Codice Civile art. 2 - Maggiore età. Capacità di agire (1).Maggiore età. Capacità di agire (1). [I]. La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno [48 Cost.]. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa [84 2, 90, 165, 250 5, 264 2, 291, 390, 774]. [II]. Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro [324, 375, 901 c. nav.]. In tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro. (1) Articolo così sostituito dall'art. 1 l. 8 marzo 1975, n. 39. InquadramentoAnche in questo caso il legislatore non fornisce una definizione dell'istituto, limitandosi a fissare un termine (maggiore età) a partire dal quale un soggetto può dirsi presuntivamente fornito di capacità d'agire. La capacità d'agire logicamente presuppone la previa sussistenza della capacità giuridica, e cioè l'attitudine alla titolarità di diritti di carattere patrimoniale, dalla quale però deve essere nettamente distinta, in quanto concetto dinamico, e non già statico. Il possesso della piena capacità di agire è un requisito necessario affinché l'atto giuridico negoziale posto in essere sia valido, non viziato. Per la dottrina (Bianca, 209), la capacità d'agire è «la generale idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale», ovvero (Giardina, 281), «l'idoneità del soggetto a porre in essere un'attività giuridicamente rilevante — consistente nell'acquisto o nell'esercizio di diritti ovvero nell'assunzione di obblighi — mediante una manifestazione di volontà che l'ordinamento considera a priori cosciente e consapevole». Si tratta, dunque, di una «attitudine ad acquistare e ad esercitare col proprio volere, ossia da sé solo, diritti soggettivi, o di assumere, col proprio volere, ossia da sé solo, obblighi giuridici, cioè di compiere gli atti (di natura personale o patrimoniale) della vita civile» (Messineo, 227). Detto in altri termini, la capacità di agire si traduce nella possibilità giuridica per il soggetto di porre in essere fatti giuridici e provocare la costituzione di effetti giuridici, di rivelare interessi pratici previsti dal diritto o incidere su di essi, mettendo in moto i meccanismi con cui la legge garantisce la loro tutela (così Falzea, 8). Anche la giurisprudenza indica la capacità d'agire quale «idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale, ivi compresa la idoneità ad esercitare in prima persona i diritti di cui è titolare» (così Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giur., n. 633/2013). Se quindi vi è sostanziale concordia in merito alla definizione del concetto di capacità d'agire, non tutti, però, distinguono tra capacità giuridica e capacità d'agire, non avendo per alcuni alcun senso frammentare il panorama giuridico con concetti tra loro parzialmente sovrapponibili, ben potendo infatti entrambe le nozioni possono essere ricomprese nell'unico concetto di «capacità» (così Stanzione, Persona fisica, 1; contra Falzea, 8: «L'autonomia della capacità giuridica rispetto alla capacità di agire deve considerarsi una definitiva conquista della civiltà e segna un fondamentale progresso degli ordinamenti giuridici moderni rispetto agli ordinamenti primitivi, nei quali il diritto e lo Stato esistevano ed operavano unicamente per quei membri della comunità che fossero non soltanto liberi, ma anche capaci di difendersi»). E' chiara, invece, la distinzione tra capacità di agire e capacità naturale, intesa quest'ultima come idoneità di intendere e volere. La capacità (naturale) è in particolare il substrato di fatto su cui si poggia la capacità (legale) d'agire, nel senso che la prima presuppone la seconda. Si presume, cioè, che chi abbia raggiunto la maggiore età abbia acquisito la capacità di agire, ma non si presume, e deve essere provato, che in quel determinato contesto il maggiorenne fosse, per fatti transitori o permanenti (non tali, comunque, da provocare l'interdizione), sfornito di incapacità naturale, cioè a dire non in grado di intendere e di volere rispetto quel determinato negozio giuridico unilaterale o bilaterale (art. 428 c.c.) che è dunque annullabile. L'acquisto della capacità d'agire: la maggiore etàL' art. 2 c.c. , non fornendo alcuna precisa definizione della capacità d'agire, si limita soltanto a fissare nella maggiore età il limite temporale a partire dal quale un soggetto può dirsi dotato di capacità negoziale (c.d. capacità generale d'agire), con abbassamento del limite originariamente imposto (ventuno anni) a diciotto con l' art. 1 l. 8 marzo 1975, n. 39 . Si presume cioè che il minore di età non sia in grado di comprendere, per la sua immaturità, i vantaggi di un affare ed è per questo che l'ordinamento lo ritiene incapace di concludere contratti o altri atti negoziali a contenuto patrimoniale (Alpa, 216). Sono comunque fatte salve le ipotesi a carattere eccezionale in cui tale attitudine è acquisita prima di tal momento. Tali ipotesi eccezionali, determinano quella che si suole definire la c.d. «capacità d'agire speciale», o «anticipata», in cui l'ordinamento consente che vengano compiuti validi atti giuridici a prescindere dal compimento della maggiore età, data la particolare rilevanza degli atti in questione. Altra parte della dottrina preferisce discorrere di «semicapacità» o preparazione alla piena capacità (Dogliotti, 56). Trattasi, in particolare, di atti aventi carattere personale, oltre che patrimoniale, e perciò suscettibili di insistere sulla sfera intima di cui ogni individuo è dotato: a titolo esemplificativo, si veda l' art. 250, comma 5, c.c. , il quale ammette che in negozio giuridico unilaterale del riconoscimento del figlio possa essere validamente posto in essere anche dai genitori «che non abbiano compiuto il sedicesimo anno d'età», previa autorizzazione del giudice, rilasciata a seguito di congrua valutazione delle circostanze e «avuto riguardo all'interesse del figlio»; la stessa disposizione normativa, al comma 2, statuisce che «il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso» (analoga disposizione è contenuta nell' art. 7, comma 2, l. n. 184/1983 , che richiede il consenso del quattordicenne alla propria adozione); in tema di capacità (d'agire) per contrarre matrimonio, dispone l' art. 84 c.c. che, se di regola è richiesto a tal fine la maggiore età, ciò nonostante il Tribunale può con decreto «ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni», dopo aver accertato la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni ivi addotte, e dopo aver sentito i soggetti all'uopo interessati (comma 2). Tuttavia, la dottrina (Alpa, 217) è concorde nel ritenere che l'emancipato è fornito di una capacità giuridica attenuata e non piena, nel senso che egli non può compiere gli atti di straordinaria amministrazione se con l'assistenza di