalità e i termini della chiamata in causa di un terzo di cui agli art. 167 e 269 c.p.c. non sono suscettibili di deroga (Cass. III, n. 10682/2008). In senso meno rigido, si è talvolta ritenuto, in sede applicativa, che il potere dell'attore di introdurre nuove domande o di chiamare altre parti in causa può essere esercitato solo entro il termine della prima udienza di trattazione (o dell'ulteriore udienza eventualmente fissata a norma dell'art, 183, commi 2 e 3, c.p.c.), dovendosi intendere le memorie di cui alla cd. appendice scritta: — la prima — riservata alle sole attività descritte dall'ultimo periodo dell'art, 183, comma 5, c.p.c. — la seconda — assegnata alla replica “alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte”, alla proposizione delle “eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime”, all'“indicazione dei mezzi di prova” e alle “produzioni documentali”. In tal modo verrebbe realizzata la definitiva determinazione delle parti processuali (salve le ipotesi di intervento) e delle domande proposte entro la chiusura della prima udienza; del resto, quando il giudice autorizza l'attore a citare un terzo, assegna i termini ex art, 183, comma 6, c.p.c. solo all'udienza stabilita per la comparizione di quest'ultimo (art, 269, comma ult., c.p.c.). Peraltro, la previsione di una barriera preclusiva di tal fatta — operante anche qualora il convenuto si costituisca in udienza “sorprendendo” l'attore non in contrasto con il diritto di difesa dell'attore, poiché il g.i. potrà sempre consentirgli l'effettiva possibilità di esaminare — senza incorrere in decadenze — quanto allegato, prodotto, eccepito in udienza dal convenuto, se necessario differendo la trattazione (Trib. Milano V, 24 luglio 2008, n. 9761). Chiamata in causa del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo In dottrina come nella giurisprudenza, soprattutto di merito, si è sviluppato un vivace, dibattito in ordine alle modalità mediante le quali deve essere formulata la chiamata in causa del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. La problematica si correla alla circostanza che nel procedimento promosso con la proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo si realizza un'inversione formale della posizione sostanziale delle parti poiché l'opponente, pur formalmente attore, è in realtà, quanto all'onere della prova, sostanzialmente convenuto, dal momento che ha l'onere di dimostrare l'infondatezza della pretesa creditoria dell'opposto deducendo l'esistenza di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi rispetto ad essa. Ciò comporta, con riguardo alla posizione dell'opposto che, quest'ultimo, sebbene sia formalmente convenuto, abbia in concreto l'onere di dimostrare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto affermato con l'instaurazione del procedimento monitorio (v., tra le molte, Cass. n. 13086/2007). Il problema è se i richiamati principi, consolidati con riguardo al riparto dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. tra le parti del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, trovino applicazione anche in ordine all'esercizio dei poteri processuali delle stesse ed alle relative preclusioni. Più specificamente, si tratta di valutare quali siano le modalità mediante le quali è possibile per l'opponente chiamare in causa terzi cui ritiene il giudizio comune o dai quali, come sovente avviene nella prassi, pretende di essere garantito. Infatti differenti sono le previsioni a tal fine dettate rispettivamente dal secondo e dal terzo comma dell'art. 269 c.p.c. a seconda che l'opponente venga in questo caso equiparato al convenuto ovvero all'attore, poiché soltanto per quest'ultimo è necessario che la chiamata venga autorizzata dal giudice sulla scorta di un nesso genetico tra le difese spiegate dal convenuto e l'esigenza di effettuare la chiamata del terzo. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità, è stato affermato il principio per il quale in tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell'opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore, l'opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo nell'ambito dell'onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine processuale rispettivamente previsti per ciascuna delle due parti. Ne consegue, secondo l'impostazione della S.C., che il disposto dell'art. 269 c.p.c., che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con il procedimento instaurato tramite l'opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento, non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta, così che l'opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell'udienza, nonché quella di notificare l'opposizione