Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 3 - Difetto di giurisdizione.

Mario Cavallaro
Marisa Abbatantuoni

Difetto di giurisdizione12.

1. Il difetto di giurisdizione delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado è rilevato, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo.

2. È ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall'art. 41, primo comma, del codice di procedura civile.

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 47 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

Inquadramento.

Di chiara evidenza, la ratio della norma è quella di far rispettare le previsioni dell'ordinamento sulla ripartizione delle funzioni giurisdizionali tra i vari ordini giudicanti così come delineati dalla carta costituzionale. L'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992 nel quale non troviamo la definizione del «Difetto di Giurisdizione», è una norma di chiaro segno speculare all'art. 37 del c.p.c. ed a carattere ricognitivo, in quanto chiarisce la perfetta comunanza tra il processo civile e quello tributario a proposito di difetto di giurisdizione, con ciò imponendo l'applicazione di ogni norma procedurale connessa con l'istituto del regolamento di giurisdizione. L'esistenza necessitata della giurisdizione significa riconoscere una tutela giurisdizionale di rango costituzionale alla violazione di diritti ed interessi legittimi, in quanto il legislatore ordinario non potrà in nessun caso limitare il ricorso alla giurisdizione ordinaria, amministrativa o tributaria, come sancito dagli artt. 24, comma 1 e 113, commi 1 e 2 Cost.

Inoltre, la giurisdizione e la competenza sono preordinate così da impedire distorsioni, anche legislative, per materia.

Si ha un difetto di giurisdizione del giudice tributario quando la causa promossa avanti a lui rientra in realtà nella giurisdizione civile o amministrativa (e talora anche contabile). Il legislatore ha ritenuto che la questione del difetto di giurisdizione fosse troppo importante per lasciarla alla disponibilità delle sole parti, che possono eccepirla in ogni stato e grado del giudizio, e pertanto ne ha previsto la rilevabilità anche ex officio.

Lo strumento a disposizione è individuato con il regolamento di giurisdizione con il quale il convenuto devolve la soluzione della questione di giurisdizione alle Sezioni Unite della Cassazione, secondo le regole e il procedimento dell'art. 41 c.p.c.

L'individuazione della giurisdizione del giudice deve essere fatta al momento della proposizione della domanda, facendo riferimento alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della domanda, principio della c.d. perpetuatio jurisdictionis (art. 5 c.p.c.) Per la precisione la legge va accertata al momento della notificazione dell'atto di citazione o in quello del deposito in cancelleria del ricorso; lo stato di fatto rilevante è quello prospettato dalla domanda del ricorrente e risultante dai fatti posti a suo fondamento. Eventuali successive modifiche di diritto o di fatto non cambiano la giurisdizione così individuata anche se interviene una nuova legge o cambia la situazione di fatto. Il giudice tributario può risolvere in via incidentale le questioni da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio, casi nei quali il processo deve essere sospeso in attesa della decisione del giudice competente (Cass.S.U., n. 11082/2007).

Gli organi giurisdizionali e l'individuazione del momento determinante la giurisdizione

L'interprete dell'art. 3 del d.lgs n. 546/1992 nell'applicazione della norma dovrà necessariamente attingere ai principi generali di rango costituzionale e processualcivilistici e dunque tener conto dell'art. 25, comma 1 Cost., che sancisce l'inviolabilità del giudice naturale precostituito per legge e che regola l'indisponibilità della giurisdizione.

Dunque, il principio costituzionale del giudice precostituito per legge ed il conseguente divieto che le parti ne siano distolte dovrebbe impedire che della domanda già proposta possano essere chiamati a decidere, a giudizio pendente ed in base a norme successive, organi giudiziari diversi o diversamente composti, in quanto entrano in gioco anche principi quali quelli dell'efficienza della funzione giurisdizionale (Corte cost. ord., n. 463/2007, richiamando sul punto Corte cost. n. 237/2007, che ribadendo la nozione di giudice naturale e la corrispondenza a quello di giudice precostituito per legge, puntualizza che il principio viene rispettato, quando «la legge, sia pure con effetto sui processi in corso, modifica in generale i presupposti o i criteri in base ai quali deve essere individuato il giudice competente». Ha considerato che, in questo caso, infatti, «lo spostamento della competenza dall'uno all'altro ufficio giudiziario non avviene in conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista di una determinata o di determinate controversie, ma per effetto di un nuovo ordinamento — e dunque della designazione di un nuovo giudice «naturale» — che il legislatore, nell'esercizio del suo insindacabile potere di merito, sostituisce a quello vigente».

Qualora la norma sopravvenuta attribuisse la giurisdizione, il giudice adito erroneamente resterebbe competente a pronunciarsi sulla domanda, quand'anche al momento in cui è stata proposta fosse privo di giurisdizione o competenza (Corte cost. n. 361/2008, orientamento oramai consolidato nel riconoscere all'art. 5 c.p.c la funzione di favorire e non di impedire il perpetuarsi della giurisdizione; ma già in precedenza, in questo senso, Corte cost. n. 191/2006, nonché Corte cost. ord., n. 297/2007). L'art. 5 del codice di procedura civile, che sancisce il principio della perpetuatio iurisdictionis, trova applicazione al processo tributario in forza del rinvio di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, non essendovi nel processo tributario alcuna disposizione (diretta o indiretta) al riguardo e non essendovi incompatibilità tra l'art. 5 del codice di procedura civile e altre norme del processo tributario.

È quindi per tale ragione che a seguito della riforma dell'art. 5 del codice di procedura civile (ex art. 2 della l. n. 353/1990) loius superveniensnon incide sulle controversie pendenti con riferimento alla determinazione della giurisdizione (alla stessa stregua dei mutamenti della situazione di fatto). Si rileva quindi, che in riferimento all'art. 5 del codice di procedura civile, come modificato dalla l. n. 353 del 1990, la Suprema Corte ha affermato che sono ininfluenti sul processo già iniziato i mutamenti della legge e dello stato di fatto ai fini della giurisdizione e della competenza con la conseguenza che le controversie aventi ad oggetto l'accertamento negativo dell'obbligazione di imposta concernente i tributi comunali e locali [dall'art. 2, comma 1, lettera h], del d.lgs. n. 546/1992 attribuiti alla giurisdizione delle Commissioni tributarie — nel testo previgente — e del correlativo diritto del Comune di domandarne il pagamento, ove pendenti alla data del 1° gennaio 1993, restano soggette alla giurisdizione del giudice ordinario come disposto dall'art. 271 del testo unico sulla finanza locale.

A seguito della riforma dell'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992 ad opera, dell'art. 12, comma 2, della l. 28 dicembre 2001, n. 448, con conseguente ampliamento della competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie, il principio della perpetuatio iurisdictionis di cui all'art. 5 del codice di procedura civileha trovato puntuale applicazione in giurisprudenza con riferimento alle controversie correttamente (ratione temporis) instaurate avanti al giudice ordinario, avanti al quale sono quindi rimaste definitivamente attribuite, nonostante che dal 1° gennaio 2002 appartengano, a seguito della suddetta novella, alle Commissioni tributarie si evidenziano tra le altre le pronunzie in tema di tasse automobilistiche (Cass. n. 3599/2003) ovvero di contributi spettanti ai consorzi di bonifica Cass. n. 5647/2003, Cass. n. 8087/2002, Cass. n. 5967/2002).

L'applicazione, nel contenzioso tributario, del principio della perpetuatio iurisdictionisdi cui all'art. 5 c.p.c. come già interpretato dalla giurisprudenza (Cass. n. 2415/2002; Cass. n. 6487/2002), ha comportato anche che le controversie pendenti prima del 1° gennaio 2002 nella giurisdizione del giudice ordinario, ma per errore promosse all'epoca avanti alle Commissioni tributarie, rimanessero definitivamente incardinate presso queste ultime e ciò poiché il principio di cui all'art. 5 c.p.c. sancisce l'irrilevanza, ai fini della determinazione della giurisdizione, dei mutamenti legislativi successivi alla proposizione della domanda nei soli casi in cui il sopravvenuto mutamento normativo privi il giudice della giurisdizione, ma non invece nei casi in cui esso comporti l'attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo, ma avanti al quale il processo venne erroneamente instaurato e ciò nel rispetto del principio di economia processuale (Cass. n. 6774/2003, Cass. 4059/2016, Cass.S.U., 15916/2005).

Altro principio cardine che viene in esame è quello contenuto nell'art. 102 Cost. il quale individua nei magistrati gli operatori demandati alla funzione giurisdizionale, istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, e che vieta l'istituzione di giudici straordinari o speciali, consentendo solamente sezioni specializzate di organi giudiziari con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.

L'art. 103 della Carta costituzionale individua le giurisdizioni competenti alla tutela degli interessi legittimi e della contabilità pubblica nei confronti della pubblica amministrazione, affidando alla legge ordinaria la possibilità di attribuire a tali organi la giurisdizione anche per la tutela di situazioni di diritto soggettivo su particolari materie (nel senso indicato dalla Corte costituzionale, prima con la sentenza 6 luglio 2004 n. 204, in sede di dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1980, n. 80, come sostituiti dagli artt. 7, lett. a) e b) della l. 21 luglio 2000, 205 e poi con la sentenza 11 maggio 2006 n. 191, in sede di dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 325, trasfuso nell'art. 53, comma 1, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327).

L'art. 125, comma 2, Cost. ha infine previsto la possibilità di istituire per legge organi di giustizia amministrativa di primo grado nella Regione, ciò che è avvenuto con l'istituzione dei tribunali amministrativi regionali (l. 6 dicembre 1971, n. 1034) e delle sezioni regionali della Corte dei conti (d.l. 15 novembre 1993, n. 543 conv. in l. 14 gennaio 1994, n. 19).

