Codice Civile art. 10 - Abuso dell'immagine altrui.Abuso dell'immagine altrui. [I]. Qualora l'immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni. InquadramentoIl diritto all'immagine (art. 10 c.c.) è, assieme al diritto al nome in precedenza commentato, pienamente annoverabile tra i diritti della personalità, in quanto comunque dotato di una propria intrinseca autonomia. In tal senso la dottrina, secondo cui, premesso che per «immagine» ai sensi dell'art. 10 c.c. si intende «la rappresentazione visiva delle sembianze della persona, cioè la riproduzione grafica delle sue fattezze», il diritto all'immagine si traduce nel «diritto di apparire se e quando si voglia: e ciò non è soltanto complementare della libertà individuale, ma anche affermazione della personalità», essendo tal diritto inerente alla persona, come tale (così Bavetta, 144, che vede nel diritto all'immagine un diritto persona della personalità, attributo proprio di ogni essere umano, come tale assoluto ed esclusivo, che non può essere oggettivizzato). Parzialmente conforme all'impostazione che precede è la tesi che vede il diritto all'immagine ad una delle manifestazioni positive del diritto alla riservatezza, intesa quest'ultima quale «modo d'essere della persona il quale consiste nella esclusione della altrui conoscenza di quanto ha riferimento alla persona medesima», sicché «il diritto all'immagine è diritto alla non-conoscenza altrui dell'immagine del soggetto; ed è violato dall'arbitraria conoscenza della stessa immagine» (così De Cupis, 285-286, secondo cui in particolare il c.d. diritto all'immagine si traduce nel «diritto al riserbo nei riguardi della propria immagine, del proprio aspetto fisico, così com'è percettibile visivamente», che soddisfa quindi un'esigenza spirituale di isolamento, che inibisca la pubblicità della propria immagine, in ossequio al c.d. diritto alla riservatezza o right of privacy; riferimenti anche in Giacobbe, 1243, e Bavetta, 144). Per altra opinione, in realtà, il diritto all'immagine va oltre la semplice sfera di riserbo personale, traducendosi esso nel diritto del soggetto «di controllare la circolazione, la diffusione e la riproduzione visiva di aspetti della propria persona, non solo al fine di occultarli, ma sempre più per trarne profitto economico» (così Zeno Zencovich, 541, che ivi sottolinea il duplice aspetto di tal diritto, non più solo limitato alla difesa da altrui ingerenze, ma altresì esteso al profilo di utilizzazione economica della propria immagine). Per altri, poi, vi sarebbe piena compenetrazione tra il diritto all'identità personale e il diritto all'immagine, con traslazione della tutela dall'immagine fisica a quella sociale (riferimenti in Finocchiaro, 721) e tra il diritto alla riservatezza ed il diritto all'identità personale (Alpa - Ansaldo, 471). E’ comunque pacifico che l'immagine «non può solo configurarsi come segno distintivo essenziale, volto a rappresentare sembianze e aspetto fisico del soggetto, ma anche più in generale come espressione, modo d'essere della personalità nel suo complesso» (Alpa - Ansaldo, 446 secondo cui, comunque, la tutela dell'immagine finisce così per ricollegarsi a quella dell'identità personale e della personalità nella sua globalità). In quest'ultimo senso, la giurisprudenza preferisce richiamarsi alla «immagine sociale» della persona, così da non ingenerare confusione tra il diritto alla riservatezza, come tale, ed il diritto all'immagine: «L'interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonché, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore o la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 cost. in tema di difesa della personalità nella complessità ed unitarietà di tutte le sue componenti, ed inoltre tutelabile in applicazione analogica della disciplina dettata dall'art. 7 c.c. con riguardo al diritto al nome, con la conseguente esperibilità, contro i suddetti comportamenti, di azione inibitoria e di risarcimento del danno, nonché possibilità di ottenere, ai sensi del comma 2 del citato art. 7, la pubblicazione della sentenza che accolga la domanda, ovvero, se si tratti di lesione verificatasi a mezzo della stampa, anche la pubblicazione di una rettifica a norma dell'art. 42 della l. 5 agosto 1981 n. 416» (Cass. I, n. 3769/1985). Pertanto «l'identità personale» è un diritto soggettivo perfetto, il cui fondamento giuridico è da rinvenire nell'art. 2 della Costituzione, è venuta emergendo, nella più recente elaborazione giurisprudenziale, come bene — valore costituito dalla proiezione sociale della personalità dell'individuo, cui si correla un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, a non vedere quindi, all'esterno, modificato, offuscato o comunque alterato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale quale già estrinsecatosi o destinato, comunque, ad estrinsecarsi, nell'ambiente sociale, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche (Cass. I, n. 978/1996). Per la tesi maggioritaria si pronuncia, invece, il Trib. Milano, 12 febbraio 2013, secondo cui il diritto all'immagine deve identificarsi nel diritto della persona a che la propria immagine non venga divulgata, esposta o comunque pubblicata senza il suo consenso e fuori dai casi previsti dalla legge e rientra nella categoria dei diritti assoluti, costituzionalmente riconosciuti dall'art. 2 della Costituzione e giuridicamente tutelati dagli artt. 10 e 2043 c.c. La riproduzione consentita dell'immagine altruiIl diritto all'immagine ex art. 10 si traduce dunque nel divieto di abusare dell'immagine altrui. il suddetto divieto di abuso dell'altrui immagine si traduce, in positivo, nel diritto di ognuno a prestare il proprio consenso allo sfruttamento della propria immagine, salvo che sia la legge stessa a consentirne la divulgazione. È peraltro possibile acconsentire all'utilizzo della propria immagine sia a titolo gratuito, sia a titolo oneroso (ad es., mediante un contratto atipico di sponsorizzazione). Il principio è ben espresso dalla legislazione speciale. Il riferimento è, in particolare, all'art. 96 della l. 22 aprile 1941, n. 633, secondo cui