Codice Civile art. 1283 - Anatocismo.

Rosaria Giordano

Anatocismo.

[I]. In mancanza di usi contrari [1823, 1852], gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi [162 trans.].

Inquadramento

La disposizione in commento limita la capitalizzazione degli interessi, prevedendo che gli interessi scaduti non possono produrre interessi che dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e purché si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.

È stata oggetto di ampia elaborazione, in dottrina come in giurisprudenza, la questione afferente la prassi bancaria di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi su conto corrente, in ragione dell'evoluzione della giurisprudenza della S.C. che, in un primo tempo, ha ritenuto legittima la stessa, assumendo la natura normativa degli usi contenuti nelle norme bancarie uniformi e, quindi, ritenendone la natura solo negoziale, con conseguente illegittimità di tale prassi.

Profili generali

La norma in esame, ritenuta applicabile alle sole obbligazioni di valuta (cfr. Cass. S.U., n. 6476/1984; Cass. III, n. 1262/1966, in Giur. it., 1967, I, n. 1, 1200, con nota di Amorth), stabilisce che gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.

È stato chiarito che l'art. 1283 c.c. si riferisce non soltanto agli interessi corrispettivi, ma agli interessi di qualsiasi natura e quindi anche agli interessi moratori (Cass. sez. lav., n. 3500/1986).

L'attribuzione degli interessi sugli interessi scaduti, secondo la previsione di cui all'art. 1283 c.c., postula una specifica domanda del creditore, autonoma e distinta rispetto a quella volta al riconoscimento degli interessi principali (Cass. III, n. 21935/2023).

La domanda giudiziale, richiesta dall'art. 1283 c.c. affinché il giudice possa liquidare nuovi interessi sugli interessi scaduti, va intesa non già come semplice domanda degli interessi principali scaduti, ma come domanda specificamente diretta ad ottenere il pagamento degli interessi sugli interessi scaduti (Cass. III, n. 252/1965, in Foro it., 1965, n. 1, 1274; ne deriva che costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, la richiesta del pagamento degli interessi sugli interessi scaduti, quando in primo grado era stata proposta la sola domanda degli interessi principali scaduti: cfr. Cass. S.U., n. 670/1975, in Giust. civ., 1975, n. 1, 509). Poiché la condanna al pagamento degli interessi anatocistici presuppone che si tratti di interessi accumulatisi per almeno sei mesi alla data della domanda e che la parte cui l'effetto di capitalizzazione li richieda in giudizio con una domanda specificamente volta ad ottenere la condanna al pagamento di quegli interessi che gli interessi già scaduti, ossia il corrispondente capitale, di lì in poi produrranno, quando la formulazione delle conclusioni sia ambigua, in quanto suscettibile di essere interpretata sia come rivolta ad ottenere il riconoscimento degli interessi anatocistici sia come richiesta degli interessi moratori destinati a maturare dopo la domanda e fino all'effettivo pagamento, il giudice del merito, stante la necessaria specificità della richiesta dell'anatocismo, non può ritenere che essa sia stata proposta, quando l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda, alla quale egli deve far riferimento per sciogliere quell'ambiguità, non somministri argomenti in tale senso. Resta altresì escluso che all'assenza di siffatta domanda in primo grado possa rimediarsi mediante la sua formulazione per la prima volta in appello, sia pure limitatamente agli interessi prodotti dalla data di tale domanda sul capitale rappresentato dagli interessi scaduti sino a tale data, non essendo consentito proporre in appello per la prima volta la domanda di pagamento di interessi maturati dopo la sentenza di primo grado se il fatto produttivo di interessi era anteriore all'inizio del processo e ciononostante la relativa domanda non sia stata proposta nel giudizio di primo grado (Cass. S.U., n. 10156/1998). In sostanza, la domanda di corresponsione degli interessi anatocistici presuppone che si tratti di interessi accumulatisi per almeno sei mesi alla data della domanda e che la parte li richieda in giudizio con una domanda specificamente rivolta ad ottenere la condanna al pagamento di quegli interessi che gli interessi già scaduti da quel momento produrranno; ne consegue che, qualora la domanda sia ambigua e suscettibile di essere interpretata sia come volta ad ottenere il riconoscimento degli interessi anatocistici sia come richiesta degli interessi moratori destinati a maturare dopo la domanda e fino all'effettivo pagamento, il giudice del merito, stante la necessaria specificità della richiesta di anatocismo, non può ritenere proposta la domanda di tali interessi ogniqualvolta l'esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto che costituiscono le ragioni della domanda, alla quale egli deve far riferimento per risolvere quell'ambiguità, non fornisca argomenti in tal senso, in caso contrario incorrendo nel vizio di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, di cui all'art. 112 c.p.c. (Cass. I, n. 5218/2011).

Al contempo, la S.C. ha precisato più volte che la domanda giudiziale diretta ad ottenere il pagamento degli interessi sugli interessi a norma dell'art. 1283 c.c., non si identifica con la sola citazione introduttiva della lite, ma comprende anche qualsiasi ulteriore istanza validamente proposta durante il giudizio di primo grado ed eventualmente riproposta in appello, in caso di rigetto con la quale possono chiedersi pure gli interessi su quelli già scaduti in corso di causa sempre con il limite dell'esclusione di quelli scadenti nei sei mesi precedenti la pubblicazione della sentenza che li riconosca (Cass. II, n. 1257/1985; tuttavia, con riguardo ad un debito pecuniario certo, ma non liquido, gli interessi, ancorché maturino nel corso del giudizio promosso per ottenere la liquidazione del debito stesso, vengono a scadenza solo con la pronuncia giudiziale, e, pertanto, possono produrre ulteriori interessi (cosiddetto anatocismo) solo a partire da tale scadenza, nel concorso degli altri requisiti fissati dall'art. 1283 c.c., non anche per il periodo precedente: Cass. II, n. 103/1986). È stato inoltre precisato che nella domanda giudiziale, la cui proposizione è necessaria a norma dell'art. 1283 c.c. per la decorrenza degli interessi anatocistici, rientra anche la richiesta formulata dal creditore nel ricorso per decreto ingiuntivo, ancorché il contraddittorio sia posticipato alla pronuncia del decreto, rilevando esclusivamente il momento della domanda al giudice (Cass. I, n. 9311/1990, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, n. 3, 317, con nota di Sinesio).

La necessità di una domanda per ottenere i cd. interessi composti implica che, a seguito di condanna al pagamento di una somma di denaro, ed agli interessi legali da una certa data a quella del pagamento, senza ulteriori statuizioni, al creditore non è consentito, pretendere gli interessi composti, nel senso che quelli maturati in ciascun anno siano aggiunti alla somma dovuta per capitale e che gli interessi dovuti per ogni anno successivo siano computati sulla somma dovuta per capitale maggiorato degli interessi maturati nell'anno precedente, atteso che, ai sensi dell'art. 1283 c.c., gli interessi scaduti possono produrre interessi dal giorno della domanda giudiziale (o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza), purché sia formulata specifica domanda in tal senso ed il giudice abbia conformemente disposto in sentenza (Cass. III, n. 25634/2010).

Quanto alla necessità di una pattuizione successiva alla scadenza degli interessi, si è osservato che, pertanto, non si sottrae al divieto dell'anatocismo, sancito dall'art. 1283 c.c., l'apposita convenzione che, stipulata successivamente ad un contratto di garanzia e relativa alle obbligazioni derivanti da quel rapporto, preveda l'obbligo per la parte debitrice di corrispondere anche gli interessi sugli interessi che matureranno in futuro, in quanto è idonea a sottrarsi a tale divieto solo la convenzione che sia stata stipulata successivamente alla scadenza degli interessi (Cass. III, n. 3805/2004).

In ragione della formulazione della norma, si è ritenuto che la corresponsione di interessi di mora sulle rate scadute e non pagate già comprensive degli interessi del mutuo, costituisce violazione del divieto dell'anatocismo, secondo la disciplina dettata dall'art 1283 c.c., per la quale gli interessi scaduti producono interessi soltanto: a) dal giorno della domanda giudiziale; b) per effetto di convenzione posteriore alla scadenza degli interessi; c) purché si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi (Cass. III, n. 3479/1971, in Giust. civ., 1972, n. 1, 518, con nota di Di Amato).