L'impossibilità affermata dall'art. 102, comma 2, di istituire nuovi giudici e la previsione — di cui alla VI disposizione transitoria — che degli organi speciali di giurisdizione esistenti all'epoca si sarebbe attuata nei cinque anni successivi la revisione valgono invece a dare conto dell'esistenza e possibilità del legittimo persistere nell'ordinamento di tali preesistenti organi, ciò che non avrebbe peraltro escluso l'eventuale illegittimità della loro composizione o di specifiche norme regolatrici del pertinente procedimento giurisdizionale.

Tra questi organi speciali di giustizia sono da indicare il Tribunale superiore delle acque pubbliche, previsto dagli artt. 142 e 143 r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, che, in diversa rispettiva composizione, opera come giudice ordinario di appello e giudice amministrativo in un unico grado, e le Commissioni centrali professionali per le professioni indicate nell'art. 1 del d.lgs. 23 novembre 1944, n. 382, che operano in unico grado di giurisdizione, tra l'altro in materia disciplinare.

Proprio il divieto posto dall'art. 102 Cost. aveva rappresentato il più grave ostacolo al riconoscimento di una giurisdizione speciale estesa a tutti i tributi, ritenendosi che il giudice tributario sarebbe risultato «nuovo» rispetto alle controversie tributarie devolute al giudice ordinario; a ciò si aggiungevano perplessità legate all'analisi dei caratteri e dell'evoluzione storica delle commissioni, tradizionalmente investite delle controversie relative alle imposte dirette e ad (alcune) imposte indirette, ma non delle liti afferenti ad altre materie, come l'imposta di bollo, le tasse sulle concessioni governative o i dazi doganali.

La Corte Costituzionale più volte è intervenuta per definire la natura giuridica delle Commissioni tributarie, con la prima sentenza sull'argomento (Corte cost. n. 12/1957, cui seguirono altre, tra cui: Corte cost. n. 41/1957; Corte cost. n. 81/1958; Corte cost. n. 132/1963; Corte cost. n. 103/1964), qualificò le Commissioni tributarie come organi giurisdizionali, anche se allora mancava l'indipendenza dei giudici, in quanto i rispettivi membri erano scelti dall'Amministrazione finanziaria.

Infatti, la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 6 del 29 gennaio 1969 e n. 10 del 30 gennaio 1969, qualificò le Commissioni tributarie quali organi amministrativi, tant'è vero che non erano legittimate a sollevare questioni di costituzionalità.

Infine, nel 1974, la Corte Costituzionale mutò ancora una volta la sua giurisprudenza con la sentenza Corte cost. n. 287/1974. Infatti, a tal proposito, la Corte Costituzionale, con l'importante sentenza n. 287 del 19 dicembre 1974, nel rigettare tutte le questioni sollevate, stabilì che le Commissioni tributarie, revisionate e strutturate a seguito della l. n. 825/1971 ed alla legge delegata in materia di contenzioso tributario (d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636), dovevano considerarsi, a tutti gli effetti, organi speciali di giurisdizione. In questo contesto e considerando altresì l'unità strutturale ormai raggiunta dal processo tributario, che si presenta come sistema compiuto ed autonomo, articolato avanti ad un giudice speciale che ha visto costantemente rafforzarsi il proprio ruolo nell'ordinamento l'accentramento delle competenze giurisdizionali oggi realizzato presso le commissioni non può che essere valutato con favore. Del resto, l'evoluzione del contenzioso tributario è sempre stata segnata da una connotazione in senso specialistico degli organi che ne sono stati investiti.

A seguito della riforma del 2001, art. 12, comma 2, l. n. 448/2001 le Commissioni divengono veri e propri organi di giurisdizione di tutti «i tributi di ogni genere e specie», cioè dell'intera materia delle entrate tributarie, intendendosi per «tributo» nel rispetto degli art. 23 e 53 Cost. una prestazione patrimoniale “imposta», funzionalmente destinata a realizzare il concorso dei consociati alle spese pubbliche.

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 19 del d.lgs. n. 546/1992 la giurisdizione tributaria sussiste solo quando l'Amministrazione finanziaria ha notificato al contribuente un atto a questi rivolto, vantando una pretesa tributaria definita.

Ed infatti, la Corte di Cassazione,, con la sentenza Cass. S.U., n. 25551/2007, ha precisato quanto segue: «Per poter affermare la giurisdizione tributaria quando si controverte di un'entrata pubblica, occorre predicarne la natura di tributo», nozione questa che è comprensiva di imposte e di tasse: le imposte afferiscono a fatti che manifestano la capacità contributiva del soggetto e sono dirette ad approntare i mezzi finanziari per il perseguimento dei fini generali dello Stato o di altri enti impositori; le tasse sono invece legate al finanziamento, in particolare, di un'attività o di un servizio pubblico e riguardano specificamente il contribuente, potenziale o effettivo fruitore dello stesso.

Deve allora considerarsi, come appena rilevato, che:

le imposte consistono in entrate pubbliche destinate indifferenziatamente ad alimentare la finanza pubblica per consentire il conseguimento delle finalità di interesse pubblico di cui è portatore l'ente impositore; sono espressione della solidarietà generale (art. 53, primo comma, Cost.: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche....») e devono necessariamente essere relazionate alla condizione reddituale e/o patrimoniale degli obbligati (prosegue l'art. 53, primo comma, Cost.: «....in ragione della loro capacità contributiva» senza che rilevi la fruizione dei servizi pubblici in generale, di cui pure sono destinate ad approntare il finanziamento;

le tasse, invece, costituiscono entrate pubbliche differenziate in quanto destinate al finanziamento di una funzione o di un servizio pubblico specifico e che vedono, come soggetto inciso dall'imposizione, l'effettivo o potenziale fruitore del servizio medesimo. In tal caso, il carattere differenziato e la finalità specifica dell'imposizione si coniugano all'individuazione dei soggetti destinatari dell'imposizione, che sono quelli fruitori del servizio pubblico; talché si ritiene che ciò soddisfi di per sé la prescritta condizione della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), ma senza che da ciò emerga un rapporto di commutatività e, meno ancora, di sinallagmaticità. Per descrivere questo nesso tra entrata pubblica e servizio erogato si parla, in dottrina, di paracommutatività, che caratterizza appunto le tasse rispetto alle imposte, da una parte, e, dall'altra, rispetto ad altre entrate pubbliche parimenti mirate a finanziare un servizio mediante erogazioni dei fruitori del servizio stesso.

In questo ambito, le tasse costituiscono come sottolineato dalla dottrina fattispecie di confine tra le imposte e le entrate patrimoniali extratributarie».

Alla luce dei generali principi di cui sopra, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenzaCass. S.U., n. 25551/2007 hanno statuito: «Deve quindi distinguersi tra tassa, da una parte, che condivide la natura tributaria delle imposte, e, dall'altra, canoni (o tariffe o diritti speciali) e prezzi pubblici, che rientrano nella categoria delle entrate patrimoniali pubbliche extratributarie»; distinzione questa che si racchiude in una qualificazione formale prima ancora che contenutistica. È il legislatore che assegna ad una determinata prestazione del soggetto che fruisce il servizio la qualificazione di tassa, e così la assoggetta al regime dei «tributi», ovvero di canone o prezzo pubblico; e costruisce alternativamente il nesso tra entrata pubblica ed erogazione del servizio vuoi in termini di para commutatività (tassa), vuoi di commutatività o di vera e propria sinallagmaticità (entrate pubbliche extratributarie); come risultava, ad esempio, dal raffronto tra canone demaniale e tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche la cui sottile linea di demarcazione, in presenza di due fattispecie aventi chiaramente un comune sostrato economico, correva lungo il tracciato della diversa costruzione normativa (i.e.: qualificazione formale).

Quindi una tassa è tale innanzitutto ove questa qualificazione sia espressamente assegnata dal legislatore ad un'entrata pubblica.

Ove non risulti siffatta qualificazione deve ritenersi che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, abbia optato per un diverso modulo di copertura finanziaria dei costi del servizio pubblico (quello a mezzo delle entrate extratributarie), a meno che non emergano elementi univoci e convergenti delle caratteristiche concrete del nesso tra la prestazione del servizio pubblico e l'obbligazione pecuniaria posta a carico del fruitore del servizio stesso (nesso che può in ipotesi presentarsi come di mera paracommutatività) sì da ricondurre un'entrata pubblica, in ragione appunto delle sue marcate caratteristiche sostanziali, nell'alveo di quelle di natura tributaria piuttosto che tra quelle di natura extratributaria, pur in mancanza di un'espressa qualificazione normativa.

Ciò non esclude però che talora quello che inizialmente era il corrispettivo di un servizio possa aver assunto nel tempo una connotazione tipicamente tributaria, come il canone televisivo (Cass.S.U., n. 20068/2006) ed i contributi spettanti ai consorzi di bonifica (Cass.S.U., n. 14863/2006).

Alla luce dei principi sopraesposti, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza Cass. S.U., n. 20068/2006 ha stabilito che, nel caso delle spese di notificazione degli atti giudiziari, tale essendo nella fattispecie il petitum sostanziale che individua la giurisdizione, manca questa qualificazione di tassa, né sono ravvisabili univoci e convergenti indici di una sostanziale connotazione di natura tributaria, per cui ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.

La Corte di Cassazione, quindi, ai fini della qualificazione o meno di tributo, conferisce particolare rilievo alla c.d. qualificazione formale da parte del legislatore, salvo determinate condizioni.

Diversamente, la Corte Costituzionale esclude tassativamente questa preliminare condizione. Infatti, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza Corte cost. n. 64/2008 (lett. M), precisa: «criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante» (ex multis: sentenze Corte cost. n. 334/2006 e Corte cost. n. 73/2005).