un curatore previa autorizzazione del Tribunale, pena l'annullabilità degli stessi (artt. 394 e 396 c.c.), a meno che non si verta in tema di continuazione dell'esercizio di un'attività commerciale, nel qual caso l'emancipato, previa autorizzazione del Tribunale, potrà compiere anche atti di straordinaria amministrazione relativi all'impresa (art. 397 c.c.) e ciò per l'ovvia ragione che, altrimenti, l'attività commerciale sarebbe paralizzata. Altre ipotesi di acquisto della capacità di agire prima del compimento del 18° anno di età riguardano: (a) gli atti giuridici relativi alle opere dell'ingegno (art. 108 l. n. 633/1941); (b) il minore emancipato è ammesso per la stipula di convenzioni matrimoniali (art. 165 c.c.) che sono valide a condizione, tuttavia, che egli sia assistito dai genitori, dal tutore o da un curatore speciale nominato ad hoc ex art. 90 c.c.; (c) con il compimento dei sedici anni l'adolescente ha diritto ad assistere, se è possibile, all'inventario dei propri beni (art. 363 c.c.). L'art. 2046 c.c., al contrario, sembra rifarsi al concetto di capacità di intendere e di volere, da valutarsi caso per caso e non già di capacità di agire. D'altro canto, lo stesso art. 2 c.c. , al secondo comma, dopo aver fatto salve le leggi speciali che anticipano la capacità lavorativa ad un momento anteriore al compimento della maggiore età, abilita il minore «all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro», potendo così ad agire in proprio, ad es., per chiedere ed ottenere la retribuzione del lavoro prestato, ovvero al fine di recedere dal contratto di lavoro. Secondo alcuni, il minore avrebbe la capacità di stipulare il contratto di lavoro (Moscati, 1141, e Bianca, 214), in virtù del rispetto della libertà di lavoro, che «non può essere negata al minore che abbia acquistato la capacità giuridica lavorativa» (contra, tuttavia, Stanzione, 742). Per altri, invece, in base all'art. 2 comma 2 c.c. il minore ha soltanto la capacità (giuridica) a prestare l'attività lavorativa, cioè ad esercitare i diritti e le azioni che dipendono dal contratto, ma non anche la capacità (d'agire) a stipulare il contratto di lavoro se non con l'assistenza del suo rappresentante legale (genitori, tutore), sicché il relativo contratto stipulato dal minore in proprio deve ritenersi annullabile, sebbene sottoposto alla disciplina speciale di cui all'art. 2126 c.c. (Rescigno, 213). Per la giurisprudenza, in virtù della «riserva di legge» vigente in tema di capacità giuridica e di agire, le deroghe alla regola secondo cui la capacità di agire si acquista al compimento del 18° anno (c.d. capacità speciale d'agire), devono essere determinate necessariamente con legge ordinaria, non potendo altre fonti a carattere subordinato in nessun modo incidere su tale principio generale (come, ad es., un regolamento scolastico: Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giur., n. 633/2013). In ogni caso si afferma, sempre in giurisprudenza, che per essere titolare di un rapporto possessorio diretto, trattandosi di un atto giuridico volontario e non di attività negoziale, è sufficiente la capacità naturale di agire, cioè la capacità di intendere e di volere della quale può essere dotato in concreto anche il minore di età, poiché soltanto l'assoluta incapacità di volere vale ad escludere l'elemento intenzionale del possesso (Cass. II, n. 6878/1986). Vi sono pure ipotesi in cui la legge riconosce una determinata capacità di agire – intesa in senso ampio – ad un'età superiore a quella indicata dalla norma in commento, come avviene nel caso dell'adozione di maggiorenne (art. 291 c.c.) o dell'adozione di minori (artt. 6 e 44 l. adozioni), sebbene in tali casi, comunque, il soggetto acquista la piena capacità d'agire con il compimento della maggiore età, sebbene tali disposizioni speciali richiedano un'età superiore ai fini dell'adozione. Quanto al termine «atti» contenuto nella norma in esame, si scontrano due diverse opinioni: per la prima, il riferimento agli atti va inteso nella sua totalità, includendovi quindi sia i negozi che i meri atti giuridici; per la seconda, invece, tale termine va interpretato in senso restrittivo, riferito cioè ai soli negozi giuridici, essendo invece per gli atti giuridici in senso stretto sufficiente la mera capacità naturale (in quest'ultimo senso Bianca, 216, che appunto non ritiene necessaria la capacità d'agire per il compimento dei meri atti giuridici, a condizione però che questi siano leciti e che non arrechino ad altri pregiudizio; conforme Falzea, 8, secondo cui rispetto ai meri atti giuridici non ricorre la capacità di agire, non trattandosi di fatti umani: in questo caso «si potrà parlare unicamente di una capacità naturale di intendere e di volere, val quanto dire, di una situazione di fatto»; nello stesso senso anche Stanzione, 740). A quest'ultima tesi, d'altronde, aderisce anche la giurisprudenza, secondo cui l'atto di acquisto del possesso – avente natura non negoziale, essendo richiesta la sola volontà di esercitare la propria signoria sul bene, derivando invece l'effetto giuridico dell'adprehensio direttamente dalla legge – non occorre la capacità di agire, necessaria per i negozi giuridici, ma è sufficiente la capacità d'intendere e di volere (c.d. capacità naturale) della quale può essere dotato in concreto anche il minore di età (Cass. II, n. 4072/1986 ). Le ipotesi di incapacità d'agire: in particolare, la minore etàA tutela delle persone che siano sfornite «in tutto o in parte» della capacità di agire sono previsti una serie di istituti, diversamente modulati a seconda che abbiano riguardo a soggetti totalmente (è il caso della minore età e dell'interdizione), o parzialmente privi di capacità d'agire (ai casi di ridotta capacità d'agire ha riguardo l'inabilitazione e, da ultimo, l'amministrazione di sostegno, a cui va aggiunto il caso del minore emancipato, in virtù del matrimonio da questo precedentemente contratto). Come è stato notato da autorevole dottrina, tali soggetti — per così dire intrinsecamente «deboli» — sono comunque forniti di soggettività giuridica, essendo quest'ultima una prerogativa dell'essere umano come tale (così Falzea, 8: premesso, infatti, che la soggettività giuridica trova il suo normale svolgimento nella capacità di agire, ben «si può essere soggetti di diritto senza avere capacità di agire», non essendo quest'ultima una prerogativa intrinseca del soggetto di diritto). Se per quanto riguarda l'interdizione, l'inabilitazione, l'amministrazione di sostegno e l'emancipazione è necessario far rinvio al prosieguo della trattazione, conviene già in questa sede approfondire la condizione giuridica cui è sottoposto il minore non emancipato, essendo la maggiore età elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 2, in commento. In effetti, da una lettura a contrario dell'art. 2 c.c. risulta che il minore non emancipato non è ammesso a compiere atti a carattere negoziale, salvo che non sia a tal fine prevista una diversa capacità speciale. Si vuol dire, dunque, che a tal soggetto, in quanto del tutto sfornito della capacità d'agire, non è concesso incidere sulla propria sfera giuridica mediante atti giuridici a carattere negoziale, se non con l'ausilio di un rappresentante, il quale agisce in sostituzione del primo e nel suo interesse (ad eccezione degli atti personalissimi, ove è inammissibile tale sostituzione: Giardina, 286). Da un punto di vista tipicamente patologico, l'atto compiuto in assenza di capacità d'agire non è inefficace, quanto piuttosto annullabile, dunque medio tempore idoneo a produrre effetti, almeno fino a che non ne venga chiesto l'annullamento (così Arena, 910, secondo cui l'incapacità di agire, che presuppone a sua volta l'incapacità di intendere o di volere, «non si traduce in una impossibilità di assumere comportamenti giuridici, bensì comporta una inidoneità ad assumerli validamente: in linea di principio l'atto compiuto dall'incapace produce i suoi effetti, anche se sorge contemporaneamente il potere di rimuoverli»). Ne consegue, quindi, che gli atti eventualmente compiuti dagli incapaci non sono del tutto inidonei a sortire gli effetti loro propri (distingue Ruperto, 86, tra la condizione giuridica dell'infante — al quale è da negarsi qualsiasi attitudine alla vita giuridica per la mancanza in esso d'una volontà cosciente, con conseguente radicale nullità degli atti eventualmente compiuti — da quella del minore d'età, al quale può essere eccezionalmente riconosciuta una certa attitudine alla vita giuridica, relativamente a tutti quei minuti atti della vita quotidiana, e che comunque è solo causa di annullabilità del negozio posto in essere). L'atto posto in essere da un soggetto incapace, nel nostro caso da un minore non emancipato, è da un punto di vista «effettuale» instabile, e più precisamente annullabile. L'annullabilità è quindi il tipico vizio che designa la situazione di un negozio giuridico posto in essere con la partecipazione di un incapace; ne consegue che, nelle more in cui questa venga fatta valere, l'atto è comunque produttivo di effetti. Tale regola è enunciata, relativamente ai contratti, nell'art. 1425 c.c., secondo cui è causa di annullabilità del contratto il fatto che una delle parti, resasi protagonista dell'atto di autonomia privata, sia «legalmente incapace di contrattare», salvo che il minore stesso abbia, con raggiri, tratto in inganno l'altra parte occultando la propria età (art. 1426 c.c.). Si ritiene in dottrina, argomentando in base al carattere protettivo della disciplina prevista a favore del minore (Giardina, 297: «L'incapacità legale di agire nasce come strumento destinato a dare spazio alla protezione di particolari persone (considerate non in grado di gestire i propri interessi)»), che l'art. 1425 non possa essere inteso, di per sé solo, come preclusivo di qualsiasi negozio giuridico, dovendo il minore poter compiere tutti quegli atti che, per ripetere la felice espressione dell'art. 409 c.c. in tema di amministrazione di sostegno, siano «necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana» (Bianca, 214, secondo cui «deve ammettersi che sono sottratti alla regola dell'incapacità quegli atti negoziali attraverso i quali il minore esprime la sua partecipazione alla vita di relazione conformemente alle normali esigenze della sua personalità, salvo che si tratti di atti che lo espongono ad un rilevante pregiudizio»; anche Falzea, 25, ammette che il minore d'età possa compiere alcuni atti in vista della soddisfazione di un proprio interesse, quali ad es., le dichiarazioni di volontà a carattere non negoziale, gli atti minuti della vita quotidiana, e gli atti di mero godimento; conforme Ruperto, 85). Così, ad esempio, è sufficiente la capacità naturale per il compimento di atti leciti non negoziali, sebbene per taluni atti sia richiesta la capacità di agire: si pensi al caso della promessa di matrimonio (art. 81 c.c.). Più in generale, la capacità legale di agire non è richiesta per il compimento di atti favorevoli all'agente (Falzea, 24; Arena, 916), costituendo al contrario requisito indispensabile per la validità dell'atto allorquando lo stesso sia suscettibile di esplicare effetti giuridici sfavorevoli nel patrimonio di chi lo compie (si v., ad es., l'art. 1190 c.c.). E' stato in particolare sostenuto che, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione stradale, la richiesta di risarcimento del danneggiato all'assicuratore del danneggiante, a mezzo di lettera raccomandata, quale condizione di proponibilità dell'azione risarcitoria contro l'assicuratore integra un atto giuridico in senso stretto e non un atto negoziale. Ne deriva che il minore è senza dubbio capace di compiere e ricevere atti giuridici in senso stretto e quindi atti che costituiscono il presupposto di determinati effetti giuridici ad essi ricollegati dalla legge, per il relativo compimento non essendo richiesta la capacità di agire (Cass. III, n. 24077/2017, secondo cui il minore è senz'altro capace in tal senso, posto che la richiesta ex art. 22 della legge n. 990/1969 non comporta per l'autore effetti sfavorevoli, essendo essa per converso volta all'acquisto e alla salvaguardia — determinando l'interruzione della prescrizione — del diritto al risarcimento dei danni da r.c. auto). Secondo l' art. 337-septies, comma 2, c.c , non abrogato dal D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, ai figli maggiorenni «portatori di handicap grave» si applicano integralmente le disposizioni dettate per i soggetti ancora minorenni, sul presupposto evidentemente che tali soggetti siano bisognosi di una maggiore tutela giuridica. A tal fine, l' art. 37-bis disp. att. c.c. chiarisce il concetto di «figli maggiorenni portatori di handicap grave» rifacendosi a quanto previsto dall' art. 3, comma 3, della legge n. 104/92 , secondo cui è persona portatrice di handicap colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. Ora, secondo la giurisprudenza (App. Catania , 29 gennaio 2015 ), in applicazione della suddetta disposizione, le norme dettate in favore dei minorenni si applicano anche ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, ad eccezione però di quelle relative all'affidamento, trattandosi di soggetti maggiorenni che per legge hanno piena capacità di agire, se non sottoposti a misura ablativa o limitativa della capacità. Secondo quest'orientamento giurisprudenziale, in particolare, applicare ai figli maggiorenni portatori di handicap