Codice Civile art. 1573 - Durata della locazione.

Gian Andrea Chiesi

Durata della locazione.

[I]. Salvo diverse norme di legge [1607, 1629], la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni. Se stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta al termine suddetto.

Inquadramento

La locazione è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo: come ampiamente chiarito nel commento all'art. 1571 c.c., si assiste, dunque, ad uno scambio, protratto nel tempo, tra la concessione in godimento di una cosa ed il pagamento di un corrispettivo (il cd. canone o pigione), i cui predicati – come detto – portano a discorrerne in termini di contratto a) consensuale, b) ad effetti meramente obbligatori, c) a prestazioni corrispettive, d) oneroso e e) di durata (ovvero, seguendo le definizioni codicistiche, ad esecuzione continuativa o periodica).

La protrazione “per un dato tempo” (v. l'art. 1571 c.c.) del rapporto rappresenta, cioè, una condizione essenziale affinché il contratto possa realizzare la sua stessa funzione: dalla riconduzione della locazione a tale categoria di contratti conseguono, poi, alcuni effetti, quali 1) la non retroattività degli eventi che producono scioglimento del vincolo rispetto all'esecuzione già avvenuta, 2) la risolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta, 3) la sospensione della controprestazione nel caso di non esecuzione parziale della prestazione per causa non imputabile, 4) la decorrenza della prescrizione, nell'ipotesi di prestazione reiterata, dalle singole scadenze, 5) l'applicabilità della rinnovazione tacita e della proroga.

Sulla configurazione in tal senso del contratto di locazione è chiara anche la giurisprudenza (Cass. III, n. 3019/1996), la quale ha evidenziato che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, non concretandosi il contratto locatizio nella mera corresponsione del canone, ma integrandosi anche nel godimento del bene (protrattosi nel tempo), rivelandosi inconferente a tale riguardo la circostanza che i canoni vengano corrisposti quando ormai è stata pronunziata la risoluzione della locazione.

L'art. 1573 c.c. (il quale riproduce l'art. 1571 del codice civile del 1865) contiene una norma di chiusura, stabilendosi ivi che, salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni e che, se la stessa è stata stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta entro il rispetto di tale termine massimo: è, dunque, da escludere una locazione perpetua (Cass. III, n. 434/1978).

La previsione di tale durata massima palesa, con evidenza, il disvalore che il legislatore nutre per i contratti costitutivi di diritti personali, di durata tale da determinare forme di godimento perpetuo o, comunque, di carattere rilevante (Tabet, 1972, 1009), la ratio di tale limitazione dovendosi rinvenire nella volontà di evitare che, attraverso la previsione di una durata eccessiva, venga sacrificata la libertà di iniziativa economica del locatore (Guarino, 32).

Sempre nella medesima prospettiva, è stato escluso che la scelta del legislatore di limitare entro tale termine massimo la durata del rapporto locatizio sia irragionevole: Cass. III, n. 2137/2006 ha infatti ritenuto manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 1573 c.c., sollevata in relazione agli artt. 3 e 41 Cost., osservando, da un lato, che la diversa disciplina rispetto al contratto di comodato è giustificato dalla diversa funzione dei due negozi e, comunque, il concedente può far cessare il comodato in qualunque momento e, dall'altro, che una eccessiva durata della locazione comprimerebbe il diritto di iniziativa economica che è garantito proprio dal predetto art. 41 Cost.

In questo contesto, non bisogna confondere le locazioni ordinarie con le c.d. locazioni perpetue d'acqua, le quali presentano un profilo complesso, misto di elementi reali e di elementi obbligatori, che per l'appunto le distingue dal vero e proprio rapporto di locazione: osserva in proposito App. Milano, 9 marzo 1979, che l'elemento reale, il quale costituisce il rapporto centrale e concerne i fondi più che i relativi proprietari, è rappresentato dalla somministrazione dell'acqua, mentre l'elemento obbligatorio consiste nella corresponsione del prezzo dell'acqua.

L'art. 1573 c.c. rappresenta una norma inderogabile, la cui violazione è rilevabile d'ufficio.

Del medesimo avviso la dottrina (Tabet, 1972, 1004), per la quale, inoltre, la disposizione rappresenterebbe un'applicazione pratica del principio, fissato dagli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., di sostituzione di diritto di norma imperativa alla clausola viziata (Bucci, Malpica, Redivo, 37; Provera, 170), con conseguente esclusione della possibilità di far valere, ai sensi del precedente comma 1 del medesimo art. 1419 c.c., la nullità dell'intero contratto (Tabet, 1972, 1009).

Chiarisce in proposito Cass. III, n. 2137/2006 che l'art. 1573 c.c. è norma di interesse generale e di ordine pubblico, che pone un limite di natura sostanziale e non formale all'autonomia privata: tale limitazione legale della durata della locazione si ispira al principio generale, desumibile dall'ordinamento vigente, secondo cui le pattuizioni che riguardano il godimento di cose non possono avere una durata antieconomica ed antisociale, giacché una durata eccessivamente lunga dei vincoli contrattuali imposti alle cose determinerebbe un inaridimento della fonti di impiego produttivo (v. l'art. 979 per l'usufrutto) e si tradurrebbe in una limitazione obiettiva del diritto, con chiari accenti reali. Del medesimo tenore Cass. III, n. 1255/1946, per la quale la riduzione della durata della locazione, stipulata per oltre un trentennio, a tale periodo, non è affidata alla volontà delle parti, ma è prescritta espressamente, in modo che la norma, riveste tutti i requisiti d'una disposizione d'ordine pubblico e, come tale, è applicabile dal giudice anche d'ufficio.

Alle medesime conclusioni è pervenuta a giurisprudenza anche a proposito della durata dei contratti di locazione disciplinati dalla legge sull'equo canone, essendosi chiarito (Cass. III, n. 21965/2019. In senso conforme Cass. III, n. 7927/2004) che, se la nullità della clausola che limita la durata di un contratto soggetto alle disposizioni dell'art. 27 della l. n. 392/1978 ad un tempo inferiore al termine minimo stabilito dalla legge determina l'automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi dell'art. 1419, comma 2, c.c., con conseguente applicazione della durata legale prevista dal cit. art. 27, comma 4,  è, viceversa, consentito alle parti convenire una locazione per periodi più lunghi di quello minimo previsto dalla legge, in quanto l'art. 27 considera inderogabile la (sola) durata minima senza porre limiti a quella massima, che rimane pertanto ancorata alla generale disposizione di cui all'art. 1573 c.c., secondo la quale sono consentite le locazioni sino a trent'anni.