Così, trova recente conferma l'orientamento secondo il quale la controversia tra sostituto d'imposta e sostituito, avente ad oggetto la pretesa del primo di rivalersi delle somme versate a titolo di ritenuta d'acconto non detratta dagli importi erogati al secondo, non diversamente da quella promossa dal sostituito nei confronti del sostituto, per pretendere il pagamento anche di quella parte del suo credito che il convenuto abbia trattenuto e versato a titolo di ritenuta d'imposta, rientra nella giurisdizione delle Commissioni tributarie e non del giudice ordinario, posto che, in entrambi i casi, l'indagine sulla legittimità della ritenuta non integra una mera questione pregiudiziale, suscettibile di essere delibata incidentalmente, ma comporta una causa tributaria avente carattere pregiudiziale, la quale deve essere definita, con effetti di giudicato sostanziale, dal giudice cui la relativa cognizione spetta per ragioni di materia in litisconsorzio necessario anche dell'Amministrazione Finanziaria (in tal senso, Cass.S.U., ord. n. 22272/2007 e Cass.S.U., ord. n. 22266/2007).

L'allargamento delle competenze del giudice tributario a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ha creato il problema della costituzionalità di tale procedura, in relazione al divieto dell'istituzione ex novo di giudici speciali.

Per evitare ciò e, soprattutto per stabilire in modo chiaro e definitivo i limiti di competenza dei giudici tributari, di recente la Corte Costituzionale è intervenuta con le due importanti sentenze già citate:

Corte cost. n. 64/2008 (in tema di COSAP);

Corte cost. n. 130/2008 (in tema di lavoro nero).

Questo intervento, inoltre, ha definitivamente risolto un contrasto interpretativo con la Corte di Cassazione, contrasto apertosi negli anni scorsi proprio in tema di processo tributario.

Con la prima sentenza (Corte cost. n. 64/2008), nello stabilire che il COSAP è di competenza del giudice ordinario e non delle Commissioni tributarie, la Corte Costituzionale ha precisato che l'eventuale attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversia non avente natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali.

In particolare, il Giudice delle Leggi ha precisato che: «Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall'erronea qualificazione di «tributaria» data dal legislatore (o dall'interprete) ad una particolare materia (come avviene, per esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria). Per valutare la sussistenza della denunciata violazione dell'art. 102, secondo comma, Cost. occorre accertare, perciò, se la controversia devoluta ai giudici tributari abbia o no effettiva natura tributaria».

E, a tal fine, non si può prescindere dai criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie le entrare erariali; criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questo alla pubblica spesa con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: Cass. n. 334/2006 e Cass. n. 73/2005).

Al riguardo, va sottolineato che, ove sia stata accertata la natura non tributaria della materia attribuita alla cognizione dei giudici tributari, si deve affermare l'illegittimità costituzionale di detta attribuzione, né possono addursi in contrario argomenti che non trovano fondamento nell'art. 102, secondo comma, e nella VI disposizione transitoria della Costituzione».

Infatti, «il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l'attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un «nuovo» giudice speciale».

Appunto per questo, la Corte Costituzionale, questa volta in aderenza alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha ritenuto illegittima costituzionalmente la competenza dei giudici tributari in materia di COSAP. In particolare, la Cassazione, dopo aver rilevato che il COSAP si applica in via alternativa al tributo denominato «tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche» (TOSAP), ha precisato che detto canone, da un lato, «è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo (TOSAP) in luogo del quale può essere applicato» e, dall'altro, «risulta disegnato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell'uso esclusivo o speciale di beni pubblici». In definitiva, la Corte non si discosta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che «per il numero elevato, la sostanziale identità di contenuto e la funzione nomofilattica dell'organo decidente costituiscono diritto vivente, prospettano una ricostruzione plausibile dell'istituto, non in contrasto con i sopra ricordati criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per individuare le entrate tributarie».

È questa una sentenza chiarificatrice sul tema, anche se può lasciare perplessi il riferimento al c.d. «diritto vivente» che, specie nel settore tributario, privo di principi e con una legislazione spesse volte confusionaria e contraddittoria, potrebbe per molti anni manifestarsi non in modo univoco (abbiamo visto dei contrasti persino tra la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione), lasciando l'interprete in una situazione di dubbi e di precarietà.

Spingendosi addirittura sul piano delle esemplificazioni, la Corte Costituzionale, sempre con la citata sentenza n. 64/2008, si premura ora di far rilevare come «non sarebbe sufficiente, al fine di negare lo «snaturamento» della materia attribuita alla giurisdizione tributaria, affermare che le controversie relative ad alcuni particolari canoni, pur non avendo natura tributaria, sono legittimamente attribuite alla cognizione delle Commissioni tributarie per la sola ragione che il fatto generatore delle suddette prestazioni patrimoniali è simile al presupposto che, in passato, avevano avuto alcuni tributi» e come «neppure sarebbe sufficiente addurre mere ragioni di opportunità per giustificare, sul piano costituzionale, la cognizione, da parte dei giudici tributari, di controversie non tributarie riguardanti fattispecie in qualche misura simili a quelle propriamente tributarie».

Scrive opportunamente Glendi: «Trattasi, come è chiaro, di indicatori molto puntuali dei quali occorre comunque tener conto per la definizione della giurisprudenza tributaria allo stato costituzionalmente compatibile, sulla base delle leggi vigenti e dell'interpretazione ultimamente fornitane dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima, ovviamente, di rapportarvi adeguati parametri a livello di normativa primaria».

Rientra invece nella giurisdizione amministrativa il ricorso contro gli atti amministrativi generali, che incidono su interessi collettivi e diffusi (Cass.S.U., n. 7665/2016); Le liti relative ai dinieghi di rimborso opposti dagli uffici finanziari sono devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, eccettuate le ipotesi in cui l'ufficio abbia formalmente e senza condizioni riconosciuto l'esistenza del credito. Nelle suddette ipotesi, stante l'avvenuto riconoscimento del debito, la causa concerne un comune indebito oggettivo, con conseguente sussistenza della giurisdizione ordinaria (Cass.S.U.n. 20077/2010).

Le controversie instaurate a seguito della cancellazione o del diniego di iscrizione all'Anagrafe della Tariffa Igiene Ambientale (TIA),disciplinata dall'art. 49 del d.lgs. n. 22/1997, non costituisce un'entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della TARSU, disciplinata dal d.lgs. n. 507/1993, e conserva, quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima. Di conseguenza le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA hanno natura tributaria (Cass.S.U., n. 14903/2010); le liti relative all'impugnabilità della risposta negativa dell'Ufficio a seguito della presentazione dell'istanza di interpello disapplicativo ex art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 rientrano nella giurisdizione tributaria e non nella giurisdizione amministrativa, stante il carattere onnicomprensivo della giurisdizione tributaria enunciato dall'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992 (Cons. St. n. 414/2009); il canone di abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell'esistenza di uno specifico rapporto contrattuale tra il contribuente e il gestore del servizio pubblico radiotelevisivo, ma rientra in una prestazione tributaria fondata sulla legge, non basata sulla possibilità effettiva di usufruire del servizio (Cass.S.U., n. 24010/2007).

Sono carenti di giurisdizione le Commissioni Tributarie in merito a liti relative alla iscrizione a ruolo di sanzioni amministrative irrogate dai Comuni per illeciti di natura edilizia, nell'esercizio della loro attività diretta ad assicurare il rispetto delle normative di tale natura. L'art. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, intitolato "Oggetto della giurisdizione tributaria" stabilisce che appartengono a tale giurisdizione tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, nonché le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari. Le sanzioni sopra indicate hanno, invece, natura diversa da quelle irrogate dagli uffici finanziari dello Stato e dagli enti pubblici territoriali, nell'ambito dell'attività amministrativa tributaria, diretta ad assicurare il rispetto delle normative tributarie, caratterizzate dalla coattiva acquisizione, da parte dei predetti soggetti, delle risorse monetarie necessarie a consentire il conseguimento delle finalità individuate dal legislatore. L'art. 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, inoltre, prevede che il difetto di giurisdizione delle commissioni tributarie è rilevato, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo. (Comm. trib. prov. Lecco, Sez. II, 18/01/2005, n. 2).

Ai sensi dall'art. 7 comma 5 d.lgs. n. 546/1992, il giudice tributario, può disapplicare un atto amministrativo generale rilevante ai fini della decisione qualora lo ritenga illegittimo (nel caso di specie, si trattava di regolamenti per l'applicazione della Tarsu). Resta, comunque, precluso al giudice tributario il potere di annullamento dell'atto stesso (Cass.S.U., n. 16290/2007);

Sussiste la giurisdizione tributaria per la c.d. condanna da «lite temeraria», che può essere disposta dal giudice qualora sia dimostrato che la parte soccombente abbia agito con mala fede o colpa grave. Si tratta, infatti, di una responsabilità di natura diversa da quella aquiliana di cui all'art. 2043 c.c. (per la quale permane la giurisdizione ordinaria), posto che risulta strettamente connessa all'atto impugnato, che costituisce l'oggetto del processo tributario, e deve essere decisa dal giudice che esamina il merito della causa in cui si verifica il danno (Cass.S.U., n. 13899/2013); In forza della sentenza della Corte cost.. n. 64/2008, come sopra accennato e con la Cass. n. 23857/2012 è stato ribadito che le controversie in materia di canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) sono di competenza del giudice ordinario (Cass. n. 23857/2012).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza Cass.S.U., n. 16429/2007, hanno chiarito il riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici tributari in materia di controversie sui terreni.

La Corte ha affermato che: i giudici tributari sono competenti sulle controversie instaurate dai privati possessori che abbiano ad oggetto operazioni di intestazione o di variazione, operate dall'amministrazione al solo fine dell'imposizione di tributi, rispetto ai quali le intestazioni o variazioni si configurino come presupposti indispensabili (Cass.S.U., n. 16429/2007);

È stato rimesso al Primo Presidente il compito di valutare la rimessione alle Sezioni Unite della questione sulla giurisdizione delle controversie sui provvedimenti inerenti alla qualifica di imprenditore agricolo professionale (IAP) volta all'ottenimento dei benefici fiscali in materia di acquisto di terreni agricoli per la formazione di un compendio unico di cui agli artt. 5-bis del d.lgs. n. 228/2001 e 5-bis della l. n. 97/1994 (non più vigente ex art. 10 del d.lgs. n. 23/2011) (Cass. n. 10541/2017).