grave la disciplina dell'affidamento dettata per i figli minori significherebbe limitare la loro capacità di agire al fuori dei casi istituti legislativamente previsti (interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno). In senso conforme, si veda anche la Cass. I, n. 12977/2012 , secondo cui appunto, in tema di tutela dei soggetti maggiorenni portatori di handicap grave, è da escludere che possano rilevare le norme sull'affidamento (condiviso od esclusivo), poiché argomentando diversamente «si dovrebbe concludere che il figlio portatore di handicap, ancorché maggiorenne, sia da considerarsi automaticamente privo della capacità di agire, mentre ciò potrà essere accertato eventualmente, in via parziale o totale, nei giudizi specifici di interdizione, inabilitazione od amministrazione di sostegno». In senso ulteriormente conforme, più di recente, cfr. Cass. I, n. 21819/2021 , secondo cui, al di là della lettera della norma, che fa riferimento ad un'applicazione «integrale» ai figli maggiorenni portatori di handicap delle norme in favore dei figli minori, trovano applicazione, per i figli maggiorenni portatori di handicap grave, ai sensi della l. n. 104/1992 , le sole disposizioni in tema di visite, di cura e di mantenimento (compreso, quindi, il disposto dell'art. 155-quinquies c.c., ora art. 337-septies c.c.) da parte dei genitori non conviventi e di assegnazione della casa coniugale, previste in favore dei figli minori, ma non anche quelle sull'affidamento, condiviso od esclusivo. La S.C. in tale ultima decisione si è spinta oltre, affermando, in particolare, che ai fini del riconoscimento del contributo al mantenimento in favore del figlio maggiorenne portatore di handicap grave, al pari di quello dovuto al figlio minore non è sufficiente che il figlio da mantenere sia portatore di handicap, ai sensi della l. n. 104/1992, art. 3, comma 1, occorrendo – stante l'inequivoca previsione dell'art. 337-septies c.c., comma 2 – che il medesimo sia portatore di «handicap grave», a norma del comma 3 medesima disposizione, con la conseguenza che il giudice di merito è tenuto ad accertare in fatto, ai fini di decidere circa la spettanza, o meno, di tale contributo, se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della norma succitata, ossia se «la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione», ai sensi della l. n. 104/1992, art. 3, comma 3; in caso contrario, la condizione giuridica del figlio – non assimilabile a quella del minore – sarà rapportabile allo status del figlio maggiorenne. In posizione intermedia il Trib. Treviso, 1 aprile 2016, secondo cui, attesa l'assenza di qualsivoglia norma di coordinamento tra la disciplina dettata a favore dei maggiorenni portatori di gravi handicap e la disciplina dell'amministrazione di sostegno, se da un lato «la possibilità di disporre l'affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap grave che, come nel caso di specie, non sia già stato destinatario di una misura a tutela degli incapaci, consentirebbe, soprattutto nel caso di provvedimenti presidenziali provvisori ed urgenti, di colmare un vulnus di tutela del soggetto debole nelle more fra la maggiore età e l'attivazione da parte dei soggetti preposti dello strumento dell'amministrazione di sostegno (ovvero della tutela o della curatela)», tuttavia, per altro verso, «estendere anche la disciplina dell'affidamento del figlio minore all'affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap grave appare contrastante con l'impianto stesso di tale istituto», atteso che, in ossequio all'ormai fondamentale principio della bigenitorialità, in virtù del quale l'affidamento è inteso quale strumento per garantire al figlio minore un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, la richiesta di affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap non può essere intesa quale strumento volto a sopperire all'assenza del ricorso ad uno degli istituti espressamente diretti alla tutela dei soggetti incapaci, non solo in quanto – come sopra specificato – volto ad un fine diametralmente opposto, ma anche perché in concreto inadatta a garantire al soggetto la necessaria protezione. Secondo l'art. 337 septies, comma 2, c.c, recentemente introdotto, ai figli maggiorenni “portatori di handicap grave” si applicano integralmente le disposizioni dettate per i soggetti ancora minorenni, sul presupposto evidentemente che tali soggetti siano bisognosi di una maggiore tutela giuridica. A tal fine, l'art. 37 bis disp. att. c.c. chiarisce il concetto di “figli maggiorenni portatori di handicap grave” rifacendosi a quanto previsto dall'art. 3, comma 3, della legge n. 104/92, secondo cui è persona portatrice di handicap colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. Ora, secondo la giurisprudenza (App. Catania, 29 gennaio 2015), in applicazione della suddetta disposizione, le norme dettate in favore dei minorenni si applicano anche ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, ad eccezione però di quelle relative all'affidamento, trattandosi di soggetti maggiorenni che per legge hanno piena capacità di agire, se non sottoposti a misura ablativa o limitativa della capacità. Secondo quest'orientamento giurisprudenziale, in particolare, applicare ai figli maggiorenni portatori di handicap grave la disciplina dell'affidamento dettata per i figli minori significherebbe limitare la loro capacità di agire al fuori dei casi istituti legislativamente previsti (interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno). In senso conforme, si veda anche la Cass. I, n. 12977/2012, secondo cui appunto, in tema di tutela dei soggetti maggiorenni portatori di handicap grave, è da escludere che possano rilevare le norme sull'affidamento (condiviso od esclusivo), poiché argomentando diversamente «si dovrebbe concludere che il figlio portatore di handicap, ancorchè maggiorenne, sia da considerarsi automaticamente privo della capacità di agire, mentre ciò potrà essere accertato eventualmente, in via parziale o totale, nei giudizi specifici di interdizione, inabilitazione od amministrazione di sostegno». In senso conforme, cfr. Cass. I, n. 21819/2021, secondo cui, al di là della lettera della norma, che fa riferimento ad un'applicazione “integrale” ai figli maggiorenni portatori di handicap delle norme in favore dei figli minori, trovano applicazione, per i figli maggiorenni portatori di handicap grave, ai sensi della l. n. 104/1992, le sole disposizioni in tema di visite, di cura e di mantenimento (compreso, quindi, il disposto dell'art. 155-quinquies c.c., ora art. 337-septies c.c.) da parte dei genitori non conviventi e di assegnazione della casa coniugale, previste in favore dei figli minori, ma non anche quelle