La durata massima: il computo dei trent'anni

Si è detto, nel commento all'art. 1572 c.c. ed a proposito della individuazione di un criterio discretivo tra locazioni infra ed ultranovennali, che la giurisprudenza (Cass. III, n. 1137/1956; Cass. III, n. 599/1982) ha chiarito che per la qualificazione – in termini di durata – del contratto di locazione, occorre aver riguardo alla volontà originaria delle parti e non alla potenziale maggior durata del medesimo, sia per tacito rinnovo, sia per una proroga derivante dalla volontà della legge, che si sovrapponga d'imperio alla volontà dei contraenti: ne dovrebbe conseguire l'inoperatività dell'art. 1573 c.c. allorché il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore a tale termine massimo e, pur tuttavia, questo venga superato per effetto di meccanismi di rinnovazione (espressa o tacita) del rapporto.

La giurisprudenza di legittimità, in realtà, tende a distinguere tra l'ipotesi in cui le parti abbiano preveduto e regolato, fin dall'inizio del rapporto locatizio, la continuazione del rapporto, e quella in cui il permanere di esso si faccia discendere, in conformità di espressa disposizione di legge, dal successivo comportamento di inerzia dei contraenti e, cioè, in funzione di una tacita manifestazione di volontà sopravvenuta: nel primo caso, infatti, si afferma che il perdurare o il cessare della locazione consegue ad un fatto positivo o negativo collegato all'esercizio di una facoltà sorgente dal contratto mentre, nel secondo caso, esso dipende dall'indisturbato possesso della cosa locata da parte del conduttore, reso inequivoco dalla mancata intimazione della licenza ex parte locatoris (Cass. III, n. 2502/1970): sicché il limite posto dall'art. 1573 c.c. troverebbe applicazione solo in tale ultimo frangente e non anche nel primo caso, laddove si avrebbe la conclusione di un nuovo rapporto negoziale.

La conclusione innanzi esposta è stata, però, variamente mitigata, in dottrina come in giurisprudenza.

Si è, anzitutto, osservato che, nell'ipotesi in cui la facoltà di rinnovare il contratto oltre il trentennio venga vincolata alla volontà di una sola parte, si devono ritenere operanti le ragioni alla base del divieto posto dall'art. 1573 c.c., con conseguente nullità della relativa clausola (Tabet, 1972, 280).

In senso parzialmente contrario, si è però osservato che, laddove la concreta rinnovazione del contratto dipende dalla unilaterale volontà del conduttore, deve escludersi che la locazione possa ritenersi di durata illimitata (con conseguente inapplicabilità degli artt. 1573 e 1584 c.c.), essendo il rinnovo riconducibile alla volontà già manifestata in modo irrevocabile dal locatore e a quella di volta in volta espressa dal conduttore (Cass. III, n. 2137/2006; Cass. III, n. 9545/1996).

La giurisprudenza ha, quindi, ulteriormente ampliato l'ambito di operatività della norma, precisando che la nullità dalla stessa contemplata opera sia nel caso in cui la durata ultratrentennale derivi dal termine originariamente assegnato al contratto, sia nel caso in cui essa consegua all'imposizione di limiti più o meno stringenti all'esercizio del potere di recesso alla scadenza: così, ad esempio, è stata ritenuta nulla, per contrasto con l'art. 1573 c.c., la clausola del contratto di locazione relativo ad immobile adibito a cabina di trasformazione dell'energia elettrica, con cui si neghi la possibilità di recesso fino a quando il locatore usufruisca di energia derivante da detta cabina, trattandosi di condizione unilaterale risolutiva del rapporto, gravante sul solo locatore (Cass. III, n. 20985/2012). Principio che – a ben vedere – rinviene il proprio fondamento in un precedente intervento di legittimità (Cass. III, n. 2137/2006) per cui il limite massimo previsto dall'art. 1573 c.c. deve intendersi applicabile non solo quando sia stata pattuita sin dall'inizio una durata eccedente i trenta anni ma anche quando, pur pattuita una durata inferiore, sia stata in contratto altresì prevista la rinnovazione del rapporto per un numero indeterminato di volte, in quanto la pattuizione della rinnovazione è valida ed efficace soltanto nei limiti temporali del trentennio, altrimenti realizzandosi attraverso la pattuizione di successive rinnovazioni proprio ciò che la norma ha inteso escludere in occasione della prima stipulazione del rapporto, con conseguente elusione del divieto dalla stessa norma stabilito: sicché, qualora le parti abbiano inserito nel contratto la clausola secondo cui il locatore sia vincolato a non fare cessare il contratto alla scadenza se non per determinate proprie necessità, il decorso di un trentennio dal suo inizio comporta che, ove il rapporto alla scadenza si sia rinnovato per il periodo successivo, di esso ben può legittimamente darsi disdetta indipendentemente dal verificarsi delle indicate necessità.

Le deroghe all'art. 1573 c.c.

La disposizione in commento, facendo applicazione del principio per cui la legge speciale deroga alla norma di carattere generale, sottrae alla propria operatività i casi in cui il legislatore espressamente consente la stipulazione di contratti di locazione di durata ultratrentennali.

Tali ipotesi sono state ricondotte alle fattispecie disciplinate dagli artt. 1607 (che consente, nell'ipotesi di case per abitazione, la stipulazione di contratti di locazione per tutta la durata della vita dell'inquilino e per i due anni successivi alla sua morte) e 1629 c.c. (che prevede, nel caso di affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento, un termine massimo di novantanove anni).

Quanto all'art. 1607 c.c., la ratio della previsione va rinvenuta nella considerazione che i due anni previsti dalla norma servono ai conviventi del conduttore defunto per trovare un altro alloggio; si tratta di una norma inderogabile (siccome, diversamente opinando, si aggirerebbe il divieto posto dall'art. 1573 c.c.) e di carattere speciale, siccome tale insuscettibile di applicazione estensiva o analogica; essa, inoltre determina la riconduzione della locazione così convenuta sotto l'ambito di operatività dell'art. 1572, comma 1, c.c., quanto a requisiti di validità ed efficacia del relativo patto (sicché, in ultima analisi, si verserebbe in presenza di un atto eccedente l'ordinaria amministrazione).

Conforme è la posizione delle dottrina, la quale a) individua in quella innanzi esposta la giustificazione della previsione codicistica (Vitali, 435), b) parifica la norma in commento, quoad effectum (e, dunque, ai fini dei requisiti del patto, della relativa opponibilità e dell'inquadramento tra gli atti di straordinaria amministrazione), alla locazione ultranovennale (Tabet, 1972, 266; Vitali, 435) e c) esclude che essa possa trovare applicazione a casi diversi da quello della locazione delle case destinate ad uso di abitazione (Vitali, 434). A tale ultimo proposito, anzi, si è affermato che, ove durante la locazione si verifichi un mutamento di destinazione, riprenderebbe vigore la disciplina generale fissata dall'art. 1573 c.c., con conseguente riduzione del termine massimo a quello trentennale fissato da tale ultima disposizione (Mirabelli, 1972, 351).