La giurisprudenza pone quale limite esterno alla giurisdizione tributaria quelle prestazioni che trovano giustificazione in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione e il beneficio ricevuto dal singolo.

La giurisprudenza si evidenzia positivamente orientata all'ampliamento dell'alveo della giurisdizione tributaria, riconoscendo competenti le Commissioni tributarie, oltre alle materie sopra evidenziate, alle c.d. tasse di scopo (Cass. n. 3171/2008), contributi consortili, TIA, canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue (Cass.S.U., n.8770/2016, Cass.S.U., n. 123/2007, Cass.S.U., n.8956/2007), inoltre il pignoramento presso terzi, in caso di omessa notifica della cartella di pagamento, è impugnabile in sede tributaria.

Tale principio è ricavabile dall'analisi del testo della sentenza della C.t.p. Milano 27 ottobre 2009 n. 255  in quanto si evince che il contribuente, a fronte della ricezione di un verbale di pignoramento in assenza della previa e rituale notifica della cartella di pagamento, ha proposto opposizione all'esecuzione di fronte al Tribunale che, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione, ha disposto la translatio iudicii a favore della Commissione tributaria fornita di giurisdizione. Le controversie relative alla pretesa del sostituito di rivalersi sul sostituto per ripetere le somme da questi indebitamente trattenute è devoluta alla giurisdizione delle Commissioni tributaria, in quanto implica la soluzione di questioni fiscali (Cass.S.U., n. 15031/2009), sussiste, inoltre la giurisdizione tributaria nelle controversie sul mancato pagamento di imposte dovute all'estero da un contribuente residente in Italia (Cass.S.U., n. 22622/2010).

Infatti, come sostenuto in alcuni precedenti, ai fini del radicamento della giurisdizione occorre fare riferimento alla natura giuridica del rapporto sottostante, e non alla natura della posizione giuridica soggettiva del contribuente. A tal proposito si può affermare che la giurisdizione delle Commissioni tributarie è «indifferente» al contenuto della domanda, arrestandosi solamente davanti gli atti dell'esecuzione esattoriale, difatti in ottemperanza all'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992, le contestazioni giudiziali relative agli atti successivi alla cartella di pagamento e all'intimazione ad adempiere, quindi quelli tipici dell'espropriazione esattoriale come il pignoramento presso terzi ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602/1973, rientrano nella giurisdizione ordinaria (Cass.S.U., n. 8618/2015).

La composizione degli organi di giustizia, che garantiscono l'indipendenza del magistrato dall'organo dello Stato è disciplinata dagli articoli compresi dal 105 al 108, e riaffermata come necessaria dall'art. 6.1. CEDU e dall'art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Le norme costituzionali sopra individuate, formalizzano la presenza nell'ordinamento di più organi deputati all'esercizio della giurisdizione e solamente la legge, come statuito dagli artt. 103, commi 1e 2, Cost. e dalla VI disposizione transitoria può modificare nel tempo la comprensività della materia attribuita alla competenza degli organi di giurisdizione preesistenti e di quelli che essa ha previsto possano essere istituiti come giudici speciali.

Il limite naturale è la logica riconducibilità all'area di competenza giurisdizionale della materia da trattare all'organo deputato a questo, può essere d'esempio la pronuncia della Corte cost. n. 6/2008 che specifica propria di quell'organo (esemplificando, è in questo senso che Corte cost. ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme che avevano attribuito alle commissioni tributarie la giurisdizione sulle controversie in tema di COSAP: la Corte, dopo aver premesso che, come riconosciuto dalla sua consolidata giurisprudenza, la giurisdizione tributaria deve essere considerata un organo speciale di giustizia preesistente alla Costituzione, ha affermato che «la modificazione dell'oggetto della giurisdizione degli organi speciali di giustizia è consentita solo se non snaturi la materia originariamente attribuita alla cognizione del giudice speciale», il che comporta che non possa esser attribuita alle commissioni tributarie la giurisdizione sulle controversie relative ad entrate che non abbiano natura tributaria. L'effetto di una incontrollata escalation che attragga nella giurisdizione tributaria le più svariate questioni per erronea qualificazione tributaria data dal legislatore o dall'interprete, sarebbe quello della violazione del divieto costituzionale di istituzione di nuovi giudici speciali.

L'organo deputato a conoscere di una determinata materia può conoscere, con efficacia di giudicato, della spettanza o meno del diritto o dell'interesse legittimo di cui è stata chiesta tutela, ed inoltre, in via incidentale, senza efficacia di giudicato potrà conoscere delle questioni, anche di diritto sostanziale, pregiudiziali o incidentali, nella misura in cui la legge non lo escluda [così, esemplificando, con riferimento alla questione di falso, l'art. 28, comma 3, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (T.U. leggi sul Consiglio di Stato); l'art. 8 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, (sui T.A.R.); l'art. 8 d.lgs. n. 104/2010 (Codice del processo amministrativo); gli artt. 10 e 11 del r. d. 13 agosto 1933, n. 1038, il Regolamento per la procedura nei giudizi davanti alla Corte dei conti; l'art. 2 comma 3 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 sul processo tributario].

Difetto di giurisdizione.

L'art. 3 del d.lgs. n. 546/1992 lasciando all'interprete l'investigazione sul contenuto, ripercorre un concetto noto alla disciplina processual-civilistica che lo vede arbitro al riparto di attribuzioni tra i giudici (giudice ordinario e giudici speciali) e tra organi giurisdizionali e la Pubblica Amministrazione (il comma 2 dell'art. 37 del codice di procedura civile, relativo al difetto di giurisdizione nei confronti dello straniero, è stato abrogato dall'art. 73 della l. 31 maggio 1995, n. 218, che all'art. 11 disciplina ora la relativa problematica).

La dottrina definisce il difetto di giurisdizione come la situazione in cui si trova il giudice in conseguenza delle limitazioni poste al suo potere nei casi previsti dall'art. 37 c.p.c. non già nell'interesse delle parti, bensì nell'interesse generale, secondo i principi che informano la funzione giurisdizionale e i rapporti con gli altri organi dello Stato. Tenendo conto del principio fondamentale secondo cui «la stessa volontà concreta di legge non può essere oggetto che di una sola attuazione giurisdizionale», si è parlato, con riferimento al difetto di giurisdizione, anche di «sconfinamento dell'organo giurisdizionale dalle sue attribuzioni» ovvero di «eccesso di potere nell'atto giurisdizionale».

In giurisprudenza si ritiene che il difetto di giurisdizione si abbia quando si ritenga violato, in positivo o in negativo, l'ambito della giurisdizione in generale (come quando il giudice abbia esercitato la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, quando abbia negato la giurisdizione sull'erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale), ovvero nell'ipotesi in cui il giudice abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione (ipotesi, questa, che ricorre quando il giudice abbia giudicato su materia attribuita ad altra giurisdizione — ordinaria o amministrativa o ad una giurisdizione speciale — oppure abbia negato la propria giurisdizione nell'erroneo convincimento che essa appartenga ad altro giudice, ovvero ancora quando, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato sulla legittimità degli atti amministrativi — come in alcuni casi attribuiti al Consiglio di Stato — abbia compiuto un sindacato di merito) (Cass. n. 9558/2002 e Cass. n. 5098/1996).

In effetti si parla di difetto assoluto di giurisdizione quando la questione, in relazione ai poteri della Pubblica Amministrazione, non sia attribuita al sistema degli organi giurisdizionali nel suo complesso, ovvero anche nel diverso caso in cui il difetto di giurisdizione riguardi i limiti reciproci tra le giurisdizioni, ma, in quest'ultimo caso, il difetto è assoluto nel senso che è rilevabile, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo, in contrapposizione al difetto di giurisdizione nei confronti dello straniero, non avente tali caratteristiche. Privo di contenuto innovativo, i principi dettati all'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992 operavano per il richiamo operato nell'art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, in quanto la dottrina ammetteva che la questione della rilevabilità del difetto della giurisdizione delle Commissioni tributarie potesse avvenire in ogni stato e grado di giudizio.

Il difetto di giurisdizione delle Commissioni tributarie, rispetto agli altri giudici, va rilevato con riferimento alle controversie indicate all'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992 ed è quindi distinto dalle questioni di merito o dalle questioni di competenza tra giudici tributari.

La giurisprudenza ha stilato un principio al fine di operare il distinguo tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, affermando che per la verifica della sussistenza della giurisdizione deve farsi applicazione del criterio del «petitum sostanziale», inteso nel senso di dover dare rilievo decisivo non già alle richieste e alle deduzioni avanzate formalmente dalle parti, ma alla vera natura della controversia, con riferimento alle concrete posizioni soggettive delle parti in relazione alla disciplina legale della materia (Cass. n. 279/1999). Tale criterio trova il plauso della dottrina che ammette, in assenza di altri specifici elementi qualificativi, l'individuazione dell'oggetto della domanda e del processo, quale metodo per l'individuazione della giurisdizione. Più approfonditamente, si ritiene che la giurisdizione dell'Autorità giudiziaria ordinaria si ha solo in presenza di diritti soggettivi, restando viceversa nell'ambito della giurisdizione tributaria le controversie che hanno per oggetto l'interesse legittimo alla giusta imposizione, in tutte le sue articolate specificazioni. Per dirla con parole proprie del diritto processual-civilistico, si deve far riferimento alla causa petendi e quindi alla posizione giuridica dedotta in giudizio, ecco perché la sentenza della Corte cost. n. 130/2008 dichiarava la parziale illegittimità costituzionale della norma che attribuiva alle C.t. la giurisdizione sulle sanzioni comunque irrogate dagli Uffici finanziari, anche se non conseguenti a violazioni di carattere tributario. Nel caso in esame le sanzioni erano state irrogate dall'Agenzia delle Entrate per l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, la Corte, con la sentenza in esame, sanciva l'estraneità della materia delle sanzioni concernenti l'impiego di lavoratori irregolari all'ambito oggettivo della giurisdizione tributaria.