a soggetto diverso dal creditore procedente in ingiunzione) deve necessariamente chiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa sulla base dell'esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo (Cass., n. 22311/2015; Cass., n. 1185/2003, in Giust. Civ., 2003, I, 2399, con nota di Santangeli; Cass., n. 8718/2000; conf., tra le tante, App. Palermo II, 15 marzo 2016, n. 477). L'impostazione suffragata nella giurisprudenza di legittimità è condivisa da una parte della giurisprudenza di merito la quale ritiene inapplicabile in sé e per sé il disposto dell'art. 269 c.p.c. anche all'opposizione a decreto ingiuntivo in quanto l'opponente, pur sostanzialmente convenuto, è comunque tenuto a chiedere al giudice, a pena di decadenza nell'atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo perché non si potrebbe direttamente estendere il giudizio nei confronti di un soggetto il quale non ha partecipato alla pregressa fase monitoria (v., ex ceteris, Trib. Modena, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 100; Trib. Massa 13 ottobre 2015, n. 1051; App. Roma, sez. II, 10 gennaio 2008, in Guida al dir., 2008, n. 17, 68; Trib. Mantova 14 febbraio 2005, in Giur. Merito, 2006, n. 2, 351; Trib. Napoli 13 ottobre 2004, ivi, 2005, n. 4, 811; App. Milano 22 dicembre 2004, ivi, 2006, n. 2, 352 Trib. Locri 29 ottobre 2001, ivi, 2002, 71). Appaiono tuttavia controverse, in giurisprudenza, nell'ambito della prima posizione richiamata, le conseguenze dell'omessa tempestiva richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa del terzo.Invero, secondo un primo orientamento, che appare minoritario, la chiamata in giudizio di un terzo, da parte dell'opponente a decreto ingiuntivo, con citazione diretta per la prima udienza di comparizione, anziché previa autorizzazione del giudice è lesiva dei soli interessi del terzo chiamato, unico soggetto legittimato a far valere la relativa nullità, secondo il disposto dell'art. 157, comma 2, c.p.c., mediante eccezione che deve essere proposta nella prima udienza successiva all'atto e, quindi, nell'atto di costituzione in giudizio del terzo (Cass. I, n. 883/2015; Cass. II, n. 21355/2014). È dominante, per vero, la distinta impostazione per la quale, in mancanza di autorizzazione del giudice, la chiamata del terzo in causa risulta viziata: detto vizio è rilevabile d'ufficio e non è sanato dall'eventuale costituzione in giudizio del terzo chiamato, non rientrando nella disponibilità delle parti, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, chiamare un terzo in giudizio senza l'autorizzazione del giudice (Cass. III, n. 23174/2014). Secondo un altro orientamento, per converso, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, l'attore-opponente, rivestendo la posizione di attore in senso formale e di convenuto in senso sostanziale, qualora intenda chiamare in causa un soggetto diverso dal ricorrente in fase monitoria e convenuto-opposto, deve farlo, a pena di decadenza, citandolo direttamente per la prima udienza insieme al convenuto-opposto, nel rispetto dei termini per comparire, senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice, non essendovi alcuna norma che vieti all'opponente di evocare nel giudizio, quali convenuti in senso formale, soggetti diversi ed ulteriori rispetto alla parte che ha richiesto ed ottenuto l'ingiunzione, salvo il caso in cui l'interesse dell'attore-opponente alla chiamata in causa sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto-opposto nella comparsa di risposta (cfr. Trib. Reggio Calabria II, 22 gennaio 2005). Analogamente è stato evidenziato, in senso critico alla posizione assunta dalla S.C., che tale orientamento sembra giungere ad una conclusione, circa le modalità di chiamata in giudizio del terzo da parte dell'opponente, sostanzialmente e processualmente convenuta, non in linea con le sue stesse premesse poiché l'orientamento della Corte di Cassazione parte dalla premessa che la parte opponente ha i poteri processuali propri del convenuto essendo stata proposta domanda giudiziale nei suoi confronti con il deposito del ricorso per ingiunzione che costituisce atto di esercizio dell'azione, ma perviene alla contraddittoria. conclusione secondo cui per chiamare in causa il terzo l'opponente (convenuto sostanziale e processuale) deve chiedere l'autorizzazione al giudice. In realtà, l'art. 269 comma secondo c.p.c. prevede che il convenuto possa sempre, purché si costituisca tempestivamente, chiamare in causa il terzo, senza la necessità di alcuna autorizzazione del giudice ma solo con la richiesta dello spostamento della data della prima udienza al fine di poter, nei termini di legge per la comparizione, notificare al terzo l'atto