sull'affidamento, condiviso od esclusivo. La S.C. in tale ultima decisione si è spinta oltre, affermando, in particolare, che ai fini del riconoscimento del contributo al mantenimento in favore del figlio maggiorenne portatore di handicap grave, al pari di quello dovuto al figlio minore non è sufficiente che il figlio da mantenere sia portatore di handicap, ai sensi della L. n. 104/1992, art. 3, comma 1, occorrendo – stante l'inequivoca previsione dell'art. 337-septies c.c., comma 2 – che il medesimo sia portatore di "handicap grave", a norma del comma 3 medesima disposizione, con la conseguenza che il giudice di merito è tenuto ad accertare in fatto, ai fini di decidere circa la spettanza, o meno, di tale contributo, se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della norma succitata, ossia se “la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, ai sensi della l. n. 104/1992, art. 3, comma 3; in caso contrario, la condizione giuridica del figlio - non assimilabile a quella del minore - sarà rapportabile allo status del figlio maggiorenne. In posizione intermedia il Trib. Treviso, 1 aprile 2016, secondo cui, attesa l'assenza di qualsivoglia norma di coordinamento tra la disciplina dettata a favore dei maggiorenni portatori di gravi handicap e la disciplina dell'amministrazione di sostegno, se da un lato «la possibilità di disporre l'affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap grave che, come nel caso di specie, non sia già stato destinatario di una misura a tutela degli incapaci, consentirebbe, soprattutto nel caso di provvedimenti presidenziali provvisori ed urgenti, di colmare un vulnus di tutela del soggetto debole nelle more fra la maggiore età e l'attivazione da parte dei soggetti preposti dello strumento dell'amministrazione di sostegno (ovvero della tutela o della curatela)», tuttavia, per altro verso, «estendere anche la disciplina dell'affidamento del figlio minore all'affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap grave appare contrastante con l'impianto stesso di tale istituto», atteso che, in ossequio all'ormai fondamentale principio della bigenitorialità, in virtù del quale l'affidamento è inteso quale strumento per garantire al figlio minore un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, la richiesta di affidamento del figlio maggiorenne portatore di handicap non può essere intesa quale strumento volto a sopperire all'assenza del ricorso ad uno degli istituti espressamente diretti alla tutela dei soggetti incapaci, non solo in quanto — come sopra specificato — volto ad un fine diametralmente opposto, ma anche perché in concreto inadatta a garantire al soggetto la necessaria protezione. La capacità di «discernimento» del minoreLa dottrina (Dogliotti, 24) ha sottolineato come si sia passati da una concezione della incapacità di agire di stampo protezionistico nei confronti dell'incapace – di potenziale isolamento ed emarginazione dello stesso per esigenze di controllo e difesa sociale – ad una diversa visione dell'incapacità, ove viene data maggiore attenzione al soggetto incapace, alle sue esigenze ed alle sue legittime aspirazioni: si è assistito, in buona sostanza, ad una revisione del concetto di incapacità, «da momento essenzialmente statico a procedimento dinamico, preparatorio all'acquisizione (o alla riacquisizione) della capacità piena e quindi del complesso di diritti ed obblighi ad essa necessariamente inerenti». D'altro canto, lo stesso meccanismo per cui la capacità d'agire si acquista «presuntivamente» con il compimento del diciottesimo anno d'età, desta non poche perplessità. Poiché, a prescindere dalle discussioni che hanno accompagnato i lavori preparatori alla norma in esame, è indubbio che la maturità personale non può essere fatta coincidere con un parametro temporale così rigoroso. Il superamento di una tale rigidità risulta dalla normativa a carattere sovranazionale, che pone al centro del mondo giuridico il minore e la sua volontà. Per dare rilevanza alla volontà del minore – che, in quanto formalmente incapace, non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo – è stata coniata la nozione di «capacità di discernimento» (cfr. l'art. 12 della Convenzione di New York del 1989, e l'art. 3 della Convenzione di Strasburgo del 1996), con la quale si vuole far riferimento alla piena capacità del minore «maturo» – il c.d. «grande minore» – a manifestare il proprio punto di vista, in tutte quelle situazioni che lo vedono coinvolto (Scaglione, 426, definisce la capacità di discernimento come «attitudine del soggetto alla formulazione di un giudizio valutativo in ordine alle proprie situazioni esistenziali», concetto che viene legato a doppio filo con quello di capacità di agire, inteso quest'ultimo appunto come «l'attitudine al compimento di atti di disposizione patrimoniale da parte di un soggetto capace di discernere»). La regola della capacità di discernimento è stata di recepita anche nel nostro ordinamento: il riferimento è, in particolare, all'art. 336-bis c.c. («Ascolto del minore»), introdotto con d.lgs. n. 154/2013 , secondo cui il minore dodicenne, o anche di età inferiore se capace di discernimento, deve essere ascoltato «nell'ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano», salvo che tale ascolto si riveli, in concreto, in contrasto con l'interesse del minore stesso, ovvero manifestamente superfluo (la norma riproduce, con qualche aggiunta, il testo del vecchio art. 155-sexies). Tale disposizione costituisce concreta applicazione del principio solennemente espresso dall'art. 315-bis, comma 3, introdotto con l. n. 219/2012 , secondo cui «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano». In passato, circa la rilevanza della capacità di discernimento del minore, si veda l'art. 7 della legge sulle adozioni ( l. n. 149/2001 ). Sebbene tale ultima disposizione sia rimasta inalterata a seguito dell'intervento riformatore di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, l'art. 336-bis c.c. è stato abrogato in favore della disciplina speciale introdotta nel codice di rito: il riferimento corre, in particolare, all'art. 473 bis.4 c.p.c., secondo cui il minore che ha compiuto gli anni 12 e anche di età inferiore ove sia capace di discernimento “è ascoltato” dal giudice nell'ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. La norma tuttavia aggiunge che le sue opinioni devono essere tenute in considerazione in relazione alla sua età ed al grado di maturità dello stesso, a ciò conseguendo che è comunque riconosciuta al giudice la possibilità di discostarsi dai desiderata espressi dal minore, qualora una diversa decisione si impone nel suo esclusivo e preminente interesse (Gatto, 115, secondo cui le novità introdotte