Nel caso di contestazione di atti autoritativi presupposti, nello specifico provvedimenti di carattere generale della Pubblica Amministrazione la competenza giurisdizionale spetta invece al giudice amministrativo (Cass. n. 3030/2002).

La caratteristica del processo tributario è quella di essere un processo di natura mista. Nell'ambito dei processi che si incardinano mediate un impugnazione di un atto o di un provvedimento, si riscontra da un lato il giudizio di pura legittimità dinanzi al TAR, e dall'altro l'opposizione al decreto ingiuntivo che si definisce a cognizione piena, nel quale il provvedimento impugnato si risolve in una decisione di merito.

Tra questi due estremi vi sono una serie di figure tra le quali troviamo il processo tributario che ha quindi natura di giudizio impugnatorio e pertanto di tipo amministrativo; di giudizio sull'atto, ma nel quale allo stesso tempo il giudice che è chiamato ad esaminare quell'atto ha un potere di merito essendogli consentito, come avviene nel giudizio amministrativo di vagliare i profili di legittimità formale, ma anche la pretesa sostanziale che vi è contenuta. Limpidamente tale ricostruzione è verificata nel contenuto delle sentenze che possono essere emesse all'esito del giudizio. Si avranno quindi sentenze meramente processuali, che sicuramente non potranno estendere il proprio effetto al di là del giudizio nel quale vengono emanate e sentenze che riguardano la legittimità formale dell'atto, per fare una esemplificazione, la sentenza che annulla un avviso di accertamento per difetto di motivazione, ovvero per essere stato emanato al di fuori del termine ultimo di decadenza in cui l'Amministrazione poteva esercitare il suo potere di accertamento e la sentenza che ridetermina la pretesa fiscale, riducendo l'importo individuato dall'Agenzia delle Entrate nell'atto di accertamento. Si può quindi sintetizzare affermando che il processo tributario è finalizzato a far valer il proprio diritto di non essere assoggettati ad una prestazione patrimoniale al di fuori dei casi previsti dalla legge da rilevare che alcuni autori sostengono che la posizione del contribuente sia comunque di interesse legittimo; ed in effetti è un diritto a fronte e del quale se non propongo ricorso nei 60 giorni dalla notifica, l'atto si consolida legittimando la riscossione coattiva dell'Ente impositore.

Come ricordato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 106 dell'8 gennaio 2015, l'invalidità dell'avviso di accertamento per motivi di carattere sostanziale obbliga il giudice ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e non solo ad annullare l'atto impositivo.

Secondo la Suprema Corte, il giudice che ritenga invalido l'avviso di accertamento non per motivi formali, ma per motivi di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.

Con l'ordinanza n. 106/2015, in tema di cognizione del giudice tributario, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui l'impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest'ultimo la cognizione non solo dell'atto, come nelle ipotesi di «impugnazione-annullamento», orientate unicamente all'eliminazione dell'atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una «impugnazione-merito», perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell'accertamento dell'amministrazione finanziaria, che implica per il giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte.

Da ciò la conseguenza logica è quella che impone al giudice tributario che ritenga invalido l'avviso di accertamento per vizi di carattere sostanziale e non meramente formale, di esaminare nel merito la pretesa tributaria operando una valutazione dei rispettivi petitum e riconducendo la pretesa dell'Ente impositore alla corretta misura, e ciò nel rispetto dei principi costituzionali; al giudice quindi è richiesta una valutazione ulteriore rispetto a quella necessaria per all'annullamento dell'atto. Sono tuttavia escluse dalla giurisdizione tributaria le azioni volte all'accertamento negativo del debito d'imposta che qualora proposte, in virtù del carattere esclusivo della giurisdizione tributaria daranno luogo ad una dichiarazione di improponibilità assoluta della domanda «Infatti, il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (in tal senso, vedasi Cass.S.U., n. 13793/2004).

Ulteriormente ampliata la giurisdizione tributaria con l'introduzione delle liti di accertamento del credito tributario, incardinate dal creditore del contribuente – creditore. Nel caso di specie, Tizio, creditore di Caio, intraprendeva una procedura di espropriazione presso terzi notificando all'Agenzia delle Entrate l'atto di pignoramento di un credito che Caio, presumibilmente, vantava nei confronti di quest'ultima.

L'Agenzia delle Entrate opponeva una dichiarazione negativa sulla sussistenza del credito, sostenendo che esso non fosse liquido ed esigibile, per cui a Tizio non rimaneva che proporre l'azione di accertamento del credito ai sensi dell'art. 548 c.p.c.

In tal caso, sulla base delle considerazioni sopra esposte, la giurisdizione spetta alle Commissioni tributarie, posto che la causa riguarda la materia fiscale (essendo necessario accertare la presenza del credito tributario) ed è presente comunque un atto idoneo a «veicolare» la relativa giurisdizione (Cass.S.U., n. 3773/2014). Risulta evidente dall'ampliamento delle materie demandate alla giurisdizione tributaria che la giurisprudenza sarà chiamata nuovamente all'interpretazione estensiva dell'art. 19, lett. i, riconducendovi gli atti che potranno essere assimilati per contenuto ed effetti a quelli ivi elencati.

Traslatio iudicii

Come evidenziato per giurisdizione si intende, concettualmente, la potestas iudicandi ovvero il potere di giudicare applicando la legge, la facoltà di ius dicere è ripartita tra differenti organi giudiziari. Il potere di «conoscere» di una controversia presuppone che si faccia riferimento a delle «regole di condotta» che individuino correttamente la giurisdizione, civile, amministrativa o tributaria. Tuttavia, a causa del susseguirsi di leggi ed orientamenti giurisprudenziali controversi non risulta sempre agevole per l'operatore individuare la giurisdizione da adire. A ciò si aggiunga l'ambiguità e lo scarno contenuto delle norme in materia di giurisdizione. La mancanza di criteri di riparto della giurisdizione, stabili, certi ed univoci si traduce, peraltro, in una disfunzione dell'intero processo che arreca pregiudizio non solo agli operatori giuridici, ma anche e soprattutto alle parti sostanziali della lite. L'individuazione del Giudice dotato di potestas decidendi continua a rimanere un problema applicativo concreto per tutti gli interpreti, così da richiedere l'intervento salvifico della giurisprudenza che nel 2007 ammette la trasmigrabilità della domanda da un giudice all'altro, salvando o quantomeno attenuando le conseguenze dell'erronea individuazione del giudice dotato di potestas decidendi. Con le sentenze della Cass.S.U., n. 4109/2007 e della Corte cost. n. 77/2007, si sdoganava nel nostro sistema processuale latraslatio iudiciidal giudice ordinario a quello speciale e viceversa, ammessa fino a quel momento solamente tra giudice della stessa giurisdizione. L'importanza di tale dirompente decisione, nasceva dall'esigenza di evitare che, una volta dichiarato il difetto di giurisdizione a distanza di molti anni e per le lungaggini processuali, la causa non potesse essere riassunta davanti al giudice dotato di giurisdizione perché, nel frattempo, erano maturate decadenze e prescrizioni.

La vecchia impalcatura processuale era basata, come chiarisce la stessa Corte Costituzionale, sul principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi (retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione dell'aspirazione del neocostituito Stato unitario all'unità della giurisdizione). Il sistema bipartitico prevede da una parte la magistratura ordinaria, istituita per la tutela dei diritti soggettivi e chiamata a dirimere le liti tra soggetti privati e dall'altra, le magistrature speciali (essenzialmente giudice amministrativo, Corte dei conti, giudici tributari), ciascuna dotata di giurisdizione in ambiti preordinati. In presenza di questioni sulla giurisdizione e quindi alla domanda su quale giudice ricada l'onere della decisione, l'art. 65 dell'ordinamento giudiziario, dispone la competenza della Corte di cassazione, in quanto posta al vertice dell'ordinamento giudiziario.

La Suprema Corte con la sentenza n. 4109/2007, modificando precedente orientamento, ha affrontato, incidenter tantum, sul tema della translatio iudicii dal giudice ordinario a quello speciale (e viceversa), premesso che prima di tale momento era impedito al processo erroneamente istaurato innanzi ad un giudice speciale o ordinario di proseguire davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, i giudici di legittimità, hanno ritenuto sussistenti le condizioni per poter affermare che è stato dato ingresso nel nostro ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione.

In particolare, le Sezioni Unite, nella loro funzione di Corte regolatrice della giurisdizione, hanno sottolineato che «seppure in tema di giurisdizione non è espressamente stabilita una disciplina improntata a quella prevista per la competenza (artt. 44, 45 e 50 del codice di rito civile), ammissiva della riassunzione della causa da giudice incompetente a quello competente, neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale».

Così, sulla base di tale assunto, la Corte è andata alla ricerca di quegli elementi della normativa vigente dai quali poter trarre la giustificazione che il principio della trasmigrazione della causa assiste anche le pronunce sulla questione della giurisdizione. Rilevato che, a norma dell'art. 382, comma 3, del codice di procedura civile, la Cassazione senza rinvio è possibile in caso di difetto assoluto di giurisdizione, dovendosi in ogni altro caso cassare con rinvio al giudice munito di giurisdizione, la Corte di cassazione osserva, da un lato, che la norma che esclude l'incidenza sul merito della pronuncia sulla giurisdizione (art. 386 del codice di procedura civile) è indice della proseguibilità del giudizio, e, dall'altro, che l'estensione legislativa del regolamento di giurisdizione al processo amministrativo (art. 30 della l. n. 1034/1971) e a quello tributario (art. 3 del d.lgs. n. 546/1992) impone di interpretare estensivamente l'art. 367, comma 2, del codice di procedura civile (a norma del quale «Se la Corte di Cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza”), ammettendo la riassunzione anche davanti al giudice speciale.