Sempre nell'ottica della insuscettibilità di interpretazione estensiva o analogica dell'art. 1607 c.c. si è altresì osservato che, ove la durata della locazione fosse ragguagliata alla vita di un terzo e già non del conduttore, tornerebbe a trovare applicazione la disciplina generale fissata dall'art. 1573 c.c.

Nel caso, poi, di locazione che presenti una parte plurisoggettiva a latere conductoris, si ritiene che il contratto duri fino alla morte del più longevo dei conduttori, secondo un meccanismo analogo a quello contemplato per l'ipotesi di usufrutto congiuntivo (Giannattasio, 311).

Per concludere sull'argomento si deve segnalare, infine, la difficoltà di coordinamento tra la previsione in esame e l'art. 6, comma 1, della l. n. 392/1978, per cui, in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi: ed infatti, la disposizione codicistica, benché la presupponga, non indica espressamente la convivenza dei familiari quale elemento condizionante l'efficacia della clausola che contempli una durata del contratto ulteriore di due anni rispetto alla morte del locatore.

Su tale tema (che pure in dottrina ancora presenta soluzioni difformi, nella contrapposizione tra la tesi che attribuisce la qualità di conduttori agli eredi iure successionis, secondo la norma dell'art. 1614 c.c. e la soluzione che prospetta la estinzione del rapporto, nel caso in cui non sussista alcuno dei soggetti indicati nella norma dell'art. 6 della l. n. 392/1978) la giurisprudenza di legittimità esprime ormai da tempo l'indirizzo costante della inapplicabilità della norma codicistica in rapporto alla tipicità della locazione abitativa, che giustifica la tipicità della relativa disciplina successoria: sicché, l'erede non convivente – mentre risponde, secondo i principi generali, delle obbligazioni scadute al momento dell'avvenuta successione e già non soddisfatte dal suo dante cause, tra esse anche quelle relative al rapporto di locazione estinto con la morte del conduttore – per il resto, quanto all'immobile locato, non subentra nella detenzione qualificata del conduttore defunto, ma viene a trovarsi con la res locata nella relazione di mero fatto di detenzione precaria che, comunque, gli deriva dalla sua qualità di successore del defunto e che, facendone un occupante senza titolo, rende esperibile nei suoi confronti l'azione di rilascio (Cass. III, n. 6965/2001; Cass. III, n. 26670/2017).

Quanto, invece, alla fattispecie contemplata dall'art. 1629 c.c., l'affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento può essere stipulato per un termine massimo di novantanove anni: la ratio di tale previsione è abbastanza facile a comprendersi e va agganciata alla lentezza del ciclo produttivo del bosco.

Si ritiene in dottrina (Bivona, 169) che, stante la natura eccezionale della norma, essa sia sottratta alla disciplina generale prevista per i contratti di affitto dagli artt. 1, comma 2 e 41 della l. n. 203/1982: donde la classificazione del contratto in tal modo stipulato tra gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, con conseguente necessità del rispetto della forma scritta ad substantiam.

Anche tale norma è inderogabile, con la conseguenza che ove l'affitto sia convenuto per una durata maggiore ai novantanove anni, ovvero in perpetuo, il termine deve intendersi ridotto entro il limite previsto dalla norma, ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.

La durata minima

Speculare al problema affrontato dall'art. 1573 c.c. è quello della durata minima del contratto di locazione: in proposito si deve evidenziare come la l. n. 392/1978 e la l. n. 431/1998, integrando la disciplina codicistica (v., in specie, l'art. 1574 c.c.), dettano regole precipue relativamente alla durata minima degli immobili urbani locati ad uso abitativo e ad uso diverso.

In particolare, all'esito dell'entrata in vigore della l. n. 431/1998, il quadro complessivo della disciplina delle locazioni ad uso abitativo può essere riassunto nei termini che seguono: a) ricadono sotto l'ambito di operatività della l. n. 431/1998, in combinato disposto con le previsioni non abrogate della l. n. 392/1978 e le norme del codice civile, i contratti conclusi ex artt. 1, comma 3, 2, commi 1 e 3, nonché 5, commi 1, 2 e 3 della l. n. 431/1998; b) ricadono sotto l'ambito di operatività della l. n. 431/1998, in combinato disposto con le sole norme del codice civile, le locazioni relative ad immobili storici e vincolati ex lege n. 1089/1939, nonché rientranti nelle categorie catastati A/1, A/8 e A/9; c) ricadono sotto l'ambito di operatività delle norme del codice civile, in combinato disposto con le previsioni di leggi speciali diverse dalla n. 431 e dalla n. 392, le locazioni relative ad alloggi turistici destinati ad uso turnario di godimento, di natura non reale e di durata non inferiore a tre anni, nonché quelle aventi ad oggetto alloggi di edilizia residenziale pubblica; d) ricadono sotto l'ambito di operatività delle sole norme del codice civile le altre locazioni ad uso abitativo, diverse da quelle in precedenza enumerate (Sirotti Gaudenzi, 12; Chiesi, 60).

Per quanto attiene invece, alla durata delle locazioni industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili (cd. ad uso diverso), la disciplina è contenuta all'art. 27 della l. n. 329/1978.

  Influisce sulla riconduzione del contratto a ciascuna delle menzionate discipline l'accordo transattivo con cui le parti del contratto di locazione di un immobile urbano definiscanole liti giudiziarie fra loro pendenti circa la durata del rapporto e l'ammontare del canone, stabilendo, fra l'altro, una determinata scadenza per il rilascio dell'immobile ed un certo corrispettivo per il suo ulteriore godimento: chiarisce Cass. III, n. 4947/2023che il nuovo rapporto che origina dalla transazione, ancorché di natura locatizia, trova la sua inderogabile regolamentazione nei patti del negozio transattivo e, in via analogica, nella normativa generale delle locazioni urbane, ma si sottrae - data la sua genesi e l'unicità della causa che avvince il complesso rapporto - alla speciale disciplina giuridica che regola la materia delle locazioni (leggi di proroga legale, legge cosiddetta dell'equo canone e successive modificazioni) cui è assolutamente insensibile, con l'ulteriore precisazione per cui anche il precedente rapporto, che deve ritenersi convenzionalmente estinto alla data della transazione, resta regolato - per quanto riguarda il suo svolgimento e la sua cessazione - dallo stesso negozio transattivo ovvero, in mancanza di patti contrari, dalla normativa ordinaria e da quella speciale previgenti (in particolare, in applicazione di tale principio la Suprema Corte ha escluso la nullità ex art. 79 l. n. 392 del 1978, della rinuncia all'indennità di avviamento contenuta in un accordo, trasfuso nel verbale di conciliazione concluso tra le parti a definizione di un precedente contenzioso tra le stesse).