il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa. Più di recente, importanti riferimenti normativi sono contenuti nel c.d. Codice della Privacy (d.lgs. n. 196/2003), con riguardo ai c.d. «dati sensibili» (ovvero «i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale»: art. 4, lett. d), d.lgs. n. 196/2003 ove è previsto all'art. 26, comma 1, d.lgs. n. 196/2003, che i predetti dati «possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell'interessato e previa autorizzazione del Garante, nell'osservanza dei presupposti e dei limiti stabiliti dal presente codice, nonché dalla legge e dai regolamenti», salvo le deroghe contenute al comma 3 e 4 del medesimo articolo, e con il divieto assoluto di diffusione dei «dati idonei a rivelare lo stato di salute» dell'interessato (comma 5); circa i c.d. «dati personali» (intendendosi per tale, ai sensi dell'art. 4, lett. b, ogni «informazione relativa a persona fisica identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale») dispone l'art. 23 del d.lgs. n. 196/2003 che il loro trattamento è ammesso elusivamente previo consenso «espresso» dell'interessato (comma 1), che può aver riguardo tanto all'intero trattamento del dato quanto ad una o più operazioni dello stesso (comma 2), importante essendo esclusivamente che il predetto consenso al trattamento sia «validamente prestato» (il consenso è validamente prestato, come specificato al comma 3, se esso «è espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, se è documentato per iscritto, e se sono state rese all'interessato le informazioni di cui all'articolo 13»). Oggi la disciplina è stata profondamente incisa dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati adottato (Reg. n. 2016/679 adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 27 aprile 2016, cd. GDPR) con il quale si è provveduto ad uniformare ed armonizzare la disciplina settoriale in materia di protezione dei dati personali, prevedendo, ad esempio, che il consenso dell'interessato non costituisce più la regola per il trattamento dei dati ma solo uno dei requisiti (art. 6 par. 1), alternativamente richiesti, affinché il trattamento possa dirsi lecito. Invero, l'attuale art. 1 del cd. Codice della Privacy così come novellato dal d.lgs. n. 101/2018 prescrive che il trattamento dei dati personali avviene secondo le norme del citato Reg. n. 2016/679 nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Più in particolare, il trattamento dei dati (art. 6) è da considerarsi lecito qualora ricorrano almeno una delle seguenti condizioni: a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un'altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore. Quanto alle condizioni per il consenso, prevede l'art. 7 del citato Regolamento che “Se il consenso dell'interessato è prestato nel contesto di una dichiarazione scritta che riguarda anche altre questioni, la richiesta di consenso è presentata in modo chiaramente distinguibile dalle altre materie, in forma comprensibile e facilmente accessibile, utilizzando un linguaggio semplice e chiaro”; si rimarca, inoltre, che il consenso è sempre revocabile dall'avente diritto “in qualsiasi momento”. Altra ipotesi di tutela del diritto all'immagine la si rinviene nell'art. 8 del d.lgs. n. 30/2005 (codice della proprietà industriale) secondo cui i ritratti di persone non possono essere registrati come marchi senza il consenso degli aventi diritto. Il terzo comma prescrive, poi, che “Se notori, possono essere registrati o usati come marchio solo dall'avente diritto, o con il consenso di questi, o dei soggetti di cui al comma 1: i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le immagini che riproducono trofei, le denominazioni e sigle di manifestazioni e quelli di enti ed associazioni non aventi finalità economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi”. Una particolare ipotesi codificata dal legislatore di tutela della propria immagine si ritrae dall'art. 114 comma 6-bis c.p.p., come recentemente novellata, a mente del quale “È vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”. In dottrina, è stato sottolineato come il consenso allo sfruttamento della propria immagine si traduca in effetti in un atto autorizzativo a carattere unilaterale, che può essere sia espresso che tacito (e quindi desumibile da facta concludentia: riferimenti in Zeno Zencovich, 541). In quanto negozio giuridico unilaterale, l'atto è sempre revocabile (Bavetta, 144, secondo cui «la persona è arbitra di consentire la divulgazione della propria immagine, come di vietarla; ed il divieto non può essere precluso nemmeno da un precedente consenso, perché questo non attiene al diritto, che è rimasto sempre al ritrattato, ma solo al suo esercizio»; così anche Zeno Zencovich, 542, secondo cui «l'avere acconsentito una volta alla pubblicazione dell'immagine non implica una definitiva abdicazione del titolare, occorrendo invece verificare la portata effettiva dell'autorizzazione medesima»; contra De Cupis, 299), salvo il rispetto del generale precetto di correttezza e buona fede che potrebbe esporre il titolare del diritto all'obbligo del risarcimento del danno nei confronti del destinatario del consenso (sempre Bavetta, 144). Sicché le sembianze della persona non possono essere esposte, riprodotte e messe in commercio contro la volontà della persona, se non nei casi previsti dalla legge. Al netto della forma di espressione del consenso e della sua natura giuridica, si discute pure della capacità richiesta in capo all'avente diritto a tali fini e si ritiene, in dottrina, che sia sufficiente la capacità di intendere e di volere (così Alpa – Ansaldo, 450; contra Cuffaro, 223). Tale impostazione sembra recentemente avvalorata dal nuovo Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati di cui al Reg. n. 2016/679 del 27 aprile 2016 il quale prevede che con riguardo ai servizi offerti dalla società dell'informazione “il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un'età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale”, aggiungendo che “Gli Stati membri possono stabilire per legge un'età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni”. In attuazione di tale