L'evoluzione giurisprudenziale e normativa sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari

Peraltro, in una prima fase, la giurisprudenza della Corte di cassazione si era consolidata nel senso della derogabilità della disposizione in esame da parte degli usi bancari, atteso il riferimento, contenuto nell'incipit dello stesso art. 1283 c.c., alla mancanza di usi contrari (Cass. III, n. 5985/1981, in Giur. it., 1982, I, 1, n. 8, 1217).

Era invero consolidato l'assunto per il quale gli usi che consentono l'anatocismo, richiamati dalla norma in commento, si identificano in comportamenti tenuti dalla generalità degli interessati con il convincimento di adempiere ad un precetto di diritto, estremi, questi, ravvisabili, nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare ed avere, ove l'anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche, sia i clienti chiedono e riconoscono come legittima la pretesa di calcolo di nuovi interessi sugli interessi scaduti, indipendentemente dai requisiti richiesti dallo stesso art. 1283 c.c. (cfr., ex multis, Cass. III, n. 6631/1981, in Giust. civ., 1982, I, n. 2, 380, con nota di Di Amato).

Peculiarità di tale impostazione era il qualificare gli usi bancari, in presenza di dette caratteristiche, come veri e propri usi normativi (cfr. Cass. III, n. 6631/1981, secondo cui si tratterebbe di usi normativi, in quanto operano sullo stesso piano dell'art. 1283 c.c., come espressa eccezione al principio generale ivi affermato, onde essi hanno l'identica natura delle regole dettate dal legislatore ed il giudice può applicarli attingendone comunque la conoscenza, in forza del generale principio iura novit curia, con la conseguenza che anche in Sede di legittimità è ammessa una indagine diretta sugli usi in questione e, una volta accertatane l'esistenza, una decisione sulla base dei medesimi, indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dai giudici del merito).

In sostanza, costituiva jus receptum l'assunto per il quale, nell'ambito delle operazioni fra istituti di credito e clienti, l'anatocismo trova generale applicazione attraverso comportamenti della generalità degli interessati con il convincimento di adempiere ad un precetto di diritto, presentando i caratteri obiettivi di costanza, generalità e durata ed il carattere subiettivo della opinio iuris che contrassegnano la norma giuridica consuetudinaria vincolante gli interessati, salva contraria disposizione contrattuale, ai sensi dell'art. 1374 c.c., sicché, in virtù della norma generale di cui all'art. 8 disp. prel. c.c. il quale stabilisce che nelle materie regolate da leggi o regolamenti gli usi normativi hanno efficacia se richiamati nelle stesse leggi e negli stessi regolamenti e dell'art. 1283 c.c. che disciplina la materia dell'anatocismo in mancanza di usi contrari, gli usi normativi bancari consentono in deroga al citato art. 1283 c.c. che gli interessi scaduti producano altri interessi indipendentemente dai presupposti fissati da tale disposizione (Cass. I, n. 4920/1987).

Pertanto, si riteneva che il limite minimo di sei mesi perché gli interessi scaduti possano produrre interessi, previsto dall'art. 1283 c.c., non si applicasse all'anatocismo fondato sugli usi bancari, poiché il rinvio agli usi, formulato in termini generali all'inizio dello articolo citato, deroga a tutte le condizioni, successivamente elencate, di ammissibilità dell'anatocismo, compresa quella relativa al detto limite temporale (Cass. I, n. 2644/1989, in Giust. civ., 1989, I, 2034, con nota di Costanza). In ragione di ciò, la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva ritenuto il fenomeno della capitalizzazione trimestrale degli interessi, quale oggetto di un uso normativo, e, di conseguenza, idoneo a derogare l'art. 1283 c.c., visto il richiamo effettuato da tale norma agli usi ed inteso tale inciso come riferimento esclusivo agli usi normativi (Cass. n. 12675/1998; Cass. n. 3296/1997; Cass. n. 9227/1995).

La dottrina dominante si poneva in senso analogo alla ripercorsa giurisprudenza di legittimità, assumendo la valenza normativa degli usi bancari quale deroga all'art. 1283 c.c. in punto di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi (cfr. Simonetto, 6).

Peraltro, alcuni Autori avevano affermato posizioni critiche rispetto alla prassi all'epoca dominante.

Sotto un primo profilo, si era osservato che costituisce «un ingiustificato privilegio» per le banche la clausola delle «norme bancarie uniformi» (n.b.u.) secondo cui, mentre la chiusura dei conti attivi — con conseguente capitalizzazione degli interessi maturati — è annuale, quella dei conti passivi è trimestrale, tanto più considerato che in materia di conto corrente ordinario l'art. 1831 c.c. prevede, sia pure in via suppletiva, la chiusura semestrale del conto e senza distinguere tra le posizioni debitorie o creditorie delle parti. Né peraltro, si è evidenziato, appare derogabile il limite minimo della semestralità degli interessi primari posto dall'art. 1283 c.c. ed afferma che in proposito le condizioni generali di contratto (n.b.u.) hanno finito per imporre esse stesse un uso, piuttosto che limitarsi a recepirlo (Gabrielli, Controllo pubblico e norme bancarie uniformi, in Banca, borsa e tit. cred., 1977, I, 294).

Si era inoltre sottolineato che, pur non potendo dubitarsi, in teoria, della possibilità di attribuire alle norme bancarie uniformi valore ricognitivo di usi normativi precedentemente già invalsi (ma dubitando, peraltro, che la relativa prova possa in concreto essere acquisita), esclude comunque che le stesse possano acquistare efficacia consuetudinaria (anche soltanto negoziale) in conseguenza del diffondersi e del protrarsi della loro applicazione, individuando «una vera e propria antinomia tra condizioni generali di contratto ed usi», proprio in considerazione della predisposizione unilaterale delle prime, specialmente allorché le stesse siano, altresì, concordate tra imprese, come quelle bancarie, operanti in regime oligopolistico: il che fa sì che le condizioni generali «vengono ad imporsi alle altre parti contraenti, costrette ad aderirvi per mancanza di idonee alternative», piuttosto che essere oggetto di un consenso diffuso, perché consapevole della necessità di una determinata regolamentazione (Salanitro, I, 597).

A partire dal 1999, peraltro, la Suprema Corte, recependo l'indirizzo già affermato da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Vercelli 21 luglio 1994; Pret. Roma 11 novembre 1996; Trib. Busto Arsizio 15 giugno 1998; Trib. Monza 23 febbraio 1999), ha mutato radicalmente orientamento, giungendo alla conclusione secondo cui la capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte delle banche sui saldi di conto corrente passivi per i clienti non costituisce uso normativo, ma uso negoziale, inidoneo ad operare automaticamente con effetto integrativo del contratto. Pertanto, la relativa clausola contrattuale dovrà essere ritenuta e dichiarata nulla per violazione del suddetto art. 1283 c.c., norma pacificamente ritenuta di carattere imperativo, oltre che di natura eccezionale (Cass. n. 2374/1999, in Giur. it., 1999, n. 6, 1221, con nota di Cottino; Cass. n. 3096/1999; Cass. n. 12507/1999; Cass. n. 1281/2002). Si è in particolare evidenziato che le decisioni precedenti della stessa S.C. che avevano affermato un diverso indirizzo interpretativo, si inseriscono in un filone giurisprudenziale secondo il quale nell'ambito delle relazioni tra istituti di credito e clienti, l'anatocismo costituisce, per effetto del comportamento della generalità dei consociati e dell'elemento soggettivo della opinio juris, un uso normativo ai sensi dell'art. 8 delle disposizioni preliminari al codice civile, la cui applicazione deve considerarsi legittima anche in mancanza dei presupposti di cui all'art. 1283 c.c. Deve tuttavia escludersi che le cosiddette norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi, predisposte dall'ABI (per la prima volta, con effetto dall'1 gennaio 1952), nella parte in cui dispongono che i conti che risultino anche saltuariamente debitori siano regolati ogni trimestre e che, con la stessa cadenza, gli interessi scaduti producano ulteriori interessi, attestino l'esistenza di una vera e propria consuetudine (mai accertata, invece, dalla commissione speciale permanente presso il ministero dell'industria, ai sensi del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 152/1947, modificato con la l. n. 115/1950). Inoltre, poiché gli accertamenti di conformi usi locali da parte di alcune camere di commercio provinciali (ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39-40 del r.d. n. 2011/1934 e 2 del d.lgs.lgt. n. 315/1944) sono tutti successivi al 1952, va per un verso escluso che la relativa clausola delle norme bancarie uniformi svolga una funzione probatoria di usi locali preesistenti, e va, per altro verso, presunto piuttosto che l'accertamento dell'uso locale sia conseguenza del rilevo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI. Prassi cui non può riconoscersi efficacia di fonti di diritto obiettivo «se non altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine». Dalla comune esperienza emerge, infatti, che l'inserimento di clausole prevedenti la capitalizzazione degli interessi ogni tre mesi a carico del cliente (ed ogni anno a carico della banca) è acconsentito da parte dei clienti non in quanto esse siano ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti, «ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente». Peraltro, gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del codice civile del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti»; e che, «inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori del codice vigente, si affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente. Ne deriva che la capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca sui saldi di conto corrente passivi per il cliente non costituisce un uso normativo, ma un uso negoziale, essendo stata tale diversa periodicità della capitalizzazione (più breve rispetto a quella annuale applicata a favore del cliente sui saldi di conto corrente per lui attivi alla fine di ciascun anno solare) adottata per la prima volta in via generale su iniziativa dell'ABI nel 1952 e non essendo connotata la reiterazione del comportamento dalla opinio juris ac necessitatis (Cass., n. 2374/1999).