L'incidenza del fallimento del locatore o del conduttore sulla durata delle locazioni

L'art. 80 della l. fallimentare si occupa della durata della locazione coinvolta in un fallimento, dettando una diversa disciplina a seconda che questo riguardi il locatore ovvero il conduttore.

Nel primo caso (fallimento del locatore) il contratto di locazione d'immobili non si scioglie ed il curatore subentra nel contratto. Qualora, però, la durata del contratto sia complessivamente superiore a quattro anni dalla dichiarazione di fallimento, il curatore ha, entro un anno dalla dichiarazione di fallimento, la facoltà di recedere dal contratto medesimo, corrispondendo al conduttore un equo indennizzo per l'anticipato recesso, indennizzo che, nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati ed ha effetto decorsi quattro anni dalla dichiarazione di fallimento. Resta esclusa, quindi, qualsiasi possibilità di scelta da parte del curatore sull'opportunità di subentrare o non subentrare, a seconda dell'interesse dei creditori concorrenti. Egli per effetto diretto della dichiarazione di fallimento viene a trovarsi ipso iure nella posizione del locatore fallito ad ogni effetto e, come tale, deve continuare ad adempire integralmente tutte le obbligazioni del locatore, sorte dopo il fallimento, compreso l'obbligo di restituire al conduttore il deposito cauzionale, di corrispondergli l'indennità per miglioramenti e addizioni e di osservare la legislazione vincolistica quanto alla durata del rapporto ed alla misura del canone restando esposto in caso di inadempimento alla risoluzione del contratto ed al risarcimento dei danni in prededuzione. Tale automatismo nella prosecuzione del rapporto di locazione, nonostante il fallimento del locatore, non trova più ostacolo neppure nell'eventuale clausola di scioglimento inserita nel contratto: prima della riforma della legge fallimentare, infatti, in base all'inciso “salvo patto contrario” contenuto nell'art. 80, comma 1, era ammesso l'inserimento nel contratto della clausola di scioglimento della locazione per il fallimento del locatore, pattuizione che si riteneva alternativamente a) attribuisse al curatore la facoltà di recesso con preavviso ovvero b) determinasse l'automatico scioglimento del contratto al momento della dichiarazione di fallimento. Sennonché tale clausola, se anche inserita in contratto, sarebbe ora inefficace nei confronti del fallimento, stante la soppressione dell'inciso di cui si è detto nella nuova formulazione del comma 1 dell'art. 80 e trovando applicazione l'art. 72, comma 6, della medesima legge, secondo cui sono inefficaci le clausole negoziali che fanno dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento.

Nel secondo caso (fallimento del conduttore), invece, il curatore può in qualunque tempo recedere dal contratto, corrispondendo al locatore un equo indennizzo per l'anticipato recesso, anch'esso determinato dal giudice, sentiti gli interessati, in ipotesi di dissenso fra le parti. A seguito del subentro, tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto, se successivi alla dichiarazione di fallimento, vengono assunti a vantaggio ed a carico della massa, che attraverso il curatore deve, rispettivamente, farli valere e adempierli integralmente in prededuzione; il curatore, inoltre, nel caso di locazione soggetta al regime vincolistico di cui all'art. 36 della l. n. 392/1978, può esercitare tutti i diritti riconosciuti dalla legge a favore del conduttore, ma non il diritto all'indennità di avviamento commerciale, che la citata l. n. 392 esclude espressamente, e neppure, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, il diritto di prelazione e riscatto.

In sostanza, la prosecuzione del rapporto locativo dopo il fallimento del locatario comporta il subingresso del curatore nei diritti ed obblighi contrattuali (Cass. I, n. 19494/2005) ed il recesso della curatela dal contratto di locazione di azienda non determina un inadempimento quanto, piuttosto, l'esercizio di un potere giustificato dal preminente interesse della curatela alla tutela del ceto creditorio e finalizzato alla definizione in tempi rapidi della procedura concorsuale (Cass. I, n. 1637/2014).

Giacché il contratto di locazione prosegue in capo alla curatela fallimentare, quest’ultima rimane tenuta, fino a quando non sia esercitato il recesso, alla restituzione della cosa locata - con la corresponsione dell'eventuale equo indennizzo (il cui importo non è disponibile da parte dell'autonomia dei privati, dovendo essere sempre determinato discrezionalmente dal giudice del merito con valutazione che, se adeguatamente motivata, non è sindacabile dal giudice di legittimità. Cfr. anche Cass. I, n. 28961/2019) - nonché al versamento dei canoni maturati fino alla riconsegna; si ritiene, altresì, configurabile, in astratto, la responsabilità dell'organo concorsuale - deducibile con apposita domanda di ammissione al passivo da parte della locatrice - per i danni alla cosa locata cagionati dal fallito che non siano, ex art. 1590 c.c., effetto del deterioramento o del consumo derivanti dall'uso di essa in conformità al contratto, rendendosi indispensabile in tal caso valutare in concreto, da parte del giudice di merito, la legittimità, o non, del rifiuto della locatrice istante alla riconsegna del bene in suo favore (Cass. I, n. 20041/2020).

La giurisprudenza ha variamente perimetrato l'ambito di operatività della norma: così Cass. I, n. 17804/2019 ha chiarito che l'art. 80, comma 2, l. fall. (per la nuova disciplina v. art. 185 d.lgs. n. 14/2019 “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”), secondo il quale il curatore fallimentare può in qualunque momento recedere dal contratto di locazione corrispondendo al locatore un giusto compenso, è applicabile solo nel caso in cui, alla data della dichiarazione di fallimento, sia in vigore una locazione di cui il fallito sia parte, mentre non è applicabile laddove il contratto risulti in quel momento già caducato, ipotesi in cui la protrazione della detenzione del bene da parte della curatela risulta priva di titolo giuridico e quindi fonte di responsabilità extracontrattuale; proprio in relazione all'esistenza di una valida ed efficace locazione in cui il curatore è chiamato a subentrare Cass. I, n. 5792/2014 chiarisce che nel caso di fallimento del locatore, tale subentro avviene solo ove il negozio risulti opponibile alla massa dei creditori exart. 45 l. fall. (per cui le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori) e, dunque, se abbia data certa anteriore alla dichiarazione del fallimento e sia stato debitamente trascritto, se di durata ultranovennale (nel medesimo senso Cass. I, n. 3016/2008); Trib. Salerno, 29 gennaio 2010 ne trae, dunque, la conclusione per cui nel caso di locazione ultranovennale, avente data certa e regolarmente trascritta, il curatore (o l'assuntore in sede di concordato fallimentare) può ritenersi subentrato nella locazione opponibile alla procedura non solo nei limiti dei nove anni dall'inizio della medesima locazione, ex art. 2923, comma 2, c.c., ma per l'intera durata del rapporto.