di citazione, talché il giudice adito non ha alcun potere discrezionale, sul presupposto della sua tempestiva costituzione in giudizio, sulla chiamata del terzo da parte del convenuto, attività che rientra insindacabilmente nei poteri di questa parte che si sia costituita nei termini. Diversamente, nell'ipotesi in cui l'iniziativa sia dell'attore, il giudice valuta e, se la ritiene fondata e/o opportuna, concede a tale parte l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo (ex art. 269 comma terzo c.p.c.). La diversità dei poteri del giudice rispetto all'iniziativa della chiamata in giudizio del terzo dell'attore e del convenuto emerge dalla lettera dell'art. 269 c.p.c. che prevede, con riferimento al convenuto che intende chiamare in giudizio il terzo, la presentazione dell'istanza al giudice per lo spostamento della data della prima udienza e, con riferimento all'attore, la presentazione della richiesta al giudice di autorizzazione alla chiamata del terzo; la lettera della norma evidenzia in tal modo le diverse facoltà delle parti circa la chiamata in causa di un terzo e i diversi poteri del giudice: il convenuto può se si costituisce nei termini chiamare il terzo senza bisogno di autorizzazione alcuna; l'attore invece deve essere autorizzato dal giudice che a ciò provvede verificata la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 183 comma 4 e 269 comma 3 c.p.c. In questo sistema e data la premessa della Corte di legittimità, l'opponente/convenuto deve procedere con le stesse modalità previste dall'art. 269 comma secondo c.p.c. per la chiamata in giudizio del terzo — con atto di citazione nei termini di cui all'art. 163-bis c.p.c.- e, quindi, con lo stesso atto di opposizione omettendo la sola formalità della richiesta di differimento della data della prima udienza che nel meccanismo di inizio del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (su iniziativa del medesimo opponente/convenuto con atto di citazione a udienza fissa) non ha alcun senso e necessità in quanto è lo stesso opponente che fissa, quando crede, nell'atto di citazione la data dell'udienza (Trib. Milano 16 febbraio 2006, in Giur. Merito, 2006, n. 10, 2177). Maggiore coesione sussiste in giurisprudenza anche con riferimento alla distinta questione delle modalità processuali per la chiamata in causa dei terzi ad istanza dell'opposto, attore in senso sostanziale, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo. Consolidato è invero l'orientamento, confermato di recente dalla quinta massima in rassegna, in virtù del quale la qualità di attore in senso sostanziale dell'opposto implica che la chiamata del terzo da parte dell'opposto deve essere formulata entro la prima udienza di trattazione, ai sensi degli artt. 183 e 269 c.p.c. e deve intendersi subordinata, altresì, alla valutazione discrezionale da parte del giudice istruttore prevista dall'art. 183 comma quarto c.p.c., dovendo il giudice verificare che l'esigenza dell'estensione del contraddittorio al terzo sia derivata effettivamente dalle difese dell'opponente (convenuto in senso sostanziale). La richiesta dell'opposto deve essere esaminata in prima udienza, nel contraddittorio delle parti e risultare dipendente dalle difese dell'opponente e sia oggetto di valutazione discrezionale del giudice (cfr., tra le altre, Trib. Trani 27 aprile 2005; Trib. Torino 29 marzo 2005; Trib. Verona 19 aprile 2003, in Giur. Merito, 2003, 2375, con nota di Menichelli). Chiamata in causa del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo Nel procedimento dinanzi al giudice di pace non vi è una distinzione, come noto, tra udienza di comparizione ed udienza di trattazione. Rispetto ai termini per la chiamata in causa del terzo, posto che non vi è un onere per il convenuto, anche al fine di proporre le eccezioni c.d. in senso stretto, di costituirsi prima dell'udienza in questione, la S.C. ha chiarito che nel procedimento davanti al giudice di pace, il convenuto che intende chiamare in causa un terzo ha l'onere di costituirsi nel termine di rito e presentare a pena di decadenza nell'atto di costituzione la richiesta di autorizzazione alla chiamata del terzo e di spostamento della data della prima udienza. Peraltro, se il convenuto si costituisce direttamente in udienza e la chiamata del terzo è resa necessaria dalle attività svolte dalle parti nella stessa udienza, il giudice dovrà comunque concedere la predetta autorizzazione e fissare una nuova udienza (Cass. III, n. 4034/2013). Tuttavia, al di fuori di dette situazioni processuali al convenuto non è consentito di invocare la chiamata in causa di un terzo all'udienza successiva alla prima che eventualmente venga celebrata, ostandovi la struttura concentrata