disposizione, il legislatore italiano, con l'art. 2 quinquies del Codice della privacy, come novellato con d.lgs. n. 101/2018, prevede che il minore che abbia compito i 14 anni è ammesso ad esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all'offerta diretta di servizi dalla società di informazione, mentre per il minore infraquattordicenne è ammesso il trattamento dei dati previo consenso prestato da coloro che sullo stesso esercitano la responsabilità genitoriale. Vi è dunque un'anticipazione della capacità a prestare il consenso al trattamento dei dati personali ad un momento precedente all'acquisto della capacità di agire. In giurisprudenza, si veda Trib. Roma, 7 ottobre 1988, secondo cui «L'efficacia del consenso, idoneo a far venir meno l'illiceità della divulgazione del ritratto di una persona, deve essere contenuta entro il rigoroso ambito della prestazione, nei limiti in cui il consenso stesso fu dato (limite oggettivo della diffusione) e con riguardo esclusivo al soggetto o ai soggetti nei cui confronti fu prestato (limite soggettivo)». Più di recente, Cass. pen., V, n. 30664/2008, per la quale «Il consenso prestato a essere ritratti in fotografia non vale come scriminante quando l'immagine è poi pubblicata sul giornale in un contesto diverso, che implica valutazioni negative sulla persona effigiata» Di recente il Trib. Mantova, 19 settembre 2017, ha stabilito che l'inserimento delle foto dei figli minori sui social network nonostante l'opposizione di uno dei genitori integra violazione dell'art. 10 c.c., che vieta la pubblicazione di foto e immagini senza il consenso dell'avente diritto, nonché degli artt. 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003, riguardante la tutela della riservatezza dei dati personali, nonché degli artt. 1 e 16, comma 1, della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo. Circa la natura dell'atto autorizzativo, e la sua revocabilità, Cass. I, n. 1748/2016, secondo cui il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all'immagine, che in quanto tale non può costituire oggetto di negoziazione, ma soltanto l'esercizio di tale diritto. Il consenso in parola, pertanto, sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto, resta tuttavia distinto ed autonomo dalla pattuizione che lo contiene, con la conseguenza che esso è sempre revocabile, quale che sia il termine eventualmente indicato per la pubblicazione consentita, ed a prescindere dalla pattuizione del compenso, che non costituisce un elemento del negozio autorizzativo in questione, stante la natura di diritto inalienabile e, quindi, non suscettibile di valutazione in termini economici rivestita dal diritto in discussione. Il consenso può anche essere tacito. Invero, secondo la Cass. I, n. 27381/2013, in tema di privacy, la circostanza che i dati personali siano stati resi noti alla stampa direttamente dagli interessati in una pregressa occasione non ha valore di consenso tacito al trattamento, poiché l'interessato può essere contrario a che l'informazione da lui già resa nota riceva una ulteriore e più ampia diffusione. Interessante quanto al riguardo statuito dalla Cass. I, n. 9982/2016, secondo cui, in tema di trattamento dei dati personali c.d. comuni per finalità promozionali e commerciali mediante messaggi di testo (SMS) su utenze telefoniche mobili: a) la regola introdotta dal D.Lgs. n. 196/2003, art. 23, comma 3, secondo cui il consenso al trattamento è validamente prestato, tra l'altro, se è documentato per iscritto, attiene non alla forma di manifestazione del consenso in questione — come, invece, stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al comma 4 dello stesso art. 23 —, ma al contenuto dell'onere probatorio gravante sul titolare dei dati personali; b) al titolare dei dati personali è imposto di dare documentazione per iscritto dell'assenso anche orale, esplicitato dall'utente del servizio, al trattamento dei medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia mobile; c) la documentazione per iscritto può essere integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di cui all'art. 2712 c.c., effettuate dal titolare del trattamento, salva l'eventuale successiva verifica dell'idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto dell'acquisita annotazione (in tema, cfr anche art. 17 Direttiva 2002/58/CE). Secondo la Cass. I, n. 17399/2015, la revoca del consenso al trattamento dei dati personali può essere espressa dall'interessato con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un legale di fiducia. Oltre al consenso scriminante, è ammessa la riproduzione dell'altrui immagine anche nei casi previsti dalla legge. In particolare, il principio ivi enucleato è contenuto nell'art. 96 della l. 22 aprile 1941, n. 633, secondo cui il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa», salvo che la riproduzione dell'immagine sia in concreto «giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (così l'art. 97 della medesima legge, che prosegue vietando la riproduzione dell'immagine altrui anche in questi casi eccezionali se «l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla riputazione od anche al decoro nella persona ritrattata»). Come è stato notato in dottrina, in questi casi «il diritto del privato, dunque, viene ad essere sacrificato in funzione dell'interesse preminente della collettività a conoscere l'immagine di quelle persone che si sono comunque esposte all'attenzione generale o che a tale attenzione è opportuno siano richiamate, per i motivi (didattici, scientifici, culturali, di polizia, ecc.) previsti dalla legge» (Bavetta, 144). Per quanto riguarda, in particolare, le persone munite di notorietà, e cioè quelle persone che in un modo o nell'altro si sono imposte all'attenzione generale della collettività, è stato sostenuto che esse in questo caso subiscono «quel sacrificio del loro riserbo personale che è imposto dal serio e giustificato interesse della collettività alla conoscenza della loro effigie e dei loro atti» (testualmente, De Cupis, 301, secondo cui, appunto, «il fatto d'essere celebre, di irradiare, cioè, la fama di sé su una vasta sfera di pubblico, comporta