L'intervenuto fallimento, del locatore come del conduttore, implica conseguenze anche da un punto di vista processuale, giacché rientrano tra le controversie che traggano origine o fondamento nel fallimento – e sono devolute alla competenza del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 l. fall. (per la nuova disciplina v. art. 32 d.lgs. n. 14/2019 “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”), – anche le azioni del curatore volte a far dichiarare l'inopponibilità alla massa del contratto di locazione immobiliare stipulato dal fallito a norma dell'art. 2923 c.c. ovvero la risoluzione del medesimo contratto ai sensi dell'art. 80 l. fall., in deroga alla previsione di cui agli artt. 21 e 447-bis c.p.c. (Cass. VI/II, 14884/2015). Ne consegue che è devoluta alla competenza funzionale del giudice delegato qualsiasi controversia relativa anche alla determinazione dell'equo indennizzo in caso di recesso del curatore, sia essa attinente soltanto al quantum della prestazione – avente un carattere sostanzialmente indennitario – sia essa relativa all'an, con preclusione, per il locatore, di far valere in sede ordinaria, neanche in via riconvenzionale, il credito avente ad oggetto il detto compenso (Cass. I, n. 6237/1991). Al contrario, allorché il fallimento concerna il conduttore ed il conduttore, subentrato nella posizione contrattuale di questi, sia inadempiente rispetto all'obbligo di pagamento dei canoni maturati successivamente alla dichiarazione di fallimento ovvero di conservazione del bene, il locatore può promuovere in sede ordinaria azione di risoluzione del contratto e di rilascio dell'immobile, dato che la relativa domanda non trova causa o titolo nella dichiarazione di fallimento e, quindi, non è soggetta alla vis actractiva del foro fallimentare di cui all'art. 24 citato, mentre non può introdurre in quella sede ordinaria anche le pretese creditorie collegate all'inadempimento, dovendo avvalersi della specifica procedura di accertamento del passivo prevista per le istanze che si indirizzino, pure per il tramite di un prioritario accertamento circoscritto all'an debeatur, ad un prelevamento sull'attivo fallimentare (Cass. I, n. 19494/2005): ed infatti, i crediti del locatore vanno soddisfatti in prededuzione, ma in ogni caso accertati in sede concorsuale secondo le modalità stabilite dagli artt. 93 ss. l. fall. per la nuova disciplina v. d.lgs. n. 14/2019 “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”), a tale procedura essendo assoggettati anche i crediti sorti dopo la dichiarazione di fallimento, da soddisfarsi con priorità rispetto a quelli “concorsuali” ex art. 111, comma 1, l. fall. per la nuova disciplina v. art. 221 d.lgs. n. 14/2019 “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”) (Cass. I, n. 17800/2004).

L'incidenza della vendita dell'immobile locato sulla durata del rapporto: a) il trasferimento “volontario”

È parzialmente idonea ad incidere sulla durata del vincolo negoziale l'avvenuta alienazione, nel corso del rapporto, dell'immobile locato; al riguardo, però, occorre distinguere tra ipotesi di vendita “volontaria” e vendita a seguito di esecuzione forzata: mentre nel primo caso, infatti, trova applicazione l'art. 1599 c.c., la seconda ipotesi è regolata dalla disciplina contenuta nell'art. 2923 c.c.

Si ha trasferimento della cosa locata allorché il locatore cessi di essere proprietario della stessa in forza di atti tra vivi quali vendita, permuta o donazione (c.d. alienazione traslativa) ovvero allorché il locatore-proprietario costituisca sul bene diritti reali di godimento quali usufrutto, abitazione o enfiteusi (c.d. alienazione costitutiva).

All'ipotesi di compravendita va dunque equiparata quella della donazione (Cass. III, n. 13833/2013. Trib. Bari, 3 luglio 2018), della permuta (Cass. III, n. 975/1978), della costituzione di usufrutto (Cass. III, n. 11828/1990, la quale chiarisce, altresì, che, in tal caso, la qualità di locatore si concentra nel titolare dell'usufrutto, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultimo sia costituito tra vivi ovvero mortis causa), nonché, più in generale, qualsiasi altra ipotesi di acquisto a titolo derivativo o derivativo-costitutivo (Cass. III, n. 2356/1985).

Il trasferimento a titolo particolare della cosa locata, in sostanza, riguarda non solo l'ipotesi in cui il locatore venda la cosa stessa a terzi, ma ogni altra fattispecie nella quale il locatore trasmetta ad altri, mediante alienazione traslativa o costitutiva, il diritto limitato sul bene su cui ha basato la sua legittimazione a disporre del bene (Trifone, 522).

Sul piano sostanziale si verifica il subentro – a latere locatoris – dell'acquirente all'alienante nel rapporto locatizio: in particolare, l'art. 1599 c.c. sancisce il principio emptio non tollit locatum (già introdotto dal code civil del 1804), alla cui stregua il contratto di locazione è opponibile dal conduttore al terzo acquirente che è, quindi, obbligato a rispettare la locazione in corso. In altri termini, a fronte della “cessione” del contratto di locazione ed in mancanza di una volontà contraria dei contraenti, si determina, ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., la surrogazione del terzo acquirente, che subentra ex lege nei diritti e nelle obbligazioni del locatore-venditore senza necessità del consenso del conduttore.

Rientrano, inoltre, nella normativa in esame – benché non espressamente richiamate – le ipotesi di acquisto mortis causa a titolo particolare, quale il legato (Trifone, 522; Guarino, 45), ma non l'ipotesi della successione a titolo universale, nella quale l'erede subentra in tutti i rapporti del dante causa e, di conseguenza, anche nella sua posizione di locatore o conduttore (Guarino, 45; Mirabelli, 599). Il principio secondo il quale la morte non estingue il rapporto di locazione, benché non espressamente enunciato da una specifica norma, si ricava, oltre che dalla circostanza per cui dalla locazione trae origine un rapporto non fondato sull'intuitus personae, dall'art. 1614 c.c. che, per i fondi urbani – ove la locazione debba ancora durare più di un anno e sia stata vietata la sublocazione – attribuisce agli eredi del conduttore defunto la facoltà di recedere dal contratto entro tre mesi dall'apertura della successione (Trifone, 513).