La posizione suffragata dalla S.C. a partire dal 1999 trova conforto nella tesi, già affermata dalla dottrina più autorevole, volta a negare che gli usi contrari ex art. 1283 c.c. possano essere identificati con le c.d. norme bancarie uniformi, che hanno natura di condizioni generali di contratto e, al più, possono far presumere l'esistenza di clausole d'uso (Bianca, 201).

Inoltre, sempre in dottrina, si era osservato che non è possibile porre alla base del preteso uso normativo di capitalizzazione trimestrale le norme bancarie uniformi, elaborate dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, e quanto alla necessaria specificità della regola consuetudinaria invocata, espressamente sostiene che l'attitudine a derogare alle previsioni dell'art. 1283 c.c. spetterebbe soltanto ad usi normativi che siano (eventualmente) accertati come già esistenti anteriormente alla promulgazione del codice del 1942, considerati il carattere imperativo della norma di legge e la conseguente nullità di clausole contrattuali con essa contrastanti, nonché la non configurabilità di consuetudini contra legem (Farina, 78).

In parte diversa la posizione per la quale, preso atto dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'opinio iuris ac necessitatis consiste nell'adesione spontanea a un precetto giuridico, mentre l'accentuata disparità di «forza contrattuale» tra le parti esclude tale adesione spontanea della parte più debole, tali proposizioni «corrispondono probabilmente al sentire odierno», nel senso che «i clienti delle banche oggi (o per meglio dire nel 1999, all'epoca delle prime sentenze) nella situazione di disparità accertata dalla Cassazione, allorché si attengono al comportamento preteso dalle banche, e ciò anche con generale costante ed uniforme ripetizione, non intendono riconoscere più al comportamento adesivo quel carattere di doverosità giuridica, in cui consiste la c.d. opinio iuris ac necessitatis»; sentire che è diverso rispetto al passato, allorché «la parte più debole della società «accettava» gli usi introdotti dai «mercanti», riconoscendone la vincolatività giuridica» e «giurisprudenza e dottrina non potevano che prenderne atto». Si sarebbe, pertanto, verificata l'estinzione (evidentemente non retroattiva) di quell'uso per desuetudine, la quale ricorrerebbe anche allorché venga meno non già l'elemento materiale, bensì l'elemento spirituale dell'uso normativo (Minervini, 177).

Dopo tale revirement giurisprudenziale, il legislatore era intervenuto per cercare di «salvare» la prassi bancaria, stabilendo, da un lato, che le nuove modalità e criteri per la capitalizzazione degli interessi sarebbero stati fissati, con delibera del Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio, assicurando in ogni caso la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori (art. 25, comma 2, d.lgs. n. 342/1999) e, dall'altro, che le clausole stipulate prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina sarebbe stata valide ed efficaci fino a tale data (art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342/1999). Tuttavia, quest'ultima disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (Corte cost. n. 425/2000).

Pertanto i termini della questione non sono mutati, in quanto la Corte Costituzionale (sentenza n. 425/2000) ha ritenuto di dover dichiarare costituzionalmente illegittima, per difetto di delega, la norma che aveva tentato di salvare dalla sanzione della nullità le clausole di capitalizzazione inserite nei contratti bancari stipulati nel periodo anteriore alla sua entrata in vigore (art. 25, comma 3 d.lgs. n. 342/1999).

Come evidenziato in sede di legittimità, invero, in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di un conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 425/2000, con cui è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 76 Cost., la norma (contenuta nell'art. 25, comma 3 d.lgs. n. 342/1999) di salvezza della validità e degli effetti (fino all'entrata in vigore della delibera CICR di cui al secondo comma del medesimo art. 25) delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, dette clausole restano disciplinate, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, dalla normativa anteriormente in vigore, alla stregua della quale esse — basate su un uso negoziale, anziché su una norma consuetudinaria — sono da considerare nulle, perché stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c. (Cass. I, n. 4490/2002, in Riv. dir. comm., 2002, II, n. 7, 233, con nota di Scozzafava). L'evoluzione della giurisprudenza della S.C. è stata confermata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, mediante l'affermazione del principio per il quale in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 425/2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 76, Cost., l'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342/1999, il quale aveva fatto salva la validità e l'efficacia — fino all'entrata in vigore della delibera CICR di cui al comma 2 del medesimo art. 25 — delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'art. 1283, c.c. perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest'ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis). Infatti, va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell'esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l'esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione 'medio tempore' di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l'avrebbero creata (Cass. S.U., n. 21095/2004, in Banca borsa tit. cred., 2005, II, n. 2, 115, con nota di Dolmetta).

In particolare, le Sezioni Unite hanno sottolineato che tale conclusione trova applicazione anche con riferimento ai contratti di conto corrente bancario in questione e non è inficiata da quanto previsto dalle norme riguardanti il contratto di conto corrente ordinario ed in particolare dall'art. 1831 c.c., che prevede la periodica chiusura del conto corrente ordinario e la conseguente liquidazione del saldo a scadenze determinate dal contratto o dagli usi e, in mancanza, al termine di ogni semestre, in quanto sebbene la predetta norma, avendo carattere speciale, dovrebbe prevalere sulla norma generale di cui all'art. 1283 c.c., il richiamato art. 1831 c.c. non viene citato dall'art. 1857 c.c. tra le norme applicabili al contratto di conto corrente bancario. Nella prospettazione delle Sezioni Unite, quindi, da tale disposizione si deve trarre la conclusione secondo cui il mancato richiamo da parte del legislatore, tra le norme dettate per il conto corrente bancario, dell'art. 1831 c.c., esclude la possibilità di ritenere rilevante tale norma nell'esame del rapporto dedotto in questo giudizio, poiché qualora il legislatore avesse inteso estendere l'applicabilità di tale norma ai rapporti bancari, lo avrebbe fatto espressamente, come ha fatto con riguardo agli artt. 1826, 1829 e 1832 c.c. La Corte di legittimità ha osservato che neppure può invocarsi l'applicazione analogica della suddetta norma, in quanto il ricorso all'analogia, ai sensi dell'art. 12, comma 2, delle pre-leggi, presuppone che il caso non possa essere deciso in base ad una precisa disposizione, mentre la fattispecie sottoposta al presente giudizio trova nell'art. 1283 c.c., norma di carattere generale in materia di obbligazioni pecuniarie, la propria disciplina. a) Il meccanismo di funzionamento del conto corrente bancario. La radicale esclusione dell'applicazione dell'art. 1283 c.c. al conto corrente bancario era stata, com'è noto, perorata da ampia dottrina, secondo cui con la formazione continua del saldo, propria del conto corrente, ai sensi dell'art. 1852 c.c., di fatto è impedita una distinzione fra sorte capitale ed interessi, operandosi continuamente la liquidazione delle operazioni annotate. Tale situazione di confusione degli interessi nelle somme risultanti a saldo è analoga al fenomeno dell'anatocismo: solo che, qui, costituisce una caratteristica intrinseca del tipo contrattuale e nessun uso normativo è necessario al riguardo. Ma la prospettazione non è stata accolta dalle delle S.U. della Cass. n. 12095/2004, né dalle successive (Cass. I, n. 870/2006) che individuano in tali clausole una vera e propria capitalizzazione trimestrale degli interessi, comportante anatocismo illecito ex art. 1283 c.c.