Per tale ragione, a seguito sia di ricorso ordinario ex art. 360, n. 1), del codice di procedura civile — previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 a tutte le decisioni, assumendo la veste di ricorso per contestare innanzi alle Sezioni Unite la giurisdizione del giudice che ha emesso la sentenza impugnata — sia di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario, deve operare la translatio iudicii. La Corte rileva che tale riassunzione sarebbe possibile «per ragioni di completezza sistematica» — «anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione» (non rendendosi, quindi, necessaria la pronuncia delle Sezioni Unite sulla questione di giurisdizione). In conclusione, le Sezioni Unite osservano che il giudice indicato, come munito di giurisdizione, dalla pronuncia declinatoria può “a sua volta dichiarare il proprio difetto di giurisdizione» ma che in tal caso, «nel rispetto del principio che ogni giudice è giudice della propria giurisdizione», il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 362, comma 2, del codice di procedura civile risolve, con il conflitto negativo, la «situazione di stallo».

Successivamente con la sentenza Corte cost. n. 77/2007 la Corte Costituzionale, nel dichiarare incostituzionale una disposizione della l. n. 1034/1971 istitutiva dei Tar (art. 30) che impediva di far salvi gli effetti sostanziali della domanda proposta erroneamente innanzi al giudice ordinario, sconfesserà, seppur solo in parte le argomentazioni proposte dalla Corte di Cassazione nella sentenza Cass.S.U., n. 4109/2007.

Il Giudice delle leggi, pur riconoscendo l'intento ispiratore della sentenza n. 4109 del 2007, escludeva che, «manchi nell'ordinamento un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale». In proposito, affermano i giudici «è sufficiente rilevare che l'espressa previsione della translatio con esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza», non altro può significare se non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto esplicitamente per la competenza».

Premesso ciò, la Corte dà atto che l'ordinamento riconosce l'esistenza di una pluralità di giudici per offrire ai cittadini «una più adeguata risposta alle domande di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta».

Pertanto, i principi costituzionali dell'effettività della tutela e del giusto processo (artt. 24 e 111 della Costituzione), «devono ispirare anche la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice». Nella statuizione in esame, la Corte sollecitava l'intervento del Parlamento al fine di dare compiuta disciplina alle modalità di applicazione della translatio iudicii (forma dell'atto di riassunzione, termini, modalità di notifica o di deposito, etc...) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero, adottare l'opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.

Il legislatore, quanto mai tempestivo, elaborava l'art. 59 della l. n. 69/2009 nel quale a tutti gli effetti introduceva latraslatio judiciinell'ordinamento, riconoscendo quindi il principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel giudizio tempestivamente riassunto a seguito di sentenza declinatoria di giurisdizione.

Orbene, nell'eventualità che la causa venga riassunta nei termini la sentenza produrrà i suoi effetti, nel caso contrario il processo si estingue e la sentenza di declinatoria perde irrimediabilmente i suoi effetti.

Nella sentenza di declinatoria, il giudice dovrà indicare la giurisdizione che secondo la sua valutazione ritiene competente, il giudice così adito potrà a sua volta declinare la propria giurisdizione, ma in tal caso dovrà sarà necessariamente onerato a sollevare il regolamento necessario di giurisdizione (Cass.S.U.n. 23539/20015).

Con ordinanza n. 257 del 23-30 luglio 2009 (Gazz. uff. 5 agosto 2009, n. 31) la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione sollevata da App. Genova il 20 giugno 2008 avente ad oggetto l'illegittimità costituzionale dell'art. 37 c.p.c. (nella parte in cui non prevede che gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice ordinario privo di giurisdizione si conservino — a seguito di pronuncia declinatoria della giurisdizione stessa — nel processo proseguito, entro il termine fissato, davanti al giudice munitone), per contrarietà agli artt. 24 e 113 Cost.

La questione è stata dichiarata inammissibile per appartenere già al diritto vivente sia il principio di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione, sia il principio di conservazione degli effetti della domanda proposta a giudice privo di giurisdizione: sulla scorta di tali princìpi il giudice a quo avrebbe dovuto utilizzare i poteri interpretativi riconosciutogli dalla legge al fine di offrire un'interpretazione della norma censurata idonea a superare i dubbi di costituzionalità, la mancata utilizzazione di tali poteri integrando un'omissione tale da rendere manifestamente inammissibile la questione. La Corte è dunque cristallina nel ritenere onerata la parte, alla luce dell'art. 59 della l. n. 69/2009, alla riassunzione della causa per la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda. Di traslatio iurisdicnionis parla Glendi, che individua per la fattispecie in esame una circolazione dell'azione attraverso le giurisdizioni, all'interno dell'ordinamento nazionale e di definitivo crollo del muro dell'incomunicabilità tra gli ordini giurisdizionali dello Stato (Cass.S.U., n. 13048/2007, Corte cost. n. 363/2008 e Corte cost. n. 131/2010).

La Consulta nell'anno 2011, dichiarava manifestatamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992, sollevata in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost., che imponeva al giudice tributario di rilevare, anche d'ufficio, il proprio difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo, senza nulla statuire in ordine alla conservazione degli effetti della domanda nel nuovo processo che la parte è onerata di promuovere davanti al giudice munito di giurisdizione. La Corte sanciva, inoltre, la presenza nel vigente sistema del diritto processuale civile di fondamentali principi quali:

- il principio di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione, in caso di pronuncia declinatoria della giurisdizione da parte del giudice inizialmente adito;

- il principio di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda proposta al giudice privo di giurisdizione, restando affidata al giudice della controversia l'individuazione degli strumenti processuali per renderli operanti (con riguardo alla disciplina che regola l'istituto della riassunzione della causa) (Corte cost. n. 212/2011).

Così la C.t.p. Benevento 3 febbraio 2010 n.49/1/10 nell'ipotesi in cui, per errore, il contribuente presenti il ricorso dinanzi ad un giudice sfornito di giurisdizione (nella specie, dinanzi al giudice ordinario anzichè dinanzi alla Commissione tributaria), la domanda giudiziale non può essere dichiarata inammissibile, siccome il giudice adito, rilevato il proprio difetto di giurisdizione, deve disporre la translatio iudicii a favore del giudice che ne è fornito. A questo punto, il processo deve essere riassunto presso il giudice fornito di giurisdizione entro il termine indicato nella sentenza, pena l'estinzione dello stesso (che nel rito tributario comporta la definitività dell'atto impugnato). La sentenza rammenta che, a seguito delle innovazioni apportate dall'art. 59 della l. n. 69/2009, la translatio iudicii fra diverse giurisdizioni ha ora un fondamento normativo. Il ricorso presentato per errore ad un giudice privo di giurisdizione (ad esempio, il Tribunale civile in veste di giudice del lavoro) non comporta la perdita del diritto di azione, in quanto opera la c.d. translatio iudicii. Quindi, il giudice rileva il proprio difetto di giurisdizione e la parte procede alla riassunzione con ricorso del processo dinanzi, nella specie, alla Commissione tributaria provinciale competente.

L'effetto interruttivo della decadenza in tal caso rimane fermo, nella misura in cui il ricorso dinanzi al giudice privo di giurisdizione sia stato notificato entro il termine previsto dal d.lgs.n. 546/1992, pertanto entro sessanta giorni dalla notifica dell'atto.

È errato, in conseguenza di ciò, computare il rispetto di tale termine decadenziale con la notifica del ricorso in riassunzione. (C.t.r. Firenze 20 marzo 2012 n. 20/21/12). A seguito della riassunzione del processo dopo la translatio iudicii disposta dal giudice che ha declinato la propria giurisdizione, il giudice della riassunzione può, ai sensi dell'art. 59 comma 3 della l n. 69/2009, sollevare d'ufficio il conflitto di giurisdizione, «fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito».

La facoltà di sollevare il conflitto preventivo di giurisdizione permane quand'anche il giudice della riassunzione si sia già pronunciato sulla domanda cautelare, che non è una decisione propriamente sul merito. Una decisione diversa, peraltro, sarebbe contraria alla funzione della domanda cautelare, nella quale è insita l'urgenza di provvedere (Cass.S.U., n. 2311/2015).

Secondo consolidata giurisprudenza, il termine di tre mesi è il termine ultimo per riassumere la causa innanzi al giudice munito d giurisdizione, quindi la parte che ne ha interesse, ovvero il contribuente, ben può riassumere prima (Cass.S.U., n.  23539/2015). Tuttavia è possibile che il giudice non indichi la giurisdizione innanzi alla quale riassumere il processo e quindi si limiti a dichiarare solamente il proprio difetto di giurisdizione.

La Cassazione, confermando quanto già detto in sede di merito, ha sancito che se la translatio iudicii non è effettuata, si ha una violazione della legge processuale (Cass. n.  10323/2015) onerando la parte alla proposizione dell'appello alla sentenza.

Trattasi, almeno ove la giurisdizione è pacifica (si pensi alla cartella di pagamento su contributi INPS impugnata dinanzi al giudice tributario), di un appello che a prima vista può sembrare superfluo, anche se potrebbe essere rischioso omettere di appellare e riassumere il processo, sostituendo così la condotta processuale della parte alla decisione del giudice.

La sentenza della Cass. n. 7680/2012 toglie dall'empasse offrendo una soluzione di ragionevole economicità, e statuisce che la mancata indicazione del giudice fornito di giurisdizione è colmabile nella misura in cui, nel testo della sentenza, in qualche maniera il giudice abbia comunque individuato il giudice titolare della giurisdizione, anche se in maniera implicita, nel caso in cui, al contrario l'indicazione difetta del tutto, l'appello sarà d'obbligo.