L'applicazione del principio innanzi esposto è subordinata, però, alla presenza dei presupposti fissati dalla norma in commento, sicché non solo (a) la locazione dev'essere anteriore rispetto all'alienazione ma b.1) la data del contratto di locazione dev'essere anche certa e, in ipotesi di locazioni ultranovennali, b.2) il contratto deve essere stato trascritto, in ipotesi di locazioni ultranovennali.

Qualora manchino la data certa o la trascrizione – ove richiesto – ma il locatario sia nella detenzione della cosa da un momento anteriore all'alienazione, l'art. 1600 c.c. – con una previsione che, pur riconoscendo una tutela ”minima” in favore del conduttore, risponde in ogni caso alla esigenza di imporre al terzo acquirente un minor sacrificio al proprio diritto di godimento – dispone che il terzo acquirente è tenuto a rispettare la locazione soltanto per una durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato e, cioè, in base alla tempistica fissata dall'art. 1574 c.c. Tale regola trova peraltro riscontro, in tema di vendita forzata ed assegnazione, nel disposto di cui all'art. 2923, comma 4, c.c., per cui, se la locazione non ha data certa, ma la detenzione del conduttore è anteriore al pignoramento della cosa locata, l'acquirente non è tenuto a rispettare la locazione che per la durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato.

A ciò aggiungasi che, ai sensi dell'art. 1599, comma 4, c.c., indipendentemente dalle prescrizioni contenute nei precedenti commi del medesimo articolo, l'acquirente è comunque tenuto a rispettare la locazione se ne ha assunto l'obbligo nei confronti dell'alienante (c.d. patto di rispetto).

Si osserva, ad opera di parte della dottrina, che la conoscenza da parte dell'acquirente, al momento dell'acquisto, dell'esistenza, del contenuto e della durata del contratto, potrebbe avere la medesima efficacia del patto di rispetto, ma la conclusione è decisamente avversata da chi ritiene che la semplice conoscenza del terzo acquirente non è idonea a produrre gli effetti che scaturiscono dalla conclusione di un patto aggiunto al contratto di alienazione (così Provera, 424).

Altra – ma connessa – questione concerne i limiti del subentro convenzionale: se, cioè, esso riguardi il contratto di locazione nella sua interezza – come stipulato, cioè, dall'alienante-locatore originario e conduttore – ovvero nei limiti degli accordi raggiunti tra alienante ed acquirente.

Anche su tale profilo si registrano, in dottrina, orientamenti contrastanti: da un lato, infatti, v'è chi (Guarino, 48) ritiene che, se la fonte produttiva dell'evento e, quindi, il subentro nel contratto, è il patto concluso tra alienante ed acquirente, non può che discenderne che quest'ultimo è tenuto a rispettare la locazione esclusivamente nei limiti del patto con il quale si è obbligato verso l'alienante; dall'altro, invece, v'è chi (Tabet, 683), ritenendo non ipotizzabile una modificazione unilaterale del rapporto obbligatorio con il conduttore, ritiene che, ove intervenga il patto, il rispetto riguardi la locazione sì come originariamente conclusa tra conduttore e locatore originario e non nei limiti del patto stesso.

Quanto alla natura giuridica di tale convenzione, alcuni (Mirabelli, 603) hanno ravvisato in essa un contratto a favore di terzi (i.e., il conduttore), altri (Tabet, 682) hanno invece ricondotto la fattispecie a quelle ipotesi in cui il contratto produce iposo iure effetti rispetto al terzo, secondo quanto previsto dall'art. 1372 c.c. (Tabet, 682). Altra questione è quella se il rispetto della locazione si verifica nella sua integralità o soltanto nei limiti in cui l'acquirente ne ha assunto l'obbligo.

Segue. b) Il trasferimento conseguente a vendita forzata

Quanto alla seconda evenienza (vendita conseguente ad esecuzione forzata), l'art. 2923 c.c. determina l'applicazione, anche alla materia esecutiva, del principio emptio non tollit locatum (dettato dagli artt. 1599 e 1600 c.c. per la vendita volontaria), a condizione, però, che si versi in presenza di locazioni concluse anteriormente al pignoramento (salvi, per i beni mobili, gli effetti del conseguimento del possesso in buona fede).

Si deve trattare, all'evidenza, di locazioni in corso al momento dell'aggiudicazione del bene e non anche quelle esaurite o sostituite da un rapporto locatizio nuovo e indipendente dal precedente (Cass. III, n. 864/1962).

Lo scopo perseguito dalla norma, infatti, è quello di tutelare l'acquirente da possibili accordi fraudolenti (Capponi, 254).

Sicché, ai fini dell'applicabilità della disciplina dettata dall'art. 2923 c.c. occorre, oltre all'anteriorità della detenzione, anche l'anteriorità – rispetto al pignoramento – degli elementi sulla cui base ricostruire la presenza di una locazione, in quanto la prima è in astratto compatibile anche con altri rapporti giuridici, quali ad esempio il comodato, che sono esclusi dalla speciale tutela accordata al detentore (Cass. III, n. 17735/2009).

In tale ottica, dunque, l'art. 2923 c.c. contempla tre diversi criteri atti a verificare l'anteriorità della locazione rispetto al pignoramento, secondo una gradazione cui corrispondono gradi diversi di opponibilità ed il cui difetto, pertanto, implica che la locazione conclusa prima del pignoramento non sia opponibile all'acquirente; essi sono: 1) la trascrizione che, secondo i principi generali dettati dagli artt. 1572 e 2643, n. 8 c.c., rende integralmente opponibili le locazioni immobiliari ultranovennali; 2) la data certa (v. l'art. 2704 c.c.), che impone all'acquirente il rispetto delle locazioni mobiliari per l'intero periodo della durata convenzionale (eventualmente anche ultranovennale) e delle locazioni immobiliari per l'intero periodo della durata convenzionale, purché non eccedente il novennio dall'inizio della locazione; 3) l'effettiva detenzione del conduttore – il cui inizio sia stato accertato come anteriore al pignoramento – che obbliga l'acquirente al rispetto della locazione nei limiti della durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato (v. l'art. 1574 c.c.).

Si inserisce nel dibattito relativo all'operatività dell'art. 2923 c.c. la questione relativa alla mancata registrazione del contratto di locazione, pur nel caso di detenzione anteriore al pignoramento, adempimento che – come noto – è prescritto a pena di nullità del contratto medesimo dagli artt. 1, comma 346 della l. n. n. 311/2004 e 13, comma 1 della l. n. 431/1998, come novellato dall'art.1, comma 59 della l. n. 208/2015. Sembra potersi sostenere affermare, in proposito che, se il contratto di locazione non è stato registrato nel termine di legge di 30 giorni dalla stipula (ovvero tardivamente, nel caso in cui si ritenesse ammissibile, in materia, il ravvedimento operoso) lo stesso, siccome nullo, non può essere opposto a un terzo (e, dunque, men che meno all'aggiudicatario).