Non può inoltre trascurarsi, sul piano processuale, che la nullità della clausola anatocistica di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi passivi, inserita nel contratto di conto corrente bancario da cui deriva il credito azionato in giudizio, è rilevabile d'ufficio dal giudice anche in grado di appello, rimanendo irrilevante, a tal fine, l'assenza di una deduzione (o di una tempestiva deduzione) del profilo di invalidità ad opera dell'interessato, la quale rappresenta una mera difesa, inidonea a condizionare, in senso positivo o negativo, l'esercizio del potere di rilievo officioso della nullità del contratto ex art. 1421 c.c. (Cass. I, n. 19882/2005). Coerente con tale assunto è il principio — di grande rilevanza pratica — per il quale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da una banca nei confronti di un correntista, la nullità della clausola del contratto di conto corrente bancario che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente sul saldo passivo, in quanto stipulata in violazione dell'art. 1283 c.c., è rilevabile d'ufficio, ai sensi dell'art. 1421 c.c., anche in sede di gravame, qualora vi sia contestazione, ancorché per ragioni diverse, sul titolo posto a fondamento della domanda degli interessi anatocistici, rientrando nei compiti del giudice l'indagine in ordine alla sussistenza delle condizioni dell'azione; in tale giudizio, infatti, il creditore assume la veste sostanziale di attore, sicché, laddove l'opponente abbia contestato l'ammontare degli interessi dovuti, il giudice, nel determinare tali interessi, dovendo utilizzare il titolo contrattuale posto a fondamento della pretesa, è tenuto a rilevare d'ufficio la nullità dalla quale il negozio sia affetto (Cass. I, n. 4835/2007).

Peraltro, affinché il giudice possa rilevare d'ufficio l'invalidità della clausola di capitalizzazione degli interessi passivi è necessario che il debitore, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, svolga censure specifiche e non si limiti a contestare, genericamente, la correttezza dei calcoli eseguiti dalla Banca (Cass. I, n. 23656/2011).

Rispetto alla questione dell'operatività dell'art. 1283 c.c. per i conti correnti bancari, contrastata da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, la S.C. si è pronunciata chiarendo che, in tema di capitalizzazione degli interessi, il rapporto di conto corrente bancario è soggetto ai principi generali di cui all'art. 1283 c.c. e ad esso non è applicabile l'art. 1831 c.c., che disciplina la chiusura del conto corrente ordinario, in quanto il contratto di conto corrente bancario è, infatti, diverso per struttura e funzione dal contratto di conto corrente ordinario, e l'art. 1857 c.c. non richiama l'art. 1831 c.c. tra le norme applicabili alle operazioni bancarie regolate in conto corrente (Cass. I, n. 15135/2014).

La stessa Corte di Cassazione (nelle citate sentenze, Cass. n. 2374/1999; Cass. n. 3096/1999; Cass. n. 12509/1999; Cass. n. 1281/2002), pur non affrontando direttamente la questione dell'applicabilità ai conti correnti bancari dell'art. 1831 c.c., nel dichiarare la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi, ha evidentemente mostrato di ritenere che sia l'art. 1831 c.c. la norma fondamentale in materia ed alla stessa conclusione si perviene anche in base al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità che, nel considerare valide le clausole predette, si è limitata a sostenere la natura normativa degli usi su cui le stesse si fondano, motivando sempre in relazione al solo art. 1283 c.c. Non sembrano, dunque, sussistere motivi per discostarsi dall'insegnamento della Suprema Corte e, quindi, per escludere, ritenendo prevalente un articolo non dettato per il contratto di conto corrente bancario né richiamato espressamente dalla disciplina dettata in materia, l'applicazione nel caso di specie della norma sull'anatocismo.

Da un punto di vista funzionale, inoltre, l'esigenza di rendere periodicamente ed a breve scadenza liquidi i crediti gestiti in conto corrente ordinario, esigenza in cui va individuata la ratio dell'art. 1831 c.c., non appare riferibile anche ai rapporti obbligatori derivanti dai contratti di conto corrente bancario, rispetto ai quali l'eventuale e controversa applicazione della norma suddetta avrebbe il solo scopo di consentire all'istituto di credito la capitalizzazione degli interessi vietata, in linea generale, dall'art. 1283 c.c. più volte citato.

Tale orientamento è stato in effetti confermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno definitivamente chiarito che in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 425/2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 76, Cost., l'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342/1999, il quale aveva fatto salva la validità e l'efficacia — fino all'entrata in vigore della delibera del CICR di cui al comma 2 del medesimo art. 25 — delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell'art. 1283, c.c., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest'ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba far parte dell'ordinamento giuridico (opinio iuris ac necessitatis). Infatti, va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell'esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l'esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione ‘medio tempore' di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l'avrebbero creata», (Cass. S.U. n. 21095/2004).

In sostanza, in conformità all'attuale orientamento della Suprema Corte, le clausole che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi per i clienti, inserite nel contratto di conto corrente, sono da ritenersi nulle e, pertanto, dalla somma di cui al decreto ingiuntivo, deve essere decurtato il corrispondente importo.

Ferma l'illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi da parte delle Banche, in difetto di un uso normativo in senso contrario, tali non potendosi considerare le condizioni generali poste nelle norme bancarie uniformi, era inoltre sorto l'interrogativo, in dottrina come nella giurisprudenza di merito, in ordine alla legittimità di una forma di capitalizzazione degli interessi su base semestrale ovvero annuale, ove la medesima capitalizzazione fosse stata contemplata per gli interessi attivi. La questione prospettata è, in altri termini, se alla dichiarazione di illiceità della clausola contrattuale debba seguire l'applicazione di un'altra periodicità della capitalizzazione degli interessi passivi, ovvero se debba essere al riguardo esclusa qualsiasi capitalizzazione. La giurisprudenza di merito si è divisa in ordine alla liceità della capitalizzazione annuale, contenuta nelle condizioni generali di contratto richiamate dai contratti individuali. Tale clausola prevede, nell'edizione del 1986 delle Norme che regolano i conti correnti di corrispondenza e servizi connessi, all'art. 7, che «I rapporti di dare ed avere vengono chiusi contabilmente, in via normale, a fine dicembre di ogni anno, portando in conto gli interessi e le commissioni nella misura stabilita, nonché le spese postali, telegrafiche e simili e le spese di tenuta e chiusura del conto e ogni eventuale altra, con valuta data di regolamento», precisando, al secondo comma, che «I conti che risultano, anche saltuariamente, debitori vengono invece chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente e cioè a fine marzo, giugno, settembre e dicembre di ogni anno, applicando agli interessi dovuti dal correntista e alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto, fermo restando che, a fine d'anno, a norma del precedente comma, saranno accreditati gli interessi dovuti dall'Azienda di credito e operate le ritenute fiscali di legge».

Sulla problematica erano emerse sostanzialmente tre tesi.