Nel caso di una cartella di pagamento, contenente contributi INPS, sarà sufficiente che indichi giudice ordinario anche senza specificare giudice del lavoro al fine di far operare la translatio iudicii.

Non è necessario che sia indicato, in assenza di una disposizione espressa sul punto, il giudice competente, basta menzionare quello fornito di giurisdizione, ovvero quello ordinario. Poi, se, per assurdo, il riassumente instaurasse il processo dinanzi al giudice fornito di giurisdizione, ma incompetente (al Giudice di Pace in luogo del Tribunale), l'azione rimarrebbe valida, e scatterebbero i meccanismi contemplati dal sistema processuale di riferimento per le questioni di competenza.

Si rammenta da ultimo che, ai sensi dell'art. 59 della l. n. 69/2009, la translatio iudicii mantiene sì gli effetti processuali e sostanziali della domanda, ma rimangono ferme le decadenze intervenute, quindi se il ricorso contro un atto impositivo è notificato oltre i 60 giorni, la translatio iudicii non salva il contribuente dalla decadenza. Nel caso in cui il giudice rileva il proprio difetto di giurisdizione senza indicare null'altro, la sentenza è certamente affetta da un vizio di nullità e quindi in applicazione del principio di conversione del vizio di nullità in motivo di ricorso sarà opportuno appellare la sentenza. Qualora la declaratoria sia stata dichiarata da una Commissione provinciale la Commissione regionale avrà due strade da percorrere. Nel caso ritiene di avere giurisdizione, ai sensi dell'art. 59 comma 1 lett. a) del d.lgs. n. 546/1992, rimette la causa in primo grado, a causa dell'erronea declinatoria di giurisdizione della ctp. Nel caso in cui, al contrario, condivida le conclusioni sul difetto di giurisdizione della magistratura tributaria, potrà disporre la traslatio iudicii a favore del giudice che ne è munito, avendo cura questa volta, di provvedere con specifica individuazione. Le osservazioni appena formulate possono essere accomunate anche all'art. 5 del d.lgs. n. 546/1992 in materia di competenza.

L'istituto delineato non ha alcuna applicazione nei confronti delle giurisdizioni straniere (Cass. n. 5872/2012), medesima soluzione per la giurisdizione penale, difatti la Cass. n. 19707/2012, affronta la questione inerente l'impugnazione di un verbale ASL innanzi al giudice amministrativo. Stante la natura di atto di polizia giudiziaria del verbale della ASL, affermano i supremi giudici, che contesta al Comune di Milano la mancata nomina del Coordinatore della Sicurezza, sia in fase di progettazione che in fase di esecuzione, lo stesso non può essere impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale, che in merito a detti atti di polizia giudiziaria non ha giurisdizione, ma ogni doglianza rientra nella giurisdizione del giudice penale, davanti al quale può essere fatta valere anche la pretesa assenza di responsabilità poichè ricadrebbe la stessa su altri soggetti. La Corte rileva che, essendo questa una questione di merito debba essere fatta valere davanti al giudice dotato di giurisdizione e quindi va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, tuttavia, essendo nello specifico il giudice penale, la Corte afferma la sua incapacità a disporre la «translatio» dell'instaurato giudizio in sede amministrativa, poichè tale istituto della translatio iudicii ha diverse caratteristiche e finalità nel rito processualpenalistico, per cui il giudice penale dovrà essere adito nelle forme di tale rito.

A conclusione sul punto, il difetto di giurisdizione è sempre proponibile dalle parti e rilevabile d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, finché non sia intervenuto il giudicato come inteso ai sensi dell'art. 324 c.p.c. Tale limite non è espressamente previsto dall'art. 3 del d.lgs. n. 546/1992, ma deve ritenersi operante in base ai principi generali e, ciò deve essere coordinato con i principi inerenti la formazione del giudicato, specie con riferimento al c.d. «giudicato implicito». La Cassazione, ribadendo il precedente orientamento, afferma che:

- il difetto di giurisdizione può essere rilevato, anche d'ufficio, dopo l'udienza di trattazione in primo grado;

- la sentenza di primo grado può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione;

- le sentenze del giudice di appello possono essere impugnate per difetto di giurisdizione solo se sul punto non si sia formato il giudicato, intendendosi per tale anche quello «implicito»;

- il giudice può rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione sino a quando non si sia formato il giudicato, esplicito o implicito. (Cass.S.U., n. 23665/2009).

Il limite del giudicato interno, preclusivo della rilevabilità d'ufficio, può verificarsi, secondo la giurisprudenza, nelle seguenti circostanze: una volta che il giudice di primo grado abbia in modo espresso pronunciato sulla giurisdizione, tale questione non può più formare oggetto di rilievo d'ufficio nell'ulteriore corso del processo, ma solo di motivo di impugnazione; sicché analogamente, ove il giudice di appello, pur ancora dalle parti investito della questione di giurisdizione, abbia omesso di pronunciarsi in via pregiudiziale, rendendo direttamente (ed unicamente) la decisione di merito, è precluso nel giudizio di cassazione l'esame d'ufficio della questione medesima ove nessuna delle parti abbia più censurato tale pronuncia con specifico motivo di ricorso per cassazione, con conseguente passaggio in giudicato della stessa nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto la sua giurisdizione (Cass. n. 34/1999). Conseguentemente, qualora non vi sia stata una pronuncia esplicita sulla giurisdizione, o anche implicita (per essere passata in giudicato almeno una parte della pronuncia di merito) è ammissibile ricorrere alle Sezioni Unite civili avverso una sentenza di appello, sollevando, ancorché per la prima volta, la questione della mancanza di giurisdizione del giudice che ha emesso la suddetta sentenza (Cass. n. 12618/1998). Tali statuizioni hanno segnato il passo a pronunce, anche in ambito tributario, su questioni ad oggetto la rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione e ciò in ottemperanza del principio di preclusione del giudicato interno. (Cass. n. 2388/1998, Cass. n. 11278/1997, Cass. n. 5655/1992). Più in generale il principio del giudicato interno è stato chiarito nei termini seguenti: il carattere preliminare, che le questioni attinenti alla giurisdizione hanno rispetto al merito, fa sì che il passaggio in giudicato non solo della pronuncia definitiva sul merito, ma anche delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito precluda l'esercizio, da parte del giudice, del potere (nonché l'esercizio della facoltà delle parti) di rilevare d'ufficio questioni attinenti alla giurisdizione.

In applicazione di tali principi è stata inoltre risolta la vicenda inerente la questione sul difetto di giurisdizione del giudice tributario in tema di sanzioniexart. 3, comma 3. l. n. 73/2002.

Tale difetto, rilevano i giudici di Cassazione nella sentenza n. 14374/2013, non è stato sollevato dal ricorrente nei pregressi gradi di giudizio.

Il principio costituzionale della durata ragionevole del processo consente, quindi, come nella fattispecie, di escludere la rilevabilità davanti alla Corte di cassazione, del difetto di giurisdizione qualora sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della implicita pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello. È, quindi, inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 329, comma 2, c.p.c.

Effetti della pronuncia sulla giurisdizione

Mentre nel caso dell'incompetenza opera la translatio iudicii e il processo continua davanti al giudice competente, il difetto di giurisdizione dà luogo ad unaabsolutio ab instantiache chiude definitivamente il processo escludendone la continuazione in altra sede, a meno che sussistano i presupposti ed i termini non siano ancora scaduti, affinché l'azione possa essere iniziata innanzi al giudice munito di giurisdizione. Difatti, al processo tributario non è applicabile la norma di carattere eccezionale di cui all'art. 34 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, sulla rimessione in termini in caso di errore scusabile avanti al giudice avente giurisdizione. Inoltre il giudice tributario, contrariamente agli atri giudici, non può emettere una sentenza sulla giurisdizione che sia parziale o non definitiva e ciò in quanto nel processo tributario, l'art. 35 d.lgs. n. 546/1992, norma speciale rispetto all'art. 279, comma 2, n. 4 e 5 c.p.c. dispone che «non sono tuttavia ammesse sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande».

A differenza delle sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione — cui, per la funzione istituzionale di organo regolatore della giurisdizione, spetta il potere di adottare decisioni dotate di efficacia esterna (cosiddetta efficacia panprocessuale) — le sentenze dei giudici ordinari di merito, come quelle dei giudici amministrativi, che statuiscano sulla sola giurisdizione, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato in senso sostanziale ed a spiegare, perciò, effetti al di fuori del processo nel quale siano state rese, essendo le sentenze dei detti giudici suscettibili di acquistare autorità di giudicato (esterno) anche in tema di giurisdizione, solo se, in esse, la statuizione — sia pure implicita — sulla giurisdizione si coniughi con una statuizione di merito (Cass. n. 802/1999, Cass. n. 45/1999).

Va segnalato che, mentre in passato era pacifico che il giudicato esterno fosse deducibile in ogni altro giudizio fra le medesime parti solo in via di eccezione (Cass. n. 12011/1991), secondo un recente mutamento di giurisprudenza l'eccezione di giudicato esterno è stata ritenuta rilevabile d'ufficio e il giudice è tenuto a pronunciarsi al riguardo qualora il giudicato stesso risulti dagli atti prodotti nel corso del giudizio di merito; pertanto, in mancanza di pronuncia del giudice di merito, la Corte di Cassazione può rilevare d'ufficio la questione ed accertare l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena. (Cass. n. 9050/2001).

Regolamento preventivo di giurisdizione

Il regolamento preventivo di giurisdizione è un mezzo «eccezionale e straordinario», offerto alle parti, per ottenere più rapidamente una decisione definitiva sulla giurisdizione, prima che sulla questione si pronuncino i giudici successivamente investiti della causa, e ciò mediante istanza direttamente proposta alla Corte di Cassazione, supremo organo regolatore delle giurisdizioni, la cui decisione è vincolante ed esclude qualunque ulteriore discussione sul punto deciso.