dalla cd. Riforma Cartabia in tema di ascolto del minore sono “segno di un profondo riconoscimento dell'importanza della tutela della personalità del minore e del suo diritto ad autodeterminarsi”). All'ascolto non si procede laddove lo stesso contrasta con l'interesse del minore, è manifestamente superfluo in caso di impossibilità fisica o psichica ovvero laddove il minore abbia manifestato la volontà di non essere ascoltato. Le modalità dell'ascolto sono dettate dall'art. 473 bis.5 c.p.c., al quale si rimanda. La norma va integrata con la lettura degli artt. 152-quater e 152-quinquies disp. att. c.p.c. Secondo la giurisprudenza, la capacità di discernimento del minore può essere intesa come una "competenza specifica" del bambino strettamente legata alle sue capacità cognitive e relazionali che fa riferimento alla capacità di capire ciò che è utile per sé, all'abilità nel valutare i propri bisogni ed adottare strategie utili per il loro soddisfacimento, e alla possibilità di prendere decisioni e fare scelte in maniera autonoma, a prescindere da eventuali condizionamenti. In tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l'audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda (Cass., I n. 9691/2022; Cass., VI n. 16071/2022). Peraltro, l'ascolto del minore dodicenne, o anche di età inferiore se capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse. Tale audizione può essere omessa solo nel caso in cui sia in contrasto con l'interesse del minore, o manifestamente superflua, ovvero sussistano particolari ragioni che la sconsiglino (che vanno specificate in modo puntuale), come quelle del minore a non essere esposto al presumibile danno derivante dal coinvolgimento emotivo nella controversia che opponga i genitori o quando la narrazione dei fatti che lo vedono coinvolto generano estremo dolore e tristezza (Cass., I, n. 32876/2022). Più in generale, si veda Cass. I, n. 11687/2013 , secondo cui il giudice ha l'obbligo di sentire i minori in tutti i procedimenti che li concernono, al fine di raccoglierne le opinioni, le esigenze e la volontà, salvo che il giudice non motivi espressamente, circa la non corrispondenza dell'ascolto alle superiori esigenze del minore stesso; l'omessa audizione del minore, peraltro, determina la nullità della sentenza che li conclude, che nella normalità dei casi può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole fissate dall'articolo 161 del c.p.c., e quindi con l'appello. Chiaro il riferimento alla Cass. S.U., n. 22238/2009, secondo cui il mancato, ed immotivato, ascolto del minore è causa di nullità del procedimento per violazione dei principi del contraddittorio e del giusto processo ai sensi e per gli effetti dell'art. 111 Cost. , essendo il minore parte sostanziale del procedimento in quanto portatore di interessi contrapposti o, comunque, diversi da quelli dei genitori Il minore, quindi, da soggetto passivo bisognoso di tutela giuridica, è divenuto vero e proprio soggetto di diritti, protagonista attivo delle proprie scelte (Busnelli - Giardina, 196), in virtù delle nuove direttive legislative di recente emerse nel substrato normativo nazionale e sovranazionale volte alla promozione dell'autonomia del minore stesso. Direttive che, dapprima (con la riforma del diritto di famiglia del 1975) hanno modificato la posizione del minore all'interno del nucleo familiare, nel senso dell'elasticità della potestà (oggi responsabilità: art. 316 c.c.) genitoriale in funzione della progressiva maturazione della personalità del figlio, e che successivamente (con le recenti riforme del diritto di famiglia del 2012 e del 2013) si sono avvalse delle clausole generali della «capacità di discernimento» (art. 315-bis) e di «interesse del minore» (art. 337-octies, ormai abrogato). Così, il riferimento alla capacità di discernimento segna un «progressivo imporsi della maturità di discernimento del minore, da valutare non già secondo modelli astratti, bensì secondo un criterio medio di sviluppo del minore» (così Stanzione, 730), che richiede da parte dell'interprete una valutazione da compiersi caso per caso, in relazione cioè ai singoli atti di volta in volta compiuti (riferimenti in Mazzoni - Piccinni, 409, secondo cui l'età diviene quindi un mero dato fattuale di carattere presuntivo, che deve essere valutato eventualmente in concorso con la concreta maturità del minore, e quindi alla sua «capacità di discernimento in singole scelte personali»). Invero la dottrina pressoché dominante aveva già da tempo riconosciuto al minore la legittimazione a compiere tutte quelle attività direttamente connesse all'esercizio dei diritti inviolabili dell'uomo, quali, ad es., il diritto a manifestare la propria fede religiosa ( art. 19 Cost. ), ed il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.), almeno quando il minore abbia acquisito una certa maturità (così Giardina, 298, che appunto fa leva sulla «naturale capacità» – non legale, ma effettiva – del minore di porre in essere scelte espressive autonome»; per Moscati, 1141, «la regola codicistica dell'incapacità di agire del minore va ridimensionata all'area del contratto e degli atti unilaterali tra vivi con contenuto patrimoniale»; conforme Stanzione, 729, secondo cui considerare il minore «assolutamente incapace fino al raggiungimento della maggiore età può essere condivisibile con riguardo alle scelte di carattere patrimoniale, ma non quando si tratti di decisioni di carattere esistenziale ed il minore dimostri di avere capacità di autodeterminarsi responsabilmente»), con conseguente progressivo ridimensionamento dell'area della potestà genitoriale al crescere dell'autonomia del figlio e della sua capacità di acquisire le attitudini proprie dell'adulto (sicché, per Mazzoni - Piccinni, 403, «Si impone in altre parole di considerare l'istituto dell'incapacità di agire in modo conforme agli artt. 2 e 3 Cost. », il che si traduce, in chiave difensiva, nel riconoscimento in capo al minore di una più o meno ampia autonomia, ed in chiave promozionale, nel progressivo e graduale riconoscimento della partecipazione del minore all'attività giuridica; così anche Bessone - Ferrando, 193, non potendo la condizione di incapacità di agire del minore prestarsi ad essere descritta in termini di «incapacità assoluta»). Altra dottrina fa leva sul concetto di «interesse del minore», anch'esso contenuto nell'art. 315-bis e nell'art. 337-octies, quest'ultimo ormai abrogato. La tesi è volta a dimostrare l'emersione di «una nuova razionalità del sistema di protezione» che vede quale fondamentale punto di partenza l'interesse del minore, inteso non solo in chiave protettiva, ma anche (e soprattutto) promozionale, e cioè quale criterio ermeneutico in grado di orientare