Secondo un primo orientamento, rimasto minoritario, dovrebbe ritenersi legittima la capitalizzazione semestrale degli interessi passivi, con la conseguenza che il rimborso in favore del cliente dovrebbe essere limitato ad una somma pari alla differenza fra quanto pagato e quanto risultante da interessi calcolati con periodicità semestrale, perché esisterebbe un uso normativo in tal senso, di cui la Cassazione stessa avrebbe affermato l'esistenza nelle prime decisioni del c.d. nuovo corso, e, comunque, ricavabile dall'art. 1283 c.c. In sostanza, potendosi applicare integralmente, a fronte della nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, la disciplina dettata dagli artt. 1418-1424 c.c., potrebbe operare l'istituto della conversione del contratto nullo, sicché il contratto può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, se il giudice valuti che le parti, se avessero conosciuto la ragione della nullità, avrebbero concluso questo diverso contratto, e così produrre effetti meno ampi, meno intensi rispetto a quelli che sarebbero seguiti al contratto effettivamente concluso. Questo implica che, su domanda della banca, il giudice potrebbe convertire la clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale in una di capitalizzazione semestrale, atteso che la Corte di cassazione non avrebbe escluso che il cliente aderisse ad una clausola riconducibile ad un uso normativo e che, se le parti avessero conosciuto la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, la banca avrebbe predisposto una clausola di capitalizzazione semestrale ed il cliente vi avrebbe aderito. Peraltro il termine semestrale è quello previsto, come secondo presupposto, dalla stessa disciplina legale dell'art. 1283 c.c. e l'art. 1831 c.c. prevede la chiusura del conto con cadenza semestrale (cfr. Trib. Monza 7 maggio 2002, in Corr. giur., 2003, 879).

Nell'avallare tale tesi, una parte della dottrina ha osservato che individua nell'art. 1283 c.c. proprio la base per ravvisare la previsione legale di un termine semestrale, decorso il quale può applicarsi l'anatocismo, con la conseguente nullità della clausola di anatocismo trimestrale deve seguire l'applicazione di quello semestrale (Rinaldi, 331).

Diversamente, secondo altri autori, non vi è un uso normativo successivo al 1942 in tema di anatocismo semestrale, considerato che la prassi, invalsa da almeno mezzo secolo, di annotare gli interessi trimestralmente avrebbe certamente determinato la desuetudine di un uso, pur ove eventualmente esistente in precedenza, di annotazione con cadenza semestrale (Colombo, 159).

Si è anche evidenziato, sempre in senso critico rispetto all'ammissibilità di una forma di capitalizzazione semestrale degli interessi passivi, che rispetto a ciò difetta la volontà ipotetica di entrambe le parti — presupposto della convertibilità della clausola di capitalizzazione trimestrale nulla con quella di capitalizzazione semestrale — non essendo sembrata ipotizzabile una volontà del cliente, al quale viene riconosciuta solo una capitalizzazione annuale sui conti creditori, ad accettare una capitalizzazione con frequenza temporale infrannuale sui conti debitori, qualora avesse conosciuto per tempo la nullità della clausola in esame (Pandolfini, 713).

In sede applicativa si è ritenuto che la tesi in questione non potrebbe essere sostenuta neppure avendo riguardo alla circostanza che la stessa norma in commento consente gli interessi anatocistici «sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi», in quanto a stessa lascerebbe impregiudicate le altre condizioni in presenza delle quali tali particolari interessi sono ammessi (Trib. Roma 12 gennaio 2007), poiché il riferimento ai sei mesi, contenuto all'art. 1283 c.c., non è altro che l'indicazione del periodo minimo di maturazione degli interessi, necessario affinché detti interessi producano altri interessi, ma pur sempre sulla base di una convenzione anatocistica posteriore alla maturazione degli stessi e quindi mai preventiva (Trib. Benevento 18 febbraio 2008).

Per un'altra posizione, invece, la sostituzione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi su conto corrente bancario con un meccanismo di capitalizzazione annuale è resa possibile per l'operatività nella fattispecie in esame del meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla di cui all'art. 1374 c.c., in base al quale le clausole contrattuali contrarie a norme imperative sono colpite da nullità e vengono di diritto automaticamente sostituite da queste, e dall'altro per la possibilità di rinvenire nella disciplina generale detta fonte normativa idonea a supportare il meccanismo della suddetta capitalizzazione annuale (v., tra le altre, Trib. Firenze III, 27 novembre 2006; Trib. Bari I, 20 ottobre 2006, n. 2618, in giurisprudenzabarese.it). In definitiva, nei rapporti di conto corrente bancario può ritenersi esistente un uso normativo favorevole alla capitalizzazione degli interessi con cadenza annuale, che assicura la parità di trattamento tra il correntista e l'istituto di credito, in quanto, dato che la capitalizzazione annuale dei conti attivi non è mai stata posta in discussione, e viene percepita dai correntisti come un vero e proprio diritto, deve ritenersi che analogo uso possa essere considerato generale ed astratto ed, in quanto tale, valevole per tutti i rapporti di conto corrente, siano essi attivi che passivi, tanto più che per i correntisti è sempre stata seguita per prassi contrattuale la capitalizzazione anche per periodi inferiori all'anno (conf. Trib. Chieti 15 dicembre 2005 n. 5, in PQM, 2006, n. 1, 61).

Più in particolare, la posizione favorevole all'applicazione della capitalizzazione annuale è stata argomentata con dovizia di argomentazioni, in dottrina come in giurisprudenza:

a) la clausola delle condizioni generali di contratto che prevede la capitalizzazione, dopo la chiusura annuale, sia degli interessi a debito che degli interessi a credito (art. 7, 1 comma): dunque, ritenuta la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale per i conti anche saltuariamente a debito, resta comunque operante quella generale, riportata nei contratti bancari, che stabilisce la chiusura al 31 dicembre di ogni anno (Trib. Roma 8 ottobre 2004, in Foro it., 2005, I, 2177);

b) la periodicità annuale corrisponde al criterio di capitalizzazione applicato dalla banca a favore della clientela e, dunque, sussistono «esigenze di parità e conformità tra i contraenti» per ravvisarla (App. Napoli 20 aprile 2008, n. 1514; Trib. Roma 18 ottobre 2002, in Contratti, 2003, 812);

c) il giudice può «ricondurre ad equità il rapporto», una volta dichiarata la nullità della capitalizzazione trimestrale per squilibrio contrattuale, applicando anche agli interessi passivi la capitalizzazione annuale, avendo riguardo al principio di proporzionalità (Semeraro, 197 ss.);

d) al conto corrente bancario sarebbe applicabile — in ragione del meccanismo causale della periodica chiusura contabile, strumento che misura l'accrescimento del capitale depositato o affidato, e cioè per regolare la causa negoziale — l'anatocismo c.d. indiretto (in quanto mediato dal meccanismo di chiusura del conto) desumibile dal combinato disposto degli artt. 1823, 1825 e 1831 c.c. In tal modo, si potrebbero distinguere un anatocismo in materia civile, disciplinato dall'art. 1283 c.c., e un anatocismo c.d. commerciale, regolato dall'art. 1831 c.c., che rende possibile una pattuizione anatocistica degli interessi in deroga all'art. 1283 c.c., ed applicabile al conto corrente bancario, dal momento che «le divergenze constatate non sono decisive in relazione al punto in discussione», non essendo tale ne' la diversa struttura, né la diversa funzionalità, e dato che la mancanza di una chiusura periodica del conto renderebbe inesigibili detti interessi, impedendo ad entrambe le parti di pretenderli sino alla chiusura definitiva del conto (Trib. Padova 23 febbraio 2009);

e) la periodicità annuale della chiusura discende ex lege dall'art. 1284, comma 1 c.c., perché tale disposizione non disciplina solo la misura temporale dell'interesse, ma anche della capitalizzazione e, dunque, può operarsi una sostituzione automatica della clausola di anatocismo trimestrale nulla, ai sensi dell'art. 1374 c.c. (cfr., tra le altre, Trib. Novara 9 febbraio 2006, per la quale la conseguenza sui conti bancari della predetta invalidità parziale è che, riconoscendo sulla scorta di autorevole dottrina nell'anno il termine legale di scadenza dell'obbligazione di interessi ex art. 1284, comma 1 c.c. (ché diversamente opinando, clausole come quella portata dall'art. 7 del contratto in atti sarebbero illecite anche quando riconoscono ai clienti in attivo il diritto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi), alla periodicità trimestrale di capitalizzazione va automaticamente sostituita quella annuale, così riequilibrando il sinallagma contrattuale anche sotto il profilo temporale»; Trib. Trani 9 dicembre 2004, in Giur. merito, 2005, 1065, secondo cui è la legge stessa a ritenere adeguato l'anno quale termine entro il quale l'obbligazione viene a scadenza appare congruo ritenere che esso costituisca anche un termine reputato dalla legge sufficientemente ampio per precludere quell'effetto di moltiplicazione automatica del debito che l'art. 1283 c.c. vuole evitare impedendo scadenze infrasemestrali», e che espressamente dichiara di ricercare una soluzione, la quale abbia «il pregio di evitare la configurabilità nel sistema di obbligazioni il cui inadempimento sia privo di sanzione»).