Anche la migliore dottrina (Fanticini, 674) opta per tale soluzione, osservando in proposito che la data certa “dovrà essere necessariamente conferita tramite la registrazione del contratto”.

L'art. 2923 c.c. stabilisce, ai commi 3-5, i casi in cui, in deroga ai criteri esposti in precedenza (trascrizione, data certa e detenzione anteriori al pignoramento), l'acquirente in vendita forzata non è tenuto a rispettare la locazione stipulata anteriormente al pignoramento: 1) se consegue in buona fede il possesso della cosa mobile non iscritta in pubblici registri espropriata; 2) se nel contratto di locazione vi è la clausola che esso possa risolversi in caso di alienazione: in tal caso l'acquirente può intimare licenza al conduttore, secondo le disposizioni dell'art. 1603 c.c. La previsione non si applica, tuttavia, agli immobili urbani, secondo quanto prescritto dall'art. 7 della l. n. 392/1978; 3) se il prezzo della locazione è inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello convenuto in precedenti locazioni (ipotesi che fonda la propria ratio nell'evitare la collusione tra il debitore esecutato e il terzo conduttore e che riprende la formulazione dell'art. l'art. 687, comma 2, del codice di procedura civile del 1865, il quale prevedeva che “la locazione non è mantenuta se sia stata fatta in frode. La frode si presume se il fitto sia inferiore di un terzo a quello risultante da perizia o da locazioni precedenti”).

Con specifico riferimento alla terza eccezione cui si è fatto riferimento (il c.d. canone vile) e limitatamente agli immobili urbani adibiti ad uso abitativo si aveva riguardo, quale tertium comparationis e nella vigenza della l. n. 329/1978, al canone equo dalla stessa fissato, con l'eccezione dei contratti di locazione stipulati successivamente all'entrata in vigore del d.l. n. 333/1992 (c.d. patti in deroga).

Conforme la posizione della giurisprudenza di legittimità, per cui il comma 3 dell'art. 2923 c.c. non è stato abrogato neppure tacitamente dalla l. n. 392/1978 introduttiva dello equo canone, in base alla considerazione che l'aggiudicatario non subirebbe più alcun pregiudizio potendo comunque pretendere l'equo canone, in quanto detta legge non trova applicazione con riguardo alle locazioni degli immobili espropriati, ancorché la misura del canone “equo” possa costituire un parametro idoneo per valutare il “giusto” prezzo locativo dell'immobile (Cass. III, n. 1615/1989).

A seguito dell'abrogazione delle disposizioni della l. n. 392/1978, tuttavia, la questione è ovviamente divenuta oggetto di dibattito sotto diversi aspetti.

Anzitutto in dottrina (Tedoldi, 484) si è ritenuto che, per stabilire il giusto prezzo, deve aversi riguardo, in caso di contratto a canone libero ex art. 2, comma 1 della l. n. 431/1998, al prezzo di mercato e, in ipotesi di contratto a canone vincolato di cui ai successivi commi 3 e 5 del medesimo art. 2, al canone concordato secondo la procedura regolata dall'art. 4.

Quindi, la giurisprudenza ha affermato che al fine di liberarsi dall'obbligo di rispettare la locazione stipulata anteriormente al pignoramento, dimostrando che il canone locativo è inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello risultante da precedenti locazioni, l'acquirente della cosa pignorata può avvalersi di presunzioni, ed il giudice può ritenere notorio il giusto canone, sollevando in tale evenienza l'acquirente da qualsiasi onere probatorio al riguardo: il ricorso o meno al notorio costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. III, n. 16243/2005).

Inoltre, in relazione al concorso di due criteri, del “giusto prezzo” e del “prezzo ricavabile da precedenti locazioni”, per valutare l'equità del canone pattuito, una risalente pronuncia di legittimità (Cass. III, n. 1615/1989) afferma che la norma codifica una regola di giudizio che lascia al giudice ampia discrezionalità di scelta tra i due criteri, anche in funzione della ratio legis che è, “in definitiva, quella di richiedere che la locazione opponibile al terzo aggiudicatario non si presenti sospetta e, comunque, non eccessivamente dannosa per il terzo, a causa di un notevole squilibrio tra il valore effettivo del godimento della cosa ed il corrispettivo convenuto con il conduttore”.

Segue. L'art. 2623, comma 1, c.c. e la rinnovazione (o proroga) tacita del rapporto nelle locazioni ad uso abitativo

Avuto peculiare riguardo alle locazioni di immobili adibiti a uso abitativo, l'entrata in vigore della l. n. 431/1998 ha implicato l'insorgenza di un problema interpretativo relativamente alla applicabilità dell'art. 2923, comma 1, c.c. rispetto alla rinnovazione tacita del rapporto negoziale: questione originata dalla considerazione per cui, mentre nel passato si riteneva che, in presenza di data certa del contratto di locazione, lo stesso fosse opponibile all'acquirente in vendita forzata soltanto per la durata del contratto, con esclusione, dunque, della rinnovazione tacita, atteso il carattere negoziale di quest'ultima, l'entrata in vigore della l. n. 431/1998 sembra avere mutato i termini della questione giacché, salvi casi particolari, i contratti a canone libero della durata non inferiore a 4 anni sono “rinnovati per un periodo di 4 anni” (v. l'art. 2, comma 1), mentre i contratti a canone vincolato, di durata non inferiore a 3 anni sono “prorogati di diritto di 2 anni” (v. l'art. 2, commi 3 e 5).

La dottrina è, dunque, divisa tra chi (Tedoldi, 484) ritiene che, in conseguenza della nuova formulazione legislativa, anche i periodi di proroga sarebbero opponibili all'acquirente in vendita forzata e chi, al contrario, ritiene che necessaria l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, avendo questi il potere – dovere di avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo previsti dall'art. 3, lett. g), a favore del locatore che intende vendere l'immobile a terzi (Vaccarella, 488).