indubbiamente una restrizione del riserbo personale»). In linea generale, per la giurisprudenza, si veda la Cass. I, n. 2527/1990, secondo cui le ipotesi previste nell'art. 97 della legge n. 633/1941 sul diritto di autore, nelle quali l'immagine della persona ritrattata può essere riprodotta senza il consenso della persona stessa, sono giustificate dall'interesse pubblico all'informazione, con la conseguenza che, avendo carattere derogatorio del diritto all'immagine, sono di stretta interpretazione: il predetto interesse pubblico non ricorre ove siano pubblicate immagini tratte da un film e la pubblicazione avvenga in un contesto (nella specie, la rivista mensile «Playboy») diverso da quello proprio dell'opera cinematografica e della sua commercializzazione. In questi termini, più di recente, Cass. III, n. 11353/2010, secondo cui in tema di autorizzazione dell'interessato alla pubblicazione della propria immagine, le ipotesi previste dall'art. 97 l. 22 aprile 1941 n. 633, ricorrendo le quali l'immagine può essere riprodotta senza il consenso della persona ritratta, sono giustificate dall'interesse pubblico all'informazione; di conseguenza, avendo carattere derogatorio del diritto alla immagine, quale diritto inviolabile della persona tutelato dalla Costituzione, sono di stretta interpretazione. Ancor più di recente, Cass. III, n. 17211/2015, secondo cui l'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui, a norma dell'art. 10 c.c., e della L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 96 e 97, sul diritto d'autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge come idonee a escludere la tutela del diritto alla riservatezza (quali la notorietà del soggetto ripreso, l'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie d'interesse pubblico o svoltisi in pubblico), ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l'esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima. In altri termini, le ipotesi previste dalla l. 22 aprile 1941, n. 633, art. 97, comma 2, ricorrendo le quali l'immagine può essere riprodotta senza il consenso della persona ritratta, sono giustificate dall'interesse pubblico all'informazione, determinando una pretesa risarcitoria solo se da tale evento derivi pregiudizio all'onore o al decoro della medesima. Sul punto, anche Cass. III, n. 8880/2020 secondo cui le disposizioni di cui alla l. n. 633/1941, artt. 96 e 97 e l'art. 10 c.c. prescrivono che l'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui sia abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge come idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza - quali la notorietà del soggetto ripreso, l'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svolti in pubblico - ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l'esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all'onere, alla reputazione o al decoro della persona medesima (cfr. in particolare l'art. 97, comma 2). E’ stato in particolare ritenuto nella citata pronuncia che la pubblicazione dell'immagine di un minore in scene di manifestazioni pubbliche (o anche private, ma di rilevanza sociale) o di altre iniziative collettive non pregiudizievoli, in assenza di consenso al trattamento validamente prestato, è legittima, in quanto aderente alle fattispecie normative di cui all'art. 97 della l. n. 633 del 1941, se l'immagine che ritrae il minore possa considerarsi del tutto casuale ed in nessun caso mirata a polarizzare l'attenzione sull'identità del medesimo e sulla sua riconoscibilità. Di recente, è stato sostenuto che l'interesse pubblico alla diffusione di una notizia, in presenza delle condizioni legittimanti l'esercizio del diritto di cronaca, va distinto dall'interesse alla pubblicazione o diffusione anche dell'immagine delle persone coinvolte, la cui liceità postula, giusta la disciplina complessivamente desumibile dagli artt. 10 c.c., 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, 137 del d.lgs. n. 196/2003 ed 8 del codice deontologico dei giornalisti, il concreto accertamento di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata ai fini della completezza e correttezza della divulgazione della notizia, oppure il consenso delle persone ritratte, o l'esistenza delle altre condizioni eccezionali giustificative previste dall'ordinamento (Cass. I, n. 4477/2021). Vale la pena citare inoltre Cass. I, n. 19515/2022 secondo cui l’esimente prevista dall'art. 97 della l. n. 633 del 1941 ricorre non solo allorché il personaggio noto sia ripreso nell'ambito dell'attività da cui la sua notorietà è scaturita, ma anche quando la fotografia lo ritrae nello svolgimento di attività a quella accessorie o comunque connesse, fermo restando, da un lato, il rispetto della sfera privata in cui il personaggio noto ha esercitato il proprio diritto alla riservatezza, dall'altro, il divieto di sfruttamento commerciale dell'immagine altrui, da parte di terzi, al fine di pubblicizzare o propagandare, anche indirettamente, l'acquisto di beni e servizi (In attuazione di questo principio, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva ritenuto che l'esimente legata alla notorietà di un famoso calciatore fosse strettamente correlata soltanto nell' ambito dell'attività sportiva, ritenendo quindi che non potessero essere utilizzate, in difetto di consenso, foto del calciatore che lo ritraevano mentre scendeva da un aereo brandendo la coppa appena vinta con la squadra, altra fotografia che lo ritraeva insieme ad altri noti calciatori della nazionale italiana dell'epoca durante un ritiro della nazionale, un'altra, infine, che lo ritraeva nel corso di un'intervista). La riproduzione illecita. TutelaQuanto alla illegittima diffusione dell'immagine altrui, perché posta in essere – in negativo – al di fuori dei casi e dei modi previsti dalla legge (es. oltre il consenso legittimamente prestato), ovvero più semplicemente perché la diffusione si traduce nella lesione del diritto fondamentale all'onore o alla reputazione, l'art. 10 c.c. predispone un fitto apparato di tutela, che va dal tradizionale risarcimento del danno, nel caso in cui il danno si sia già consumato, fino