Invero, è diffuso anche all'interno di una parte della dottrina il convincimento per il quale l'art. 1284, comma 1, c.c. non si limita ad occuparsi del tasso degli interessi, ma costituisce espressione di un'altra regola generale, ossia quella della scadenza annuale (e dunque dell'esigibilità) degli interessi, che renderebbe legittima la capitalizzazione annuale (cfr. AA. Dolmetta-A. Perrone, 408).

In sede pretoria si è ritenuta ammissibile la capitalizzazione annuale degli interessi passivi in ragione del disposto dell'art. 1284, comma 1 c.c., ove stabilisce che il saggio degli interessi legali è determinato in ragione d'anno, atteso che la produzione degli interessi sugli interessi scaduti è il frutto del generale principio di cui all'art. 1224 c.c., con la conseguenza che, scaduto il termine annuo di produzione degli interessi (previsto dall'art. 1284 c.c.) ed in mancanza di pagamento, inizierebbe a decorrere l'interesse di mora: per il principio generale di naturale scadenza ed esigibilità annuale degli interessi, da tale scadenza deriva l'effetto, proprio della scadenza di ogni obbligazione, del risarcimento del danno da inadempimento, regolato, per le obbligazioni pecuniarie come per quelle di interessi, dall'art. 1224 c.c. (v., tra le altre, Trib. Pescara 4 febbraio 2005).

f) l'anatocismo annuale è contemplato nella delibera Cicr, cui si riconduce l'odierno art. 120 TUB (cfr., ex ceteris, App. Napoli 20 aprile 2008, n. 1514).

g) potrebbe predicarsi la sussistenza di un uso normativo favorevole alla capitalizzazione annuale degli interessi, risalente ad un'epoca antecedente al codice civile del 1942, e tratta da ragioni di ordine tecnico-contabile, secondo cui è possibile affermare l'esistenza di un uso normativo favorevole alla capitalizzazione degli interessi con cadenza annuale, perché «posto che gli interessi attivi sono stati sempre riconosciuti al cliente secondo una cadenza periodica almeno annuale, tale uso non potrebbe essersi formato se in contemporanea i clienti avessero negato analoga prerogativa alle banche per gli interessi loro spettanti. In sostanza, non è possibile negare la reciprocità perché in contrario non si sarebbe mai formata quella opinio iuris ac necessitatis sottesa alla pratica favorevole ai clienti» (Trib. Padova 23 febbraio 2009).

A prescindere dalla mancata «codificazione» nelle norme bancarie uniformi predisposte dall'ABI, la capitalizzazione annuale per le somme a debito del cliente corrisponderebbe, quindi, secondo tale impostazione, ad un uso normativo, idoneo a derogare al divieto dell'anatocismo, con riguardo alla capitalizzazione annuale: infatti, la capitalizzazione degli interessi nei rapporti di conto corrente per effetto della periodica chiusura contabile dei conti è assistita dal requisito della ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus) nel settore considerato, nonché dalla convinzione che si tratti di comportamento non dipendente da mero arbitrio soggettivo, ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o si ritiene parte dell'ordinamento giuridico.

h) Ritenersi lecita la capitalizzazione annuale degli interessi (sia passivi che attivi) qualora sia effettuata in regime di reciprocità; la legittimità non deriva dall'applicazione analogica delle norme del conto corrente ordinario al conto corrente bancario, bensì in virtù del principio di autonomia negoziale delle parti di cui all'art. 1322 c.c.»: il tribunale ha ritenuto lecita la clausola di capitalizzazione annuale — ravvisata evidentemente nelle condizioni uniformi richiamate in contratto — perché non vi è sperequazione fra le parti, dato che gli interessi sia attivi e sia passivi, alla scadenza annuale pattuita, perdono la loro natura e diventano capitale.

Ancora più tranchant è la ritenuta inapplicabilità dell'art. 1283 c.c. al conto corrente bancario, tesi enunciata già quando si discorreva della capitalizzazione trimestrale, ed ancor più applicabile all'anatocismo annuale (Trib. Firenze 16 febbraio 2004).

Secondo una posizione più rigorosa, deve ritenersi illegittima anche la capitalizzazione annuale degli interessi passivi.

A riguardo si è ad esempio osservato in sede applicativa che la clausola che prevede a favore della banca la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi deve ritenersi, pertanto, affetta da nullità, non in relazione a una specifica scansione temporale (trimestrale, semestrale o annuale) ma in quanto espressione, per il periodo in esame, di una illecita pratica anatocistica. La nullità della clausola si traduce, quindi, nell'esclusione necessaria di qualsiasi forma di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente alla banca. In sostanza (in assenza di una diversa indicazione contrattuale), occorre contabilizzare separatamente gli interessi passivi maturati nel corso del rapporto, senza la produzione da parte di detti interessi di ulteriori interessi passivi (Trib. Genova 10 maggio 2006, in Corr. giur., 2007, 1147, con nota di Cecchinato).

Al fine di sostenere questa tesi si è, tra l'altro, evidenziato che:

a) dall'esame delle clausole di norma sottoscritte dai correntisti, appare una forzatura ritenere che le parti abbiano previsto, per gli interessi a debito, contestualmente una capitalizzazione sia trimestrale che annuale, in quanto invece «la comune intenzione dei contraenti era di prevedere la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista e quella annuale degli interessi a suo credito»: caduta la capitalizzazione trimestrale, nessuna capitalizzazione è, dunque, più pattuita per gli interessi a debito (App. Lecce 19 febbraio 2009, n. 97);

b) la periodicità annuale esiste soltanto per gli interessi a credito: ciò comporta indubbiamente uno squilibrio nel rapporto, ma il giudice non può introdurre una clausola non voluta dalle parti (Trib. Roma 12 gennaio 2007, in Foro it., 2007, I, 1947 e in Giur. it., 2007, 379), sicché anche la clausola di capitalizzazione annuale, prevista nel citato art. 7 delle norme bancarie uniformi, è nulla, per le stesse ragioni della nullità della clausola che prevede l'anatocismo trimestrale (Trib. Torino 21 gennaio 2010);

c) le norme per il conto corrente ordinario, ed in particolare l'art. 1831 c.c., non si applicano al conto corrente bancario, perché non richiamate dall'art. 1857 c.c., né se ne dà applicazione analogica, stanti le profonde differenze, attinenti alla diversa struttura, causale e tipologica, dei due contratti, con la conseguenza che la capitalizzazione degli interessi non può considerarsi una naturale conseguenza della struttura del contratto di conto corrente bancario (Trib. Cagliari 4 aprile 2007, in Riv. giur. sarda, 2008, 383, con nota di Casula; Trib. S. Angelo dei Lombardi 24 ottobre 2005, in Giur. merito, 2006, 1869, con nota di Flammia);

d) non si può surrogare il patto sulla capitalizzazione, da trimestrale ad annuale, perché altrimenti si forza il contenuto del contratto, inserendovi arbitrariamente qualcosa, che precedentemente non c'era: dunque, non è possibile l'inserzione automatica di clausole ai sensi dell'art. 1374 c.c., dal momento che l'art. 1284 c.c., dalla tesi avversa invocato, dispone bensì che il tasso d'interesse sia determinato «in ragione d'anno», ma ciò riguarda il tema tutt'affatto diverso della misura del tasso da applicare e non sancisce che il risultato di quell'operazione venga capitalizzato. Pertanto, l'anatocismo «non è previsto, ma, a determinate condizioni, soltanto permesso dalla legge, sicché, in mancanza di valida convenzione, non si verifica, nel regolamento negoziale, alcuna lacuna che necessiti di essere colmata ed esso anatocismo rimane semplicemente non pattuito tra le parti».