e tendenzialmente completa dell'udienza prevista dall'art. 320 c.p.c., tesa a compendiare le fasi di trattazione preliminare, istruttoria e conclusiva (Cass. III, n. 9350/2008). In sede applicativa si è osservato che nel processo innanzi al giudice di pace, ai sensi dell'art. 320 c.p.c. — che non distingue tra udienza di prima comparizione e udienza di prima trattazione — tutta l'attività delle parti, quali la precisazione dei fatti, la produzione dei documenti e le richieste istruttorie, è concentrata nella prima udienza, ed è consentito (ai sensi del comma 4 della disposizione in esame) il rinvio a successiva udienza solamente quando, in relazione all'attività svolta, e dunque in conseguenza di un ampliamento del “thema decidendum”, derivante da eccezioni in senso proprio — non proposte nel caso di specie — risultino necessarie ulteriori produzioni o richieste di prova. Ne consegue che all'udienza che venga tenuta successivamente alla prima, rimangono precluse la proposizione di domanda riconvenzionale, la chiamata in causa di terzo, nonché le richieste di prova la necessità delle quali non derivi dalla proposizione di eccezioni in senso proprio. Le suindicate preclusioni processuali non sono derogabili nemmeno da parte del giudice di pace, che non può rinviare la prima udienza al fine di consentire alle parti l'espletamento di attività precluse, trovando tale sistema fondamento e ragione nell'esigenza di garantire la celerità e la concentrazione dei procedimenti civili, a tutela non solo dell'interesse del singolo ma anche di quello della collettività (Giudice di pace Bari, 12 gennaio 2011, n. 178). Costituzione in giudizio e poteri processuali del terzo chiamatoIl terzo chiamato in causa si costituisce in giudizio alla medesima stregua del convenuto, ossia con comparsa di costituzione e risposta da depositarsi, al fine di proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio dal giudice, entro venti giorni prima dell'udienza di comparizione. Invero, ai sensi dell'art. 271 c.p.c., è previsto che al terzo si applichino le disposizioni degli art. 166 e 167, comma 1, senza fare menzione dell'art. 167, comma 2, che impone al convenuto di proporre a pena di decadenza le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio: tuttavia, con una pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 260/1997), è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 271 c.p.c. proprio nella parte in cui non prevede l'applicabilità, al terzo chiamato in causa, del comma 2 dell'art. 167 c.p.c. In conclusione, le eccezioni non rilevabili d'ufficio devono dichiararsi tardive ove non risultino tempestivamente sollevate dal terzo chiamato in causa (in sede applicativa cfr. Trib. Bassano del Grappa, 28 settembre 2011, n. 635, in dejure.giuffre.it; Trib. Torino, 6 marzo 2001, in Giur. Merito, 2002, 80). In ordine ai poteri processuali del terzo che interviene nel giudizio su istanza di parte, occorre operare una distinzione tra l'ipotesi di chiamata non innovativa rispetto all'oggetto del giudizio vertente tra le parti originarie, nella quale il terzo ha poteri analoghi all'interveniente adesivo dipendente, da quella della chiamata innovativa con riferimento alla quale il terzo ha i poteri di un interveniente adesivo autonomo (Luiso I, 344 ss.). Rispetto alla causa principale, poi, il terzo ha poteri di allegazione ed istruttori ma non ha invece poteri dispositivi, i.e. non può confessare, né deferire giuramento sul rapporto principale (Luiso I, 348). Il comma 1, secondo periodo, dell'art. 271 c.p.c. prevede che il terzo chiamato in causa, se intende chiamare a sua volta in causa un terzo, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai sensi del comma 3 dell'art. 269 c.p.c., norma che subordina la chiamata in causa del terzo su richiesta dell'attore ad un'autorizzazione del giudice fondata sul nesso genetico tra l'esigenza della richiesta chiamata in causa e le difese svolte dal convenuto. In tale prospettiva, si è affermato che se ai sensi dell'art. 269 c.p.c. sussiste una sorta di diritto alla chiamata in causa ex art 269 c.p.c. in capo al solo convenuto, la posizione del terzo chiamato, in ordine ad un'ulteriore chiamata, è invece equiparata, dall'art. 271 c.p.c., a quella dell'attore e rimessa, quindi, all'apprezzamento del giudice (Trib. Genova, 14 novembre 2011, in Giur. Merito, 2012, n. 1, 93). Peraltro, in senso difforme,un'altra pronuncia di merito edita aveva evidenziato che l'interpretazione logico sistematica dell'art. 269 comma 2 c.p.c. induce a ritenere tale norma estensivamente applicabile anche nel caso in cui il terzo chiamato intenda chiamare in causa a sua volta un terzo, sorgendo altrimenti forti dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa in questione, sotto il profilo della disparità di trattamento tra le varie parti processuali, in ordine alla possibilità di esplicazione delle rispettive difese (Trib. Milano 29 gennaio 1997, in Giur. it., 1998, 1635). Occorre ricordare che, peraltro, una recente decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha posto in discussione la stessa interpretazione tradizionale del secondo co. dell'art. 269 c.p.c. in tema di richiesta di chiamata in causa del terzo ad istanza del convenuto affermando che il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo nel processo chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell'art. 269 c.p.c., al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale, potendo il giudice rifiutare di fissare una nuova prima udienza per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo (Cass. S.U., 23 febbraio 2010, n. 4309, in Foro it., 2010, I, 1775, con note di Caponi, Dalfino, Proto Pisani, Scarselli). Statuizione sulle speseSecondo l'orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza, la lata accezione con cui il termine soccombenza è assunto nell'art. 91 c.p.c., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda (Cass., n. 2492/2016), mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (v., tra le altre, Cass. n. 25541/2015, la quale ha precisato, in particolare, che le spese del giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità che governa la regolamentazione delle spese di lite). Più di recente si è precisato, sulla questione, che la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità del principio della soccombenza nel rapporto processuale instaurato tra convenuto e terzo chiamato, anche quando l'attore principale sia a sua volta soccombente nei confronti del convenuto, atteso che il convenuto chiamante sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale (Cass. n. 10070/2017). Nel ribadire che il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto opera solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa dell'attore, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione ad un unico rapporto, mentre non opera in caso di chiamata in garanzia impropria, attesa l'autonomia dei rapporti, la S.C. ha evidenziato che, anche in caso di rapporto oggettivamente unico, la presunzione su cui si fonda il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al terzo chiamato (ossia che l'attore voglia la condanna del chiamato, pur avendo agito nei confronti del solo convenuto) non può operare se l'attore escluda espressamente che la propria domanda sia stata proposta nei confronti del terzo chiamato (Cass. II, n. 8411/2016). In senso analogo, si è precisato, inoltre, che in sede di regolamentazione delle spese in caso di rinuncia agli atti del giudizio, il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore rinunciante, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda (Cass. II, n. 25781/2013). È minoritaria, invece, la tesi affermata da una parte della giurisprudenza di merito per la quale sebbene non sia revocabile in dubbio che la domanda di autorizzazione a chiamare in causa le proprie compagnie di assicurazione sia stata proposta dal convenuto ed autorizzata dal Giudice come forma di difesa in ragione dell'azione nei suoi confronti dall'attore proposta, non si vede come la domanda di manleva non possa non costituire una sorta di difesa per cui l'accertata non fondatezza della domanda espone l'attore a tutte le forme di risarcimento connesse con la propria azione dimostratasi infondata, ivi compresa la forma di risarcimento del ristoro delle spese processuali sopportate per la difesa. Nell'ambito di dette spese processuali sopportate per la propria difesa dal convenuto rientrano di certo le spese per la chiamata in causa della compagnia di assicurazione, spese che è giusto addebitare all'autore della azione proposta e dimostratasi infondata o direttamente con pagamento dell'importo a favore del convenuto o indirettamente con il pagamento degli importi a favore degli enti assicurativi (App. Milano, sez. I, 13 maggio 2006 n. 1170, in Giust. Milano, 2006, n. 7, 51). Diversamente, in tema di spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta rigettata la domanda principale, il relativo onere va posto a carico della parte soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, in applicazione del principio di causalità, e ciò anche se l'attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo (Cass. VI, n. 2492/2016). Tuttavia, sebbene sia dominante il già richiamato principio per il quale attesa la lata accezione con cui il termine «soccombenza» è assunto nell'art. 91 c.p.c., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, la