ad approdare alla c.d. tutela inibitoria, la cui funzione principale è appunto quella di evitare che il danno si produca. Quanto alla legittimazione ad agire in giudizio, trattasi di una norma che eccezionalmente prevede una legittimazione, estesa oltre ovviamente al titolare del diritto, anche ai parenti più stretti (i cc.dd. «congiunti» di cui all'art. 10 c.c., ovvero i genitori, il coniuge ed i figli, in parallelo a quanto previsto dall'art. 8 con riguardo alla legittimazione ad agire dei familiari a tutela del nome del loro caro, al cui commento si rimanda). Quanto detto è esplicitato, ancora una volta, dalla disciplina in tema di diritto d'autore (l. n. 633/1941), secondo cui, se dovesse sopraggiungiungere la morte della persona il cui diritto d'immagine sia stato leso (e quindi vi sia stata illecita raffigurazione della persona di cui si tratta), sono legittimati ad agire in giudizio il coniuge, i figli, o in subordine i genitori, i fratelli, le sorelle, o in ultima analisi gli ascendenti e i discendenti sino al quarto grado (come risulta dal combinato disposto degli artt. 96, comma 2, e 93, comma 2, della l. n. 633/1941) Orbene, rivendicata in dottrina l'autonomia della tutela predisposta per all'diritto di immagine rispetto agli altri diritti fondamentali (Bavetta, 144, «La tutela del diritto all'immagine viene apprestata in via autonoma, cioè indipendentemente da ogni e qualsiasi forma di tutela che sia relativa ad altri diritti personali»), qualora sia in atto uno sfruttamento abusivo dell'altrui immagine, perché il titolare non ha prestato il consenso a tal uopo richiesto, ovvero perché lo sfruttamento è andato oltre i limiti posti dall'atto autorizzativo o dalle disposizioni di legge, l'art. 10 consente al titolare di chiedere all'autorità giudiziaria la cessazione dell'atto illecito, mediante azione inibitoria, che per consolidata opinione può essere fatta valere anche d'urgenza ex art. 700 c.p.c. (in questo senso Resta, 1043; nonché De Cupis, 320), anche a prescindere dalla colpa (sempre De Cupis, 314; conforme Bavetta, 144, secondo cui «La tutela del diritto in parola si attua primariamente con il far cessare tutti quei fatti ed atti che comunque rappresentino lesione del relativo diritto, indipendentemente dalla sussistenza o meno di colpa da parte dell'autore della lesione»; per Messinetti, 355, «l'inibitoria rappresenta la reazione istantanea e naturale contro l'antigiuridicità di un comportamento»). Sempre salva la facoltà per il titolare del diritto di richiedere, in aggiunta, il risarcimento del danno. Nel senso dell'esperibilità della tutela inibitoria anche in via d'urgenza, Pret. Roma, 6 luglio 1987, secondo cui può disporsi con provvedimento d'urgenza l'inibitoria dello sfruttamento a scopi pubblicitari dell'immagine del sosia di persona nota, avvenuta senza il consenso di quest'ultima, nel caso in cui il messaggio pubblicitario sia articolato in modo da trarre in errore i destinatari sulla vera identità del soggetto ritratto, ovvero anche solo in modo da far supporre la non estraneità della persona nota all'operazione pubblicitaria. Più di recente, Trib. Roma, 24 maggio 2005, secondo cui «È illegittima, e può essere inibita anche in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c., la pubblicazione senza il consenso dell'interessato dell'immagine di un noto attore, tratta da un film altrettanto famoso, allo scopo di pubblicizzare una manifestazione politica, a nulla rilevando che l'attore abbia ceduto a terzi i diritti di sfruttamento dell'opera cinematografica»; nonché Trib. Torino, 31 marzo 2010, secondo cui il periculum in mora sussiste in re ipsa nel caso di illecito sviamento di clientela e lesione dell'immagine commerciale di un concorrente stante l'irreparabilità dei danni derivanti dagli stessi. Con specifico riguardo al rimedio risarcitorio, che concerne tanto il danno patrimoniale che quello non patrimoniale, qualora il danno si sia già effettivamente prodotto, non potendo essere più inibito, non rimane al titolare che agire esclusivamente risarcitoria per richiedere il ristoro del danno patito, sussistendone ovviamente i presupposti (in primis, la colpa del danneggiante). Al riguardo, egli può chiedere al giudice una reintegrazione in forma specifica, affinché venga ripristinato lo status quo precedente alla suddetta lesione (Bavetta, 144, «al rimedio della cessazione del fatto lesivo e contro l'illegittima diffusione dell'immagine è riconosciuta all'interessato la possibilità di chiedere che siano compiuti tutti quegli atti idonei ad eliminare l'abuso ed a riparare le conseguenze dannose dallo stesso prodotte»), reintegrazione che può tradursi tanto nell'eliminazione di tutti i mezzi attraverso i quali l'immagine è stata diffusa, quanto mediante la pubblicazione della sentenza che ha accertato l'illegittimità della divulgazione dell'immagine (cfr. l'art. 7, comma 2, c.c.). Quanto al risarcimento per equivalente pecuniario, il danno risarcibile potrà avere consistenza sia patrimoniale che non patrimoniale, ma è ben vero che, nella maggior parte dei casi, esso sarà di tipo non patrimoniale, incidendo il pregiudizio sulla sfera morale della persona (onore, riservatezza, decoro). Del tutto superata la tesi che limita la risarcibilità del danno non patrimoniale alle sole condotte integranti fatti penalmente rilevanti, secondo la ormai dominante tesi dell'atipicità del danno non patrimoniale (per tutti, Bianca, V, 189; Messinetti, 355, e Bavetta, 144; contra, De Cupis, 318). In questo senso, in giurisprudenza, Cass. III, n. 11353/2010, secondo cui alla lesione del diritto all'immagine consegue, oltre al diritto al risarcimento dei danni patrimoniali sei provati, anche il diritto al risarcimento di quelli non patrimoniali, soluzione confermata dal rilievo che, trattandosi di diritto costituzionalmente protetto (art. 2 Cost.), vale il principio più volte enunciato da questa Corte, secondo cui la relativa lesione non è soggetta al limite derivante dalla riserva di legge prevista dall'art. 185 c.p., e non presuppone la qualificabilità del fatto come reato: in buona sostanza, quindi, il rinvio di cui all'art. 2059 