la disciplina dell'attività giuridica del minore, soprattutto nel campo patrimoniale, con il riconoscimento di anticipati spazi di autonomia volti ad incentivare (e promuovere) il suo diretto coinvolgimento in attività potenzialmente favorevoli (così Mazzoni - Piccinni, 454, secondo cui, «il sistema di protezione e promozione dei diritti delle persone minori di età sembra in definitiva evolversi nel senso di uno spostamento del focus dalla generale incapacità di agire del minore d'età all'individuazione degli strumenti di volta in volta più idonei all'attuazione degli interessi del minore»). Particolarmente rilevante anche la giurisprudenza formatasi con riguardo al diritto di autodeterminazione del minore in ambito sanitario. Secondo il Trib. minorenni Milano, 30 marzo 2010 , ai genitori non è consentito rappresentare, relativamente alle scelte mediche, il figlio minore, specialmente quando il minore abbia raggiunto una età prossima al raggiungimento della piena capacità di agire, poiché diversamente opinando si giungerebbe alla privazione di diritti personalissimi mercé la sola considerazione del dato formale rappresentato dall'incapacità legale, giungendo al paradosso che il soggetto legalmente incapace ma naturalisticamente capace non possa decidere della propria salute, mentre il soggetto legalmente capace ma naturalisticamente minus, per il tramite dell'istituto dell'amministratore di sostegno, potrebbe esercitare una maggiore autodeterminazione. In definitiva, la rappresentanza genitoriale deve cedere il passo all'accrescersi della capacità naturale del minore, con conseguente progressiva riduzione del potere discrezionale dei genitori sui figli con l'accrescersi dell'autonomia e del peso della volontà del minore (per la giurisprudenza di legittimità, Cass. I, n. 19365/2011 in ordine al trattamento di dati sensibili concernenti i minori). Al riguardo, fondamentale il principio sancito dalla Cass. I, n. 21748/2007 , secondo cui In tema di attività medica e sanitaria, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un potere «incondizionato» di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non «al posto» dell'incapace né «per» l'incapace, ma «con» l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Sul punto è interessante notare che ai sensi della l. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 3, la persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione – nel rispetto dei diritti di cui di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali UE. – e deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle proprie capacità, per poter esprimere liberamente la propria volontà. Tuttavia, Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità (art. 3 comma 2). Parimenti, le cd. Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, possono essere espresse esclusivamente da “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere”, con esclusione dunque del minore. Di recente, si è assistito ad un intenso dibattito in tema di vaccinazione obbligatoria dei figli minori. Sul punto si segnala Corte cost. n. 5/2018 , che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell'art. 1, commi da 1 a 5, e contro gli artt. 3, 4 e 5 del d.l. n. 73 del 2017 , nella versione originaria e contro l'art. 1, commi 1, 1-bis, 1-ter, 2, 3, 4 e 6-ter, e contro gli artt. 3, 3-bis, 4,5,5-quater e 7 del d.l. n. 73/2017, come convertito dalla legge n. 119/2017 , per asserita violazione degli artt. 2, 3, 31, 32, 34 e 97 Cost. ; è stato in particolare sostenuto che l' art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento tra il diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l'interesse della collettività nonché, nel caso di vaccinazioni obbligatorie, con l'interesse del bambino, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai loro compiti di cura. Il contemperamento di questi principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, da esercitarsi alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte, e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica. Di recente si registra la tendenza dei Tribunali di merito, in epoca pandemica, ad autorizzare il genitore, esercente la responsabilità genitoriale sul minore, a sottoporlo a vaccinazione contro il virus Covid-19 nel caso in cui l'altro genitore non presti il proprio consenso, anche inaudita altera parte, talora previa acquisizione di certificazione del medico curante che attesti l'assenza di rischi specifici, valorizzando l'esigenza di tutela della salute del minore (così Trib. Foggia, 22 giugno 2021); nello stesso senso, si è proceduto, previo ascolto del minore, ad autorizzare il genitore collocatario a sottoporre il minore alla vaccinazione da Covid-19, previa esibizione di documentazione medica che attesti l'assenza di rischi specifici all'inoculazione del siero, sussistendo da un lato la piena e chiara volontà del minore a sottoporsi al vaccino anti Covid-19 e, dall'altro lato, l'assenza di circostanze ostative alla somministrazione (in tal senso, Trib. Foggia, 13 novembre 2021). Alcuni Tribunali, richiamandosi all' art. 3 della l. n. 219/2017 , hanno ritenuto l'immotivato rifiuto opposto dal genitore contrario alla somministrazione del vaccino contrastante con l'interesse del minore, comportando la mancanza di copertura vaccinale non soltanto un concreto rischio di contrarre la malattia, ma anche pregiudizievoli limitazioni alla sua vita di relazione nei più svariati ambiti (ad es. scolastico, sportivo, ricreativo e più in generale sociale), sicché, per evitare tali conseguenze pregiudizievoli, il conflitto genitoriale va risolto autorizzando la somministrazione del vaccino al minore, superando il dissenso dell'altro genitore (in questo senso, Trib. Monza, decreto 22 luglio 2021). È dunque ormai consolidato l'orientamento che predica la prevalenza del diritto (alla salute) del minore – previa sua audizione, diretta o indiretta – a sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19, in assenza di serie e gravi controindicazioni eventualmente riscontrate dal pediatra, sulla scia di quanto già affermato in tema di vaccinazione obbligatoria dalla giurisprudenza di merito, secondo cui laddove vi sia un concreto pericolo per la salute del minore, in relazione alla gravità e diffusione del virus e vi siano dati scientifici univoci che quel determinato trattamento sanitario risulta efficace, il giudice ha il potere di «affievolire» la responsabilità genitoriale del genitore dissenziente, lasciando quella dell'altro integra e, limitatamente alla questione vaccini, esclusiva (cfr. App. Napoli, decreto 30 agosto 2017). La Corte Cost. con sent. n. 14/2023 – pronunciatasi in tema di legittimità costituzione della disciplina di cui