S.C. ha evidenziato che il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 12301/2005). Tale situazione si verifica, ad es., nell'ipotesi in cui il diritto dell'assicurato-convenuto nei confronti dell'assicuratore-terzo chiamato sia prescritto (Cass. n. 8363/2010). Diversamente, se è accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo, il giudice non può limitarsi a condannare questi al pagamento di quanto dal primo dovuto all'attore anche per spese processuali, dovendo invece liquidare anche le spese occorse per la chiamata in causa (Cass. n. 8166/1997). Sotto altro profilo, è stato recentemente precisato che l'assicuratore della responsabilità civile, a seguito della chiamata in garanzia, assume nel giudizio la posizione di interventore adesivo autonomo, sicché, ove abbia contestato la fondatezza della domanda dell'attore, resta soggetto al principio della soccombenza al fine della regolamentazione delle spese di lite, indipendentemente da ogni questione sulla natura e sul titolo dell'intervento, e può essere condannato in solido con la parte con la quale condivide il medesimo interesse (Cass. III, n. 925/2017). CasisticaIn tema di controversie riguardanti l'esecuzione di lavori di manutenzione di un edificio in condominio (nella specie tinteggiatura della facciata), se il condominio cita in giudizio l'appaltatore che a sua volta chiede ed ottiene di poter chiamare in causa un terzo, per vedersi completamente liberato dalle accuse mossegli, la domanda iniziale s'intende automaticamente estesa al terzo chiamato, senza necessità di specificazioni in tal senso da parte dell'attore (Cass. II, n. 26638/2013). Nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di risarcimento dei danni, derivanti dalla realizzazione di una nuova costruzione, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo, con il quale non sussista alcun rapporto contrattuale, chiedendone, in caso di affermazione della propria responsabilità, la condanna a garantirla e manlevarla, l'atto di chiamata, al di là della formula adottata, va inteso come chiamata del terzo responsabile e non già come chiamata in garanzia impropria, dovendosi privilegiare l'effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere e dei danni conseguentemente arrecati: in tal caso, si verifica l'estensione automatica della domanda al terzo chiamato, indicato dal convenuto come il vero legittimato (Cass. III, n. 20610/2011, la quale ha confermato la sentenza della corte di merito, che aveva esteso al terzo subappaltatore, chiamato in causa dal convenuto, la domanda di risarcimento dei danni strutturali subiti dalla proprietà degli attori in seguito all'esecuzione dei lavori di costruzione). Integra una chiamata in garanzia “impropria” estranea alla cognizione del giudice del lavoro la domanda volta all'accertamento della violazione delle norme sulla riscossione da parte della società concessionaria del servizio di riscossione dei contributi previdenziali, domanda che, pertanto, va dichiarata inammissibile dal giudice del lavoro (Trib. Catanzaro I, 14 aprile 2010). BibliografiaAndrioli, Commento al Codice di procedura civile, I, Napoli 1968; Balbi, Connessione e continenza nel diritto processuale civile, in Digesto, disc. priv., sez. civ., vol. III, Torino, 1988, 457; Carratta, Requiem per la distinzione fra garanzia propria e impropria in sede processuale, in Giur. it., 2016, 586; Consolo – Baccaglino – Godio, Le Sezioni Unite e il venir meno della distinzione tra «garanzia propria» e «garanzia impropria»: cosa muta (e cosa no) nella dinamica processuale, in Giur. it., 2016, 593; Costantino, Garanzia (chiamata in), in Digesto, disc. priv., sez. civ., vol. VIII, Torino, 1992, 596; Franchi, Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Allorio, I, 1, Torino 1973, 301; Gambineri, Garanzia e processo, I, II, Milano 2002; La China, La chiamata in garanzia, Milano 1962; La China, Garanzia (chiamata in), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, 1966, 475; Costa, Chiamata in garanzia, in Nss. Dig, vol. III, Torino, 1959, 168 ss.; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, 6a ed., Milano, 2002, spec. 103 ss; Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano 2015; Monteleone, Garanzia. II) Chiamata in garanzia – diritto processuale civile, in Enc. giur., vol. XIV, Roma, 1989, 1 ss.; Santangeli, Su criticabili (e purtroppo reiterati) indirizzi della Cassazione a proposito di chiamata del terzo da parte dell'opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in Giust. civ., 2003, n. 11, 2401; Tarzia, Sulla nozione di garanzia impropria, in Giur. it., 1956, I, 2, 323; Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano 2002. |