Neppure si attua il meccanismo sostitutivo di capitalizzazione ai sensi dell'art. 1339 c.c., perché l'imposizione della pari periodicità delle clausole di capitalizzazione degli interessi attivi e passivi, sancita dalla delibera Cicr del 9 febbraio 2000, non si estende ai contratti anteriori alla sua entrata in vigore. Inoltre, «il principio posto dall'art. 1339 c.c. (inserzione automatica di clausole) non è invocabile nell'ipotesi in cui non si prospetti la sostituzione di clausole contrattuali difformi rispetto a norme imperative di legge, ma solo l'integrazione di lacune della manifestazione della volontà negoziale peraltro al fine, di ottenere non già effetti derivanti dall'applicazione della norma imperativa, bensì effetti del tutto diversi, che possono dipendere solo dalle pattuizioni delle parti»;

e) non è ammissibile l'anatocismo annuale per effetto dell'applicazione dell'art. 1224 c.c. in ipotesi di omesso pagamento degli interessi da parte del correntista, in quanto gli interessi scaduti non possono produrre, a loro volta, interessi moratori: infatti, «il debito per interessi ha natura del tutto peculiare e non è assimilabile a qualsivoglia obbligazione pecuniaria, costituendo di per sé già un frutto civile di una sottostante obbligazione e non potendo, per tale ragione, produrre interessi moratori ulteriori» e sussiste «la specialità dell'obbligazione di interessi rispetto al genus delle obbligazioni pecuniarie», tanto che per il debito degli interessi, il quale sarebbe automaticamente produttivo di interessi di pieno diritto ai sensi dell'art. 1282 c.c., tale effetto è escluso dal successivo art. 1283 c.c., applicabile ad ogni tipo di interessi, anche moratori, ed avente carattere di specialità, sì da prevalere sul disposto dell'art. 1224 c.c. Si afferma pure (in modo, in verità, poco convincente) che, comunque, l'inadempimento all'obbligo di pagamento degli interessi non è privo di sanzione, tale essendo lo stesso obbligo protratto di pagarli;

f) la delibera Cicr non indica affatto la regola generale della capitalizzazione annuale: essa ha permesso la capitalizzazione degli interessi mediante specifica pattuizione per iscritto anche precedente alla loro scadenza (purché siano indicati la periodicità, il tasso applicato e sia assicurata la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori), ma esclusivamente ai contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della delibera stessa.

Inoltre, si è scritto che «la tesi che consente il ricorso a forme di capitalizzazione periodica annuale degli interessi attivi (per la banca), che appare di segno conforme al contenuto della delibera CICR 9 febbraio 2000 [...] presenta l'irrefutabile vantaggio di equiparare il trattamento dei contratti stipulati prima e dopo il terzo trimestre dell'anno 2000 (momento che segna l'inizio del periodo di applicazione della delibera in discorso). L'argomento, evidentemente ispirato da esigenze di sostanziale riequilibrio delle posizioni contrattuali, non è tuttavia risolutivo», ritenendosi necessario un espresso riferimento normativo, affinché la capitalizzazione degli interessi possa trovare applicazione con la stessa periodicità sia dal lato attivo che da quello passivo del rapporto, come ha dimostrato l'introduzione del terzo comma dell'art. 25 d.lgs. n. 342/1999, dalla cui caducazione ad opera della Corte costituzionale discende l'inesistenza di alcuna disposizione in tal senso;

g) non vi è al riguardo un uso normativo perché, quand'anche fosse esistito prima dell'entrata in vigore del codice civile, esso, per essere stato poi soppiantato da una (sebbene illegittima) prassi negoziale della capitalizzazione trimestrale, non è più attuale;

h) la capitalizzazione degli interessi comporta, anche nel conto corrente bancario, un vero e proprio anatocismo, che è illecito ex art. 1283 c.c., norma pienamente applicabile a tale contratto. La tesi in esame, in definitiva, finisce per ritenere applicabili soltanto gli interessi semplici: gli interessi maturati a debito del cliente non si capitalizzano mai, ma restano conteggiati separatamente dal capitale.

Sulla questione, peraltro, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, suffragando l'orientamento più rigoroso, secondo cui è conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, in particolare all'interpretazione sistematica delle clausole, l'interpretazione data dal giudice di merito ad una clausola di un contratto di conto corrente bancario, stipulato tra le parti in data anteriore al 22 aprile 2000, e secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi, pattuita nel primo comma di tale clausola, si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo, invece, la capitalizzazione degli interessi a debito prevista nel comma successivo, su base trimestrale, con la conseguenza che, dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione (Cass. S.U., n. 24418/2010, in Riv. dir. comm., 2011, n. 4, 407, con nota di P. Ferro-Luzzi).

Sul punto, la S.C. ha precisato che, nell'ipotesi di conto corrente bancario stipulato anteriormente al 22 aprile 2000, l'esclusione del diritto della banca ad operare qualsiasi capitalizzazione degli interessi a debito del correntista, in seguito alla dichiarazione di nullità della relativa pattuizione, secondo quanto precisato dalla sentenza n. 24418/2010 resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, non integra alcuna ipotesi di «overruling» a tutela dell'affidamento incolpevole della banca stessa, trattandosi di mutamento di giurisprudenza riguardante norme di carattere sostanziale e non processuale (Cass. 6-1, n. 20172/2013).

Ne deriva che la capitalizzazione degli interessi passivi è ammessa soltanto per il periodo successivo alla data del 22 aprile 2000, purché, in conformità all'art. 120 TUB ed alla delibera CICR, il correntista abbia approvato per iscritto le nuove modalità di capitalizzazione (che devono essere «equivalenti» per quelli attivi) degli interessi, approvazione necessaria in considerazione del carattere peggiorativo (per il correntista) della modifica delle disposizioni in tema di capitalizzazione degli interessi, non essendo quest'ultima, in epoca precedente, affatto consentita (cfr., di recente, Trib. Chieti 21 giugno 2018, n. 74).

Sulle ripercorse questioni la recentissima Cass. VI, n. 4321/2022, ha sottolineato che, in tema di usura bancaria, ai fini del superamento del "tasso soglia" previsto dalla disciplina antiusura, non è possibile procedere alla sommatoria degli interessi moratori con la commissione di estinzione anticipata del finanziamento, non costituendo quest'ultima una remunerazione, a favore della banca, dipendente dalla durata dell'effettiva utilizzazione del denaro da parte del cliente, bensì un corrispettivo previsto per lo scioglimento anticipato degli impegni a quella connessi.

Resta fermo, nondimeno, che, in tema di usura, nei rapporti di credito regolati in conto corrente bancario, la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi – pur se legittimamente concordata secondo quanto previsto dalla delibera CICR del 9 febbraio 2000 - deve essere inserita nel conto delle voci rilevanti ai fini della verifica del superamento del "tasso soglia", poiché, anche se lecita, costituisce un costo del credito concesso (Cass. I, n. 33964/2022).

La stessa pronuncia Cass. S.U. n. 24418/2010 ha esaminato, per altro verso, il problema della prescrizione rispetto alle pretese restitutorie dei correntisti fondati sull'applicazione di interessi «composti» illegittimi. A riguardo, le Sezioni Unite hanno premesso che non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l'attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione, sottolineando che tale conclusione non muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita, che non può decorrere che dal pagamento. Le Sezioni Unite hanno quindi sottolineato che non può essere individuato il dies a quo del decorso della prescrizione nella data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista, poiché l'annotazione in conto di una siffatta posta comporta un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria del correntista medesimo in favore della banca. La Corte ha rilevato che dal momento dell'annotazione, avvedutosi dell'illegittimità dell'addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell'addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso e potrà farlo, se al conto accede un'apertura di credito bancario, allo scopo di recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Occorre allora aver riguardo, più ancora che al già ricordato carattere unitario del rapporto di conto corrente, alla natura ed al funzionamento del contratto di apertura di credito bancario, che in conto corrente è regolata. Come agevolmente si evince dal disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l'apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l'intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli.