La questione appare risolvibile alla luce del principio affermato da Cass. S.U., n. 11830/2013, sia pure pronunziatasi partendo dall'esame della disciplina applicabile alle locazioni ad uso diverso. In relazione a queste ultime (disciplinate, come noto, dagli artt. 27 ss. della l. n. 392/1978), infatti, la giurisprudenza di legittimità si era espressa, nel passato, in senso favorevole alla necessità dell'autorizzazione, con orientamento costante da Cass. III, n. 2576/1970 a Cass. III, n. 1639/1999, fondato sull'assunto che si versi in presenza di un nuovo negozio giuridico bilaterale (cfr. anche Cass. III, n. 8800/1998; Cass. III, n. 1639/1999; Cass. III, n. 15297/2002; Cass. III, n. 26238/2007); sennonché, mutando indirizzo, Cass. III, n. 10498/2009 aveva affermato l'opposto principio secondo cui, in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico scaturente direttamente dalla legge e non da una manifestazione di volontà negoziale, con la conseguenza che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, la rinnovazione non necessiterebbe dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dall'art. 560, comma 2, c.p.c. A seguito della rimessione della questione alle Sezioni Unite, queste ultime hanno affermato il seguente principio: in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego di rinnovazione, ai sensi degli artt. 28 e 29 della l. 27 luglio 1978, n. 392, costituisce un effetto automatico derivante direttamente dalla legge e non da una manifestazione di volontà negoziale; ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal comma 2 dell'art. 560 c.p.c. Per giungere all'affermazione di tale principio, la Corte ha osservato come la legge sull'equo canone costituisca un microsistema autonomo rispetto al sistema generale sulle locazioni disciplinato dal codice civile e consente, dunque, l'integrazione delle disposizioni normative di quest'ultimo soltanto quando la materia non sia specificamente disciplinata; in tale ottica, la stessa legge, all'art. 28, prevede che per le locazioni di immobili adibiti alle attività indicate nei commi 1 e 2 dell'art. 27 il contratto si rinnova tacitamente di nove anni in nove anni, salvo che sopravvenga disdetta; alla prima scadenza contrattuale il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi di cui all'art. 29. Un tale assetto normativo, dunque, conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c.: il che comporta che la rinnovazione – nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di cui dell'art. 29, comma 2, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al conduttore – si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta. Ne consegue, ulteriormente, che il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dalla l. n. 392/1978, artt. 28 e 29 – così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a norma della l. 9 dicembre 1998, n. 431, artt. 2 e 3 –, non presuppone, in alcun modo, un successivo contratto: esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo sopravvenuto della mancanza della disdetta; il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta, pertanto, alcuno specifico elemento di novità, restando operanti le clausole del contratto originario, relativamente alla misura del canone ed alla durata della locazione, integrate nel minimo, in ogni caso, dall'art. 28 della l. n. 392/1978 e dall'art. 2 della l. n. 431/1998. Tale conclusione esclude l'applicabilità dell'art.560 c.p.c. perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato fa esplicitamente riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre. A quanto precede aggiungansi, inoltre, un ulteriore profilo che giustifica l'inapplicabilità dell'art. 560 c.p.c., comma 2, c.c. nel caso di rinnovazione tacita alla prima scadenza: ed infatti, il custode, a fronte del rinnovo ex art. 28 della l. n. 392/1978, si trova, per l'assoluta tipicità dei motivi legittimanti il diniego, nella posizione di subire il rinnovo automatico, indipendentemente da qualunque autorizzazioneexart. 560 c.p.c.

Diversamente è da dirsi, invece, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali, invece, l'esercizio della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione e, dunque, costituisce – in quel caso si – manifestazione di autonomia negoziale: la necessità dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione è, in simile ipotesi, funzionale all'esercizio della custodia, da parte del soggetto investito di un tale potere processuale che, diversamente, non può locare il bene. Ben si coglie, allora, nel caso di scadenze successive alla seconda, la natura dei poteri del giudice che, nell'ambito della procedura che dirige, opera scelte discrezionali in ordine alle modalità di custodia del bene: in questo ambito, rientra anche l'opportunità di dare in locazione il bene. In altri termini, l'autorizzazione del giudice è necessitata quando si tratti di adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno della procedura esecutiva.

  Soccorre, nuovamente, la giurisprudenza formatasi a proposito delle locazioni ad uso diverso da quello abitativo, essendosi chiarito (Cass. III, n. 19522/2019) che la rinnovazione tacita del contratto alle scadenze contrattuali successive alla prima (nella specie la terza), a seguito del mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di disdetta (non motivata) del rapporto ai sensi dell'art. 28, comma 1, della legge n. 392 del 1978, costituisce una libera manifestazione di volontà negoziale e, pertanto, in caso di pignoramento dell'immobile locato eseguito in data antecedente alla scadenza del termine per l'esercizio della menzionata facoltà da parte del locatore, la rinnovazione della locazione necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione prevista dall'art. 560, comma 2, c.p.c..

La proroga

Influisce, infine, sia pure indirettamente sulla durata complessiva del rapporto negoziale (per ciò che concerne, in particolar modo, le locazioni ad uso abitativo), l'istituto della proroga, previsto dalla legislazione speciale e volto a determinare una sospensione (recte, un differimento) dell'esecuzione degli sfratti.

In particolare, per effetto dei continui provvedimenti di sospensione e blocco dell'esecuzione degli sfratti di immobili adibiti ad uso abitativo si era venuto a creare, negli anni antecedenti al 1989, un enorme accumulo di provvedimenti da porre in esecuzione. Preso atto di tale situazione, fu emanato il d.l. n. 551/1988, convertito con modifiche nella l. n. 61/1989, che, pur disponendo un'ulteriore sospensione degli sfratti sino al 30 aprile 1989 (termine fissato sino al 31 dicembre 1989 per i Comuni terremotati della Campania e Basilicata), permise, allo scadere, la ripresa dell'esecuzione degli stessi, attribuendo al Prefetto di ogni provincia il compito di autorizzare l'assistenza della forza pubblica all'ufficiale giudiziario, previo parere delle Commissioni prefettizie appositamente istituite. La predetta legge fissava, inoltre, criteri di priorità nell'assegnazione della forza pubblica.

Intervenuta sul punto Cass. S.U., n. 5223/1998 ha chiarito che la prestazione della forza pubblica si configurava come un vero e proprio atto dovuto da parte dell'amministrazione di polizia, che si inseriva nel procedimento giurisdizionale di sfratto.

La l. n. 431/1998 ha completamente riscritto l'istituto della proroga, regolando, all'art. 6, tempi e modalità di esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili ad uso abitativo pronunciati a seguito di finita locazione, con esclusione, dunque, dei provvedimenti di rilascio conseguenti a sfratto per morosità, altro inadempimento di parte conduttrice, ovvero a verbale di conciliazione giudiziale (casi nei quali lo sfratto, scaduto il termine ex art. 56 della l. n. 392/1978, va eseguito osservando le sole norme del codice di rito).

La giurisprudenza di legittimità ha, però, chiarito che la possibilità di ottenere dal giudice la fissazione di una nuova data dell'esecuzione, riconosciuta al conduttore dall'art. 6, comma 4, l. n. 431/1998, si riferisce ai soli provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della detta legge, e cioè entro il 27 giugno 1999 (Cass. III, n. 11961/2010).

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