c.c. ricomprende anche, se non soprattutto, le disposizioni aventi rango Costituzionale, dato che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale (conf. Cass. III, n. 12433/2008). Così anche la giurisprudenza di merito, secondo cui, in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., va riconosciuto anche il danno non patrimoniale — unitariamente inteso — subito in conseguenza del grave abuso del diritto all'immagine, dell'illecito trattamento dei dati personali e dalla particolarmente invasiva interferenza nella vita privata. Il danno non patrimoniale viene ravvisato nel presumibile turbamento e nella sofferenza psicologica che l'attore è stato costretto a subire nel vedere numerose immagini private raffiguranti momenti di relax ed anche intimi, colti di nascosto contro la sua volontà (Trib. Milano, 7 novembre 2013) A quest'ultimo riguardo, deve essere sottolineato come, nell'ottica del legislatore, la lesione del diritto alla propria immagine sia strettamente intrecciato con il diritto al proprio decoro ed alla propria reputazione. Lo testimonia non solo lo stesso art. 10 c.c., il quale legittima ad agire in giudizio il titolare del diritto qualora si verifichi un «pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti», ma anche l'art. 97 l. n. 633/1941, secondo cui in particolare, pur non occorrendo il consenso della persona ritrattata nei casi eccezionali dalla stessa norma previsti, «Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla riputazione od anche al decoro nella persona ritrattata» (art. 97, comma 2, l. aut.). Secondo la Cass. III, n. 24221/2015, la divulgazione dell'immagine, senza il consenso dell'interessato, con riguardo alla particolare ipotesi del ritratto di persona che possa definirsi notoria, è lecita soltanto se ed in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione, (sia pure intesa in senso lato), non anche, pertanto, ove sia rivolta a fini pubblicitari, sicché ai fini dell'abuso di cui all'art. 10, «è necessario che la divulgazione dell'immagine, sia in fotografia che, come nella specie, in filmati televisivi, non sia necessitata o giustificata da finalità di informazione, bensì utilizzata, senza consenso, per finalità commerciali o pubblicitarie. Più in generale, secondo la Cass. III, n. 17211/2015, per cui l'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui a norma dell'art. 10 c.c. e degli artt. 96 e 97l. n. 633/1941 sul diritto d'autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge come idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza (quali la notorietà del soggetto ripreso, l'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico), ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l'esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima. Nel medesimo senso, importante il principio enunciato da Cass. I, n. 15360/2015 recentemente ribadito da Cass. I, n. 4477/2021 secondo cui la presenza delle condizioni legittimanti l'esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell'immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli art. 10 c.c., 96 e 97 della l. n. 633/1941, nonché dell'art. 137 del d.lgs. n. 196/2003 e dell'art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell'ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita» (nella specie, la Supr. Corte ha cassato la sentenza di merito che, nel caso di un servizio televisivo realizzato mediante riprese occulte e concernente le pratiche ingannevoli perpetrate nel settore delle offerte di lavoro, aveva completamente pretermesso ogni accertamento di uno specifico interesse alla conoscenza dell'immagine del soggetto coinvolto, erroneamente presunto una volta ritenuto quello inerente alla divulgazione della notizia). In definitiva, l'interesse pubblico che legittima il sacrificio del diritto all'immagine costituzionalmente garantito — al pari di altri diritti della personalità riconducibili all'art. 2 — anche della persona nota, è solo quello di pari rango, riconducibile all'art. 21 Cost., che si ravvisa in presenza di una qualche utilità sociale per la collettività a conoscere e ad essere informata su un determinato fatto o su un certo comportamento tenuto e che può avere rilievo con l'attività svolta dalla persona nota o con l'immagine di sé che l'interessato ha inteso fornire alla collettività (Trib. Milano, 7 novembre 2013). La morte "digitale". Il diritto all'oblioCi si potrebbe domandare – in positivo – se il diritto all'immagine si estingue con la morte del soggetto ovvero se, al contrario, sussiste una legittima disponibilità della propria immagine post mortem, trasmissibile in via successoria agli stretti congiunti (Dogliotti, 391). Si è detto che, di regola, non vi è alcuna disposizione che vieti all'interessato di disporre, in via successoria, del proprio patrimonio virtuale composto, ad es., da monete virtuali o da contenuti protetti dal diritto d'autore (Alpa, 272). Si discorre, in dottrina, di «morte digitale», che consiste nella dissociazione tra l'esistenza biologica di un individuo e la sua «persona elettronica», a seguito del decesso. Si discorre, ancora, di tutela postmortale della dignità e dell'identità del defunto (cfr. ampiamente Resta, 891). In tema di successione nel “patrimonio digitale” , si distingue tra: (i) dati incorporati in un supporto fisico – come un disco rigido, un CD, un DVD, una chiavetta USB – che sia nella disponibilità del de cuius, non dubitandosi che esso, congiuntamente al suo contenuto (file di testo, file musicali, immagini, video, etc.) cadrà in successione secondo le regole ordinarie; (ii) parimenti, non pone particolari problemi nemmeno l'ipotesi dei beni sui quali insistono diritti di proprietà intellettuale (ad es. siti web tutelati dal diritto d'autore) poiché, sussistendo un diritto patrimoniale su bene immateriale ne conseguirà la caduta in successione dei diritti di privativa (fatte salve le previsioni in materia di prerogative morali dell'autore); (iii) più difficile, invece, la questione della successione nella posizione contrattuale stipulata dall'utente in rete (ad es. profilo Facebook, o la libreria musicale di ITunes in base ad un comune