Pertanto, se, pendente l'apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l'eventuale azione di ripetizione d'indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione. Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire «scoperto») cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere. La distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca, opportunamente richiamata anche nell'impugnata sentenza della corte d'appello, è ben nota alla giurisprudenza, e pur se elaborata ad altri fini, non può non venire in evidenza anche quando si tratti di stabilire se è o meno configurabile un pagamento, asseritamente indebito, da cui possa scaturire una pretesa restitutoria ad opera del solvens, pretesa che è soggetta a prescrizione solo a partire dal momento in cui si può affermare che essa sia venuta ad esistenza. Un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell'affidamento concesso dalla banca con l'apertura di credito non ha né lo scopo né l'effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell'affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà d'indebitamento del correntista e la circostanza che, in quel momento, il saldo passive del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un'indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto. In ragione di tale diffusa argomentazione, le Sezioni Unite hanno quindi espresso il principio per il quale l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati, atteso che, in tale ipotesi, ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell'esecuzione di una prestazione da parte del solvens con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'accipiens (Cass. S.U., n. 24418/2010, cit.).

Nella giurisprudenza successiva della S.C. si è quindi evidenziato, in una prospettiva sostanzialmente consonante, che l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti sono stati eseguiti in pendenza del rapporto, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati (Cass. I, n. 10713/2016). Invero, come evidenziato anche in sede applicativa, i versamenti eseguiti su conto corrente, in corso di rapporto, hanno funzione ripristinatoria della provvista e non natura solutoria, per cui il termine di prescrizione decennale decorre dalla data di chiusura del rapporto di conto corrente e non dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi anatocistici (Trib. Lucca 22 dicembre 2017, n. 2338).

È stato peraltro precisato che l'assenza di rimesse solutorie eseguite dal correntista non esclude l'interesse di questi all'accertamento giudiziale, prima della chiusura del conto, della nullità delle clausole anatocistiche e dell'entità del saldo parziale ricalcolato, depurato delle appostazioni illegittime, con ripetizione delle somme illecitamente riscosse dalla banca, atteso che tale interesse mira al conseguimento di un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non attingibile senza la pronuncia del giudice, consistente nell'esclusione, per il futuro, di annotazioni illegittime, nel ripristino di una maggiore estensione dell'affidamento concessogli e nella riduzione dell'importo che la banca, una volta rielaborato il saldo, potrà pretendere alla cessazione del rapporto (Cass. VI-1, n. 21646/2018).

Casistica

Con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 385/1993 (cosiddetto TUB), secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all'eguale importo di interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole, andavano a costituire la provvista per l'erogazione dei mutui). Ne consegue che l'avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, comporta l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 c.c. e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l'obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario (Cass. I, n. 11400/2014).

In tema di mutuo agrario di miglioramento disciplinato dalla l. n. 1760/1928, e con riferimento al calcolo degli interessi di mora, devono ritenersi applicabili le limitazioni previste dall'art. 1283 c.c., non rilevando, in senso opposto, l'esistenza di un uso bancario contrario a quanto disposto dalla norma predetta e non essendo l'anatocismo previsto dalla legislazione di settore, in deroga all'art. 1283 c.c.; poiché con riguardo al suddetto mutuo non è dato rinvenire, in epoca anteriore al 1942, alcun uso che consentisse l'anatocismo oltre i limiti poi previsti dall'art. 1283 c.c., sono illegittime tanto le pattuizioni, quanto i comportamenti — ancorché non tradotti in patti — che si risolvano in un'accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una disciplina diversa da quella legale (Cass. III, n. 2072/2013).

Il fatto che, a parità di condizioni economiche, un piano di ammortamento alla francese comporti un esborso complessivo a titolo di interessi superiore a quello determinato da un piano di ammortamento all'italiana (ossia comportante una costanza della rata solo per la quota capitale e una differente incidenza della quota di interessi mano a mano che si riduca il capitale da restituire per effetto del pagamento delle rate precedenti) discende non da un illegittimo effetto anatocistico proprio del primo programma di rateizzazione dell'obbligazione restitutoria, quanto, più semplicemente, dal fatto che la necessità di mantenere costanti le rate per tutta la durata del mutuo impone di diluire maggiormente la restituzione del capitale e, quindi, di confezionare un piano di ammortamento di durata maggiore, cui inevitabilmente corrisponde un maggiore importo complessivo spettante a titolo di interessi (essendo maggiore il tempo che il mutuatario richiede per restituire la somma a suo tempo erogatagli). L'esborso complessivo in termini maggiori a titolo di interessi, quindi, non discende, né tanto meno comporta una indeterminatezza della pattuizione in ordine agli interessi, dal momento che non è dovuto al fatto che sia stato applicato un tasso maggiore rispetto a quello dichiarato, come invece sostenuto dalla difesa attorea, ma, semplicemente, consegue al maggior tempo concordato per la restituzione dell'importo mutuato (Trib. Busto Arsizio III, 10 ottobre 2018, n. 1586). In sostanza, è legittimo il c.d. ammortamento alla francese, non discendendo dalla sua applicazione alcuna forma di capitalizzazione vietata poiché l'imputazione dei pagamenti prevalentemente in conto di interessi e solo in minima parte in conto capitale (nell'ammortamento alla francese la quota capitale è nelle prime rate molto bassa e cresce col tempo) risulta assolutamente rispondente alla regola prevista dall'art. 1194 c.c. (Trib. Catania IV,11 luglio 2018, n. 2948).

In tema di fideiussione omnibus, va disposta la verifica dell'applicazione degli interessi anatocistici al conto corrente di cui è titolare il debitore principale in forza del principio secondo cui — a prescindere dalla qualificazione del contratto tra le parti — il garante autonomo di un rapporto di conto corrente è legittimato a sollevare nei confronti della banca l'eccezione di nullità della clausola anatocistica allorquando essa non si fondi su di un uso normativo (Trib. Napoli II, 13 marzo 2018).

Nel contratto autonomo di garanzia, improntandosi il rapporto tra il garante e il creditore beneficiario a piena autonomia, il garante non può opporre al creditore la nullità di un patto relativo al rapporto fondamentale, salvo che essa dipenda da contrarietà a norme imperative o dall'illiceità della causa e che, attraverso il medesimo contratto autonomo, si intenda assicurare il risultato vietato dall'ordinamento; tuttavia si deve escludere che la nullità della pattuizione di interessi ultralegali si comunichi sempre al contratto autonomo di garanzia, atteso che detta pattuizione — eccezion fatta per la previsione di interessi usurari — non è contraria all'ordinamento, non vietando quest'ultimo in modo assoluto finanche l'anatocismo, così come si ricava dagli artt. 1283 c.c. e 120 del d.lgs. n. 385/1993 (Cass. I, n. 20397/2017).

A tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura, compresi quelli di cui agli artt. 35 e 36 del Capitolato generale d'appalto per le opere pubbliche, approvato con d.P.R. n. 1063/1962 (operante ratione temporis), è applicabile, in mancanza di usi contrari, la regola dell'anatocismo dettata dall'art. 1283 c.c., dovendo escludersi che il debito per interessi, anche quando sia stato adempiuto il debito principale, si configuri come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, comma 2 c.c. (Cass. I, n. 18348/2013).

Agli interessi sui crediti previdenziali ed assistenziali divenuti esigibili prima dell'entrata in vigore dell'art. 16, comma 6 l. n. 412/1991, non si applica il regime giuridico proprio delle obbligazioni pecuniarie, non avendo essi la natura di veri e propri «accessori» del credito «principale», bensì di componenti essenziali di una prestazione unitaria, sicché il pagamento del solo credito originario si configura come adempimento soltanto parziale della prestazione, alla cui determinazione il giudice deve provvedere anche in assenza di domanda giudiziale. Ne consegue che la domanda di pagamento del residuo credito per rivalutazione monetaria ed interessi legali va maggiorata di rivalutazione monetaria ed interessi legali, in cumulo tra loro, non potendo operare in relazione agli interessi legali la disciplina generale in materia di anatocismo recata dall'art. 1283 c.c. (Cass. sez. lav., n. 18558/2014).

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