all'art. 4, commi 1 e 2, d.l 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella l. 28 maggio 2021, n. 76, nella parte in cui prevede, da un lato, l'obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 per il personale sanitario e, dall'altro lato, per effetto dell'inadempimento dello stesso, la sospensione dall'esercizio delle professioni sanitarie – ha avuto modo di precisare che l'art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con il coesistente diritto degli altri e quindi con l'interesse della collettività, sicché una legge impositiva di un trattamento sanitario è compatibile con l'art. 32 Cost. se: a) il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale; b) vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili; c) nell'ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio — ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica — sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato. Il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende quindi di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l'indennizzabilità estesa anche in relazione alle vaccinazioni raccomandate. La tutela della salute implica anche il dovere dell'individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari. Nell'ambito di questo contemperamento tra le due declinazioni, individuale e collettiva, del diritto alla salute, l'imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente. Tutte le volte in cui le due dimensioni entrano in conflitto, il diritto alla salute individuale può trovare una limitazione in nome dell'interesse della collettività, nel quale trova considerazione il diritto (individuale) degli altri in nome di quella solidarietà “orizzontale”, che lega ciascun membro della comunità agli altri consociati. I doveri inderogabili, a carico di ciascuno, sono infatti posti a salvaguardia e a garanzia dei diritti degli altri, che costituiscono lo specchio dei diritti propri: al legislatore tocca bilanciare queste situazioni soggettive e a questa Corte assicurare che il bilanciamento sia stato effettuato correttamente. Poiché esiste un rischio di evento avverso anche grave con riferimento ai vaccini e, ancor prima, a tutti i trattamenti sanitari, fino a quando lo sviluppo della scienza e della tecnologia mediche non consentirà la totale eliminazione di tale rischio, la decisione di imporre un determinato trattamento sanitario attiene alla sfera della discrezionalità del legislatore, da esercitare in maniera non irragionevole. Quando si è in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del c.d. test di proporzionalità, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi. Diritto internazionale privatoLa disciplina di diritto internazionale privato contenuta nell'art. 23 della l. n. 218/1995 per la capacità di agire è assolutamente speculare a quella dettata in tema di capacità giuridica, cui si rinvia sub art. 1. Si ritrova infatti sia la distinzione tra capacità d'agire generale e capacità d'agire speciali, sia l'assoggettamento della prima alla lex personae e delle seconde alla lex causae. Fanno eccezione a tale regola generale: (a) il caso in cui, in tema di contratti stipulati tra persone che si trovano nello stesso stato (comma 2), il contraente ritenuto capace in base alla disciplina nazionale è ammesso ad avvalersi dell'incapacità della propria legge nazionale se dimostra che l'altra parte, al momento della conclusione del contratto, era a conoscenza di tale incapacità e l'ha ignorata per sua colpa; (b) il caso in cui, in tema di negozi giuridici unilaterali (comma 3), il soggetto munito di capacità giuridica in base alla legge nazionale (la legge dello stato in cui l'atto è stato compiuto) è ammesso ad invocare una causa di incapacità della propria legge nazionale salvo la tutela del legittimo affidamento dei terzi in buona fede; (c) in ogni caso (comma 4) è esclusa l'applicazione delle deroghe contenute nei commi 2 e 3 «agli atti relativi a rapporti di famiglia e di successione per causa di morte» e «agli atti relativi a diritti reali su immobili situati in uno Stato diverso da quello in cui l'atto è compiuto». La ragione di tali deroghe al criterio della cittadinanza è da rinvenirsi nella necessità di evitare che l'applicazione del solo criterio della lex personae o lex patriae possa nuocere alla speditezza dei traffici giuridici, ciò in quanto non può pretendersi, da parte dei singoli contraenti, una preventiva informazione sulla cittadinanza della persona con la quale si decide di stipulare un contratto e, quindi, sulla sussistenza in capo alla stessa della capacità per assumere obbligazioni nascenti dall'atto di autonomia privata.
Quanto alla protezione degli incapaci, l'art. 42 detta le regole per la protezione dei minori di età mentre l'art. 43, unitamente all'art. 44, le misure di protezione dei maggiorenni incapaci, ai quali si rinvia. BibliografiaAlpa, Manuale di diritto privato, XII ed., Padova-Milano 2023; Arena, voce Incapacità (dir. priv.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 910; Bessone - Ferrando, voce Persona fisica (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 193; Busnelli - Giardina, La protezione del minore nel diritto di famiglia italiano, in Giur. it. 1980, 4, 196; Dogliotti, Capacità, incapacità, diritti degli incapaci ; Le misure di protezione, Milano, 2019; Falzea, voce Capacità (teor. gen.), in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 8; Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939; Gatto, L’ascolto del minore, in R. Giordano – A. Simeone (a cura di), La riforma del diritto di famiglia: il nuovo processo, Milano, 2023; Giacobbe, Autodeterminazione, famiglie e diritto privato, in Dir. fam. 2010, 1, 297; Giardina, «Morte della potestà e «capacità» del figlio, in Riv. dir. civ., 2016, 6, 1609; Mazzoni - Piccinni, La persona fisica, in Tr. I.Z., Milano, 2016; Moscati, Il minore nel diritto privato, da soggetto da proteggere a persona da valorizzare, (contributo allo studio dell’interesse del minore), in Dir. fam. e pers. 2014, 3, 1141; Rescigno, voce Capacità di agire, in D. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 209; Rescigno, voce Capacità d’agire, in Nss. D.I., II, Torino, 1958, 861; Romano, Ordinamenti giuridici privati, in Riv. trim. dir. pubbl. 1955; Ruperto, voce Età (dir. priv.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 85; Scaglione, Ascolto, capacità e legittimazione del minore, in Dir. fam. e pers., 2014, 1, 426; Stanzione, I contratti del minore, in Eur. e dir. priv., 2014, 4, 1237; Stanzione, voce Minori (condizione giuridica dei), in Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 725; Stanzione, voce Persona fisica (dir. civ.), in Enc. giur., XXIII, Roma, 1990, 1. |