contratto di licenza d'uso). Si ritiene, in particolare, che la fruizione e a maggior ragione il trasferimento di tali diritti sia ammissibile nei limiti in cui ciò sia consentito dalla disciplina negoziale, con il problema, tuttavia, del trasferimento delle password di accesso. Se, in linea generale, le condizioni generali di contratto adottate da Second Life ribadiscono espressamente l'ammissibilità di una disposizione testamentaria avente ad oggetto la posizione di parte contrattuale (con un complesso meccanismo finalizzato al trasferimento dell'account all'erede o al legatario), di fatto avviene il contrario. Si registra, cioè, una preferenza per la regola dell'intrasmissibilità della posizione: generalmente le condizioni generali di contratto sottoscritte dall'utente stabiliscono infatti che, in caso di decesso della parte aderente, il rapporto verrà a estinzione e non sarà possibile trasmettere a terzi la posizione contrattuale (cfr. ancora Resta, 891). Peraltro, l'art. 2 terdecies del novellato Codice della Privacy prevede che “I diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione”. In negativo, viene in rilievo la figura del diritto all'oblio, ossia il diritto di un soggetto a non vedere pubblicate alcune notizie relative a vicende, già legittimamente pubblicate, rispetto all'accadimento delle quali è trascorso un notevole lasso di tempo (Finocchiaro, 592) . Con l'avvento di internet il diritto all'oblio si è evoluto e si traduce nel diritto a che una notizia, già presente in rete, sia giustamente collocata nel tempo, attribuendo così un giusto peso all'informazione nell'ambito di uno scenario complessivo che vede l'identità come protagonista. Il diritto all'oblio nell'era di internet si traduce anche nel diritto alla cancellazione, al blocco, al congelamento dei dati o all'opposizione al trattamento dei dati personali. In buona sostanza, colui che sia stato vittima di una pubblicazione della propria immagine sul web può agire, in via inibitoria, proprio in virtù del proprio diritto all'oblio, al fine di ottenere la cancellazione della predetta immagine. Il Reg. (UE) n. 2016/679 del 27 aprile 2016 dedica un'apposita disposizione al diritto all'oblio, l'art. 17, a mente della quale l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l'obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti: a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; b) l'interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all'art. 6, paragrafo 1, lettera a), o all'art. 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento; c) l'interessato si oppone al trattamento ai sensi dell'art. 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell'art. 21, paragrafo 2; d) i dati personali sono stati trattati illecitamente; e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all'offerta di servizi della società dell'informazione di cui all'art. 8, paragrafo 1 Nota la dottrina che il diritto all'oblio si distingue dal diritto alla privacy, in quanto nel nostro caso (oblio) «l'interesse che reclama tutela ha ad oggetto notizie (attinenti al vissuto della persona) già sfuggite alla riservatezza ed alla sfera di appartenenza esclusiva del titolare, delle quali si vuole, quindi, impedire non la circolazione, ma una nuova circolazione»; e si distingue parimenti dal diritto all'identità personale (Morelli, 848, secondo cui il diritto all'oblio può essere sacrificato solo se vi sia una esigenza di utilità sociale, e sempre nel rispetto del diritto all'identità personale) Il diritto all'oblio può quindi essere annoverato tra i diritti della personalità di nuova emersione, che trova la necessaria copertura costituzionale nell' art. 2 Cost. (Morelli, 848; contra Finocchiaro , 600, secondo cui il diritto all'oblio, non costituendo autonomo diritto della personalità, è semplicemente strumentale, o al diritto all'identità personale o al diritto alla protezione dei dati personali), il quale, in ottica di bilanciamento con l'altro fondamentale diritto di cronaca ex art. 21 Cost. , può essere legittimamente sacrificato solo «ove ricorra la triplice condizione: dell'utilità della notizia (limite del pubblico interesse); della verità dei fatti divulgati (limite della verità); della forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio (limite della continenza)» (così sempre Morelli, 848). In merito, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che «anche in caso di memorizzazione nella rete internet, mero deposito di archivi dei singoli utenti che accedono alla rete e cioè dei titolari dei siti costituenti la fonte dell'informazione (c.d. siti sorgente), deve riconoscersi al soggetto cui pertengono i dati personali oggetto di trattamento ivi contenuti il diritto all'oblio, e cioè al relativo controllo a tutela della propria immagine sociale, che anche quando trattasi di notizia vera, e a fortiori se di cronaca, può tradursi nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento dei medesimi, e se del caso, avuto riguardo alla finalità della conservazione nell'archivio e all'interesse che la sottende, financo alla relativa cancellazione» (così Cass. III, n. 5525/2012 ). In seguito, in tema si è pronunciata la C.G.U.E, 13 maggio 2014 , n. 131 , nonché C.G.U.E., 9 marzo 2017 , n. 398 ed ancora la C.G.U.E. UE grande sezione, 8 dicembre 2022, n. 460. In generale, per Cass. pen. VI, n. 39452/2016 , la pubblicazione di notizie (nella specie, attinte illegittimamente dagli atti di un fascicolo custodito nell'archivio del Consiglio superiore della magistratura, al fine di darne copia a un giornalista che avrebbe poi provveduto alla divulgazione) relative a procedimenti disciplinari su vicende riguardanti la vita privata di un magistrato e assai risalenti nel tempo, in mancanza di interesse pubblico attuale alla conoscenza del fatto, determina violazione del diritto all'oblio. Sul punto vi è da annotare la pronuncia della Cass. S.U., n. 19681/2019 , secondo cui «In tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all'oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall' art. 21 Cost. – ha il compito di valutare