La principale funzione del regolamento di giurisdizione è di economia processuale (Cass.S.U., n. 3520/1977), poiché attraverso esso le parti (anche l'attore) possono ottenere subito una pronuncia sulla giurisdizione munita di efficacia vincolante, evitando lo svolgimento, nei vari gradi di cognizione, di attività giurisdizionali eventualmente inutili. Non è un mezzo di impugnazione perché «previene» la decisione del giudice sul punto.

Il comma 2 dell'art. 3 del d.lgs. n. 546/1992 stabilisce esplicitamente l'ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione nel processo tributario e richiama in particolare l'art. 41, comma 1, del codice di procedura civile che lo disciplina. In realtà la dottrina aveva ritenuto ammissibile detto regolamento anche nel previgente contenzioso tributario in forza dell'ampio rinvio al Libro I del codice di procedura civile contenuto nell'art. 39 del d.P.R. n. 636/1972; così che l'attuale disposizione avrebbe un contenuto solo «apparentemente» innovativo.

Anche in giurisprudenza il regolamento preventivo di giurisdizione era stato ritenuto ammissibile nell'ambito del procedimento avanti alle Commissioni tributarie (Cass. n. 878/1972); nonché nel caso di azione proposta avanti al giudice ordinario in materia devoluta alle Commissioni tributarie (Cass. n. 6042/1983) anche in pendenza di procedimento avanti alla giurisdizione tributaria. È da condividersi l'opinione della dottrina secondo cui il richiamo dell'art. 41, comma 1, del codice di procedura civile comporta l'applicabilità delle disposizioni dello stesso codice che ne disciplinano il procedimento, i limiti di ammissibilità, gli effetti, come già si riteneva nel sistema previgente. In effetti la stessa circolare n. 98/E del 23 aprile 1996 del Ministero delle finanze richiama espressamente anche gli artt. 365 e seguenti in tema di ricorso per cassazione.

Il ricorso per regolamento di giurisdizione va proposto alla Corte di cassazione ai sensi degli art. 365 ss. c.p.c. (l'art. 41, comma 1, stabilisce che «ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite»; questo significa che senz'altro il ricorso va deciso dalle Sezioni unite, senza escludersi, tuttavia, che possa essere deciso anche dalla sezione semplice, ove sul punto si siano già espresse le Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, comma 1, c.p.c.), se del caso in via incidentale ove proveniente dall'intimato (Cass.S.U., n. 19667/2003). Deve, quindi, essere presentato da un avvocato iscritto nell'apposito albo e munito di procura speciale (sul controricorso v. anche Cass.S.U., n. 8371/2006).

Più in particolare si ricorda che il regolamento preventivo di giurisdizione si propone con ricorso nelle forme di cui all'art. 366 c.p.c. presso la Suprema Corte ai sensi dell'art. 365 c.p.c. e con deposito di copia del ricorso stesso presso la segreteria della Commissione tributaria ai sensi dell'art. 367 c.p.c.; in caso di decisione a favore della giurisdizione in cui il processo sia stato sospeso, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza ai sensi dell'art. 367, comma 2, del codice di procedura civile, nelle forme — per quel che riguarda il processo tributario — di cui all'art. 43 del d.lgs. n. 546/1992.

Con riferimento ai limiti di ammissibilità e proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione si può distinguere un «momento iniziale», anteriormente al quale non è possibile esperire tale rimedio, da un «momento finale», interno al procedimento di primo grado, oltre al quale non è più ammesso il regolamento di giurisdizione.

Relativamente all'individuazione del momento iniziale è necessario che la controversia tributaria sia pendente, cioè il ricorso deve già essere stato proposto e il ricorrente regolarmente costituito in giudizio.

Con riferimento al momento finale, oltre al quale non è più ammesso il regolamento di giurisdizione, circostanza impeditiva della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione è una decisione di merito da parte della Commissione tributaria provinciale: testualmente, il regolamento è proponibile «finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado» (cfr. art. 41, comma 1, c.p.c.).

Lo spartiacque, per la tempestività o meno della proposizione del giudizio, è fissato dal momento in cui la causa è stata trattenuta per la decisione di merito. In dottrina il momento preclusivo del regolamento di giurisdizione, con particolare riferimento al processo tributario, è individuato nel momento in cui si conclude la discussione in pubblica udienza ex art. 34 del d.lgs. n. 546/1992 o nel momento per il deposito delle brevi repliche scritte previste dall'art. 32 del d.lgs. n. 546/1992. In presenza di taluni provvedimenti adottati dal giudice prima della sentenza di 1 grado e privi di attitudine al giudicato la Corte ha statuito l'ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, tra questi rientrano, i provvedimenti sull'istanza di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato Cass. n. 3144/2003, (Cass. n.1808/2003) i provvedimenti interdittali in esito alla fase sommaria del giudizio possessorio (Cass. n. 2062/2003), i provvedimenti di sospensione necessaria del processo in caso di rimessione alla Corte Costituzionale di questione di legittimità costituzionale (Cass. n. 13918/2002), i provvedimenti cautelari (Cass. n. 9332/2002). Risulta quindi ammessa la possibilità di proporre il regolamento preventivo di giurisdizione anche dopo la decisione sulla richiesta di sospensione dell'atto impugnato ex art. 47 del d.lgs. n. 546/1992.

La Corte di Cassazione Cass.S.U., ord. n. 80/1999 ha statuito sui limiti di ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, sulla base anche della nuova formulazione dell'art. 367 c.p.c.

La Corte è giunta alla conclusione che il regolamento preventivo di giurisdizione non è proponibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una sentenza, anche solo limitata alla giurisdizione, in quanto la formula della prima parte dell'art. 4 c.p.c. anziché essere interpretata nel senso che solo una pronuncia che abbia attinto il merito della causa preclude il regolamento, deve essere letto nel senso che qualsiasi decisione emanata dal giudice presso il quale il processo è radicato, ha efficacia preclusiva del regolamento, come se dicesse: «finché non sia intervenuta una decisione sulla causa in sede di merito», dovendosi ritenere che il legislatore modificando l'art. 367 c.p.c. e rinunciando a disciplinare il regolamento di giurisdizione come impugnazione, nonostante che tale ipotesi si fosse profilata prima della riforma, ha reso più chiaro il carattere preventivo del regolamento, escludendone la proponibilità ogniqualvolta la risoluzione della questione della giurisdizione possa essere rimessa al giudice processualmente sovraordinato, secondo l'ordinario svolgimento del processo (Cass. n. 2466/1996 e successive conformi); considerato che, nel caso di specie, l'intervenuta pronuncia declinatoria della giurisdizione è ostativa alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, che va, pertanto, dichiarato inammissibile; oltremodo, ciò premesso il regolamento preventivo non sarebbe più alternativo rispetto all'atto di appello (Cass. n. 2466/1996).

Tale regolamento è inoltre proponibile in presenza di provvedimenti presidenziali di inammissibilità del ricorso o di estinzione del processo, ma solamente nel limitato periodo in cui essi siano ancora reclamabili e quindi non vi sia ancora la sentenza di primo grado prevista (sul reclamo) dall'art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 546/1992 (a termini di reclamo scaduti invero i provvedimenti presidenziali suddetti sono idonei a chiudere definitivamente il giudizio di primo grado). Di segno contrario in presenza di provvedimenti presidenziali di sospensione o interruzione del processo, il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche a reclamo esperito, trattandosi di provvedimenti insuscettibili di acquisire efficacia di giudicato.

La proposizione di istanza di regolamento preventivo di giurisdizione a norma dell'art. 367 del codice di procedura civile nel testo modificato dall'art. 61 della l. n. 353/1990, non produce più la sospensione del processo pendente, potendo questa essere disposta dal giudice dinanzi al quale il processo pende solo all'esito di un giudizio sommario in ordine alla non manifesta inammissibilità o infondatezza dell'istanza medesima, con la conseguenza che, qualora non sia stata disposta la sospensione, il processo può proseguire ed essere definito in primo grado prima che la questione di giurisdizione sia decisa.

In tale caso si è ritenuto dalla giurisprudenza che il dovere delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di pronunciare sulla proposta questione di giurisdizione non trova ostacolo nella sentenza del giudice di primo grado che contenga od implichi una decisione anche in ordine alla giurisdizione, né nel fatto che, a seguito di tale sentenza, non impugnata, si sia formato il giudicato sulle questioni decise. La sentenza del giudice nel processo pendente può equipararsi ad una sentenza condizionata, nel senso che, ove la decisione della Corte Suprema di Cassazione sia di segno contrario a quello ritenuto o presupposto dal giudice di merito, la sentenza di quest'ultimo, sia sulla giurisdizione che sulle questioni logicamente successive, risulterà priva di effetto, a nulla rilevando che tale sentenza non sia stata impugnata, atteso che imporre alla parte di impugnarla solo per conservare il diritto alla decisione sulla questione di giurisdizione significherebbe costruire la disciplina del regolamento su di un uso strumentale dell'impugnazione (Cass. n. 905/1999).

A fronte della declaratoria di giurisdizione da parte della Corte di Cassazione, che afferma la giurisdizione del giudice tributario, la parte dovrà riassumere la causa al fine della prosecuzione del giudizio.

Orbene, il termine perentorio è di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza della Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 367, comma 2, cpc. Si applica quindi, la normativa civilistica e non quella tributaria in quanto manca una specifica disposizione e non potendosi applicare analogicamente l'art. 63, comma 1, che attiene ad altra fattispecie quale la riassunzione del giudizio a seguito di cassazione con rinvio. La riassunzione dovrà essere formulata con apposita istanza come prevede l'art. 43 del d.lgs. n. 546/1992.

Bibliografia

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