l'interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l'interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (nella specie, un omicidio avvenuto ventisette anni prima, il cui responsabile aveva scontato la relativa pena detentiva, reinserendosi poi positivamente nel contesto sociale)» (massima ufficiale). Di recente, sul tema, cfr. Cass. I, n. 7559/2020 nonché Cass. I, n. 9147/2020 e Cass. I, n. 15160/2021 . Con quest'ultima pronuncia si è anzitutto premesso che il diritto all'oblio, strettamente connesso a quello alla riservatezza ed al rispetto della propria identità personale, ma in una prospettiva evolutiva, si traduce nell'esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un'identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo. Tale diritto trova tutela nello strumento della «deindicizzazione» (oggi espressamente avallata dalla previsione dal «diritto alla cancellazione», denominato nel titolo anche «diritto all'oblio», previsto dall'art. 17 del Regolamento UE n. 2016/679 ), applicabile ogni qual volta l'interesse all'indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all'esigenza di tutela dell'identità personale, nel senso dinamico suindicato. Orbene, secondo la S.C., «il diritto all'oblio va considerato, atteso il comune fondamento nell' art. 2 Cost. , in stretto collegamento con i diritti alla riservatezza ed all'identità personale. Nel bilanciamento tra l'interesse pubblico all'informazione, anche mediante l'accesso a database accessibili attraverso la digitalizzazione di una parola chiave, ed i diritti della personalità suindicati, il primo diviene recessivo allorquando la notizia conservata nell'archivio informatico sia illecita, falsa, o inidonea a suscitare o ad alimentare un dibattito su vicende di interesse pubblico, per ragioni storiche, scientifiche, sanitarie o concernenti la sicurezza nazionale. Tale ultima esigenza presuppone, peraltro, la qualità di personaggio pubblico del soggetto al quale le vicende in questione si riferiscono. In difetto di almeno uno di tali requisiti, la conservazione stessa della notizia nel database è da reputarsi illegittima, e lo strumento cui l'interessato può fare ricorso è la richiesta di «cancellazione» dei dati, alla quale il prestatore di servizi, nella specie Google, è tenuto a dare corso, anche in forza delle menzionate sentenze delle Corti Europee. Nelle ipotesi in cui sussiste, invece, un interesse pubblico alla notizia, l'interessato, i cui dati non siano indispensabili - non rivestendo il medesimo la qualità di un personaggio pubblico, noto a livello nazionale - ai fini della attingibilità della notizia sul database, può richiedere ed ottenere la «deindicizzazione», in tal modo bilanciandosi il diritto ex art. 21 Cost., della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale. In siffatta ipotesi, sussiste, invero, un diritto dell'interessato ad evitare che la possibilità di un accesso agevolato, protratto nel tempo, ai dati personali, attraverso il mero uso di una parola chiave possa ledere il suo diritto all'oblio, inteso in correlazione al diritto all'identità personale, come diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale, e costituente oggetto di notizie ormai archiviate e superate». Più di recente, si segnala Cass. I, n. 2893/2023, secondo cui in tema di trattamento dei dati personali e di diritto all'oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell'archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell'assoluzione dell'imputato, purché, a richiesta dell'interessato, l'articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l'archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell'interessato, all'articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell'esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, così contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale; cfr., sul tema, anche Cass. I, n. 6806/2023 secondo cui In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all'oblio, anche nel regime precedente al Regolamento UE 27 aprile 2016 n. 679 (GDPR), applicabile ratione temporis, il gestore di un sito web non è tenuto a provvedere, a seconda dei casi, alla cancellazione, alla deindicizzazione o all'aggiornamento di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, ancorché relativo a fatti risalenti nel tempo, in difetto di richiesta dell'interessato che è la sola a far scaturire in capo al gestore l'obbligo di provvedere senza indugio. BibliografiaBavetta, voce Identità (diritto alla), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 953; Bavetta, voce Immagine (diritto alla), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 144; Benatti, voce Danno all’immagine, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. VI, Torino, 2011, 275; Bianca, Diritto Civile, V, La responsabilità, Milano, 2012; Candian, voce Anonimato (diritto all’), in Enc. dir., II, Milano, 1958, 499; Cuffaro, il consenso dell’interessato, in Cuffaro-Ricciuto, La disciplina del trattamento dei dati personali, Torino, 1997; De Cupis, I diritti della personalità, vol. IV, in Tr. C. M., Milano, 1982; Finocchiaro, Il diritto all'oblio nel quadro dei diritti della persona, in dir. inf., 4-5, 2014, 591 ss.; Finocchiaro, voce Anonimato, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. I, Torino, 2010, 12 ss.; Finocchiaro, voce Identità personale (diritto alla), in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 2010, 721 ss.; Giacobbe, Riservatezza (diritto alla), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1243; Messinetti, voce Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 355; Morelli, voce Oblio (diritto all’), in Enc. dir., Agg. VI, Milano 2002, 848 ss.; Resta, Anonimato, responsabilità, identificazione: prospettive di diritto comparato, in Dir. inf., 2014, 2, 171; Resta, La «morte» digitale, in Dir. inf., 2014, 6, 891; Resta, Diritti della personalità: problemi e prospettive, in Dir. inf., 2007, 6, 1043; Ruffini Gandolfi, voce Diritto alla riservatezza, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1990, 69; Zeno Zencovich, I diritti della personalità, in Dir. civ., vol. I, t. 1, Le fonti e i soggetti, Milano, 2009, 495. |