Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 27 - Durata della locazione.

Mauro Di Marzio

Durata della locazione.

La durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili (1).

La disposizione di cui al comma precedente si applica anche ai contratti relativi ad immobili adibiti all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo.

La durata della locazione non può essere inferiore a nove anni se l’immobile urbano, anche se ammobiliato, è adibito ad attività alberghiere, all’esercizio di imprese assimilate ai sensi dell’articolo 1786 del codice civile o all’esercizio di attività teatrali (2) .

Se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti.

Il contratto di locazione può essere stipulato per un periodo più breve qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile abbia, per sua natura, carattere transitorio.

Se la locazione ha carattere stagionale, il locatore è obbligato a locare l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto. L'obbligo del locatore ha la durata massima di sei anni consecutivi o di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera.

È in facoltà delle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione.

Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata (3) .

(1) Comma sostituito dall'articolo 52 del D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79.

(2) Comma modificato dall'articolo 7, comma 1, lettera a), della legge 8 febbraio 2007, n. 9 e successivamente sostituito dall'articolo 52 del D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79.

(3) Vedi, anche, l'articolo 4 del D.L. 12 ottobre 2000, n. 279 convertito in legge 11 dicembre 2000, n. 365.

Inquadramento

Il capo II della l. n. 392/1978, comunemente conosciuta come legge dell'equo canone, è intitolato alla «Locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione», ma, in effetti, come subito si dirà, non disciplina la locazione della generalità degli immobili aventi destinazione, come che sia, non abitativa, bensì la locazione di immobili aventi particolari destinazioni d'uso, connesse all'esercizio di attività commerciali o professionali, ovvero di particolare interesse sociale: locazione che, come tale, il legislatore ritiene di assoggettare ad una particolare disciplina connotata sotto una pluralità di aspetti da una finalità di tutela di uno dei contraenti, ossia del conduttore.

L'art. 27 della citata legge, in particolare, si apre con una rubrica, «Durata della locazione», la quale dice in effetti assai meno dell'effettivo contenuto della disposizione, che individua le attività alle quali l'immobile deve essere destinato perché scatti l'applicazione della norma in commento.

Quadro sintetico delle tipologie locatizie non abitative

La destinazione d'uso dell'immobile è, in àmbito locatizio, l'elemento in dipendenza del quale il legislatore disegna la disciplina giuridica di volta in volta applicabile. Dall'originaria sostanziale unità tipologica presupposta dal codice civile, in linea di principio applicabile indistintamente a mobili ed immobili, quali che fossero, si giunge a distinguere non soltanto tra locazioni abitative e non abitative, destinatarie di specifici trattamenti, ma, all'interno di ciascun comparto, di sottotipi assoggettati a regole ed a livelli di tutela differenziati. In particolare, gli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 dettano eterogenee discipline volte a tutelare il conduttore di un immobile locato ad uso non abitativo sotto molteplici aspetti, che si combinano variamente proprio in dipendenza dello specifico uso cui l'immobile è destinato.

In sintesi, i caratteri peculiari possono così riassumersi:

durata minima (art. 27 l. n. 392/1978): la durata del rapporto non può essere inferiore a sei anni, ovvero a nove anni per le locazioni di immobili adibiti ad albergo, di modo che, in caso di durata inferiore a quella minima stabilita dalla legge, opera un congegno di sostituzione automatica della clausola nulla con la previsione legale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 79 l. n. 392/1978, 1419 e 1339 c.c.;

diniego di rinnovazione alla prima scadenza (artt. 28 e 29 l. n. 392/1978): alla prima scadenza contrattuale il locatore, a differenza del conduttore, non può intimare pura e semplice disdetta, ma può esclusivamente far valere il diniego di rinnovazione, ossia può determinare la cessazione del rapporto esclusivamente in concorso delle specifiche ragioni previste dalla legge;

termine per la disdetta (art. 28 l. n. 392/1978): quando il rapporto può cessare, ad opera del locatore, per effetto di semplice disdetta, questa deve essere intimata con un anticipo di dodici mesi rispetto alla scadenza contrattuale, ovvero di diciotto mesi in caso di locazione alberghiera;

indennità per la perdita dell'avviamento commerciale (art. 34 l. n. 392/1978): alla cessazione del rapporto per iniziativa del locatore, questi deve corrispondere al conduttore un'indennità, detta indennità per la perdita dell'avviamento commerciale;

prelazione (art. 38-40 l. n. 392/1978): il conduttore ha diritto di prelazione tanto nell'ipotesi di trasferimento a titolo oneroso della proprietà della cosa locata, in tal caso assistito dal diritto di riscatto, quanto nell'ipotesi di nuova locazione;

sublocazione e cessione (art. 36 l. n. 392/1978): il conduttore ha la facoltà di sublocare l'immobile e di cedere il contratto di locazione, anche senza il consenso del locatore, in caso di contestuale cessione dell'azienda;

successione nel contratto (art. 37, commi 1 e 2, l. n. 392/1978): succede nel contratto colui che continua l'attività precedentemente svolta dal conduttore nell'immobile;

aggiornamento del canone (art. 32 l. n. 392/1978): l'aggiornamento del canone non può, salvo eccezioni, eccedere il 75% della svalutazione monetaria dell'anno precedente.

Il livello di tutela offerto al conduttore è maggiore o minore, come accennato, secondo l'attività cui l'immobile locato è destinato. E cioè è possibile distinguere diverse tipologie di rapporti assoggettati ad una precisa gerarchia protettiva in funzione dell'attività esercitata: attività – come è stato detto – a tutela piena; a tutela semipiena; a tutela limitata (per questa suddivisione, Lazzaro, Preden, 2).

Attività a tutela piena, interamente protette attraverso gli istituti elencati, sono quelle «industriali, commerciali e artigianali» (art. 27, comma 1, n. 1, l. n. 392/1978), quella «di interesse turistico comprese tra quelle di cui all'art. 2 della l. n. 326/1968» (art. 27, comma 1, n. 2, l. n. 392/1978) e quelle alberghiere (art. 27, comma 4, l. n. 392/1978).

Attività a tutela semipiena, tutte elencate dall'art. 35 l. n. 392/1978, accomunate dall'inapplicabilità degli istituti dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, della prelazione e del riscatto, sono:

– quelle «che non comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori»;

– quelle «professionali»: si caratterizzano per l'inapplicabilità, oltre che dei menzionati istituti, della disciplina della sublocazione e della cessione, ex art. 36 l. n. 392/1978; sono altresì assoggettate a peculiari disposizioni in tema di successione (art. 37, commi 3 e 4 l. n. 392/1978);

– quelle «di carattere transitorio»: si caratterizzano per l'inapplicabilità, oltre che dei menzionati istituti, della disciplina in tema di durata (art. 27, comma 5, l. n. 392/1978), rinnovazione in mancanza di disdetta, diniego di rinnovazione;

– quelle esercitate in «immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi e villaggi turistici»;

Attività a tutela limitata, menzionate dall'art. 42 l. n. 392/1978, sono quelle «ricreative, assistenziali, culturali e scolastiche», nonché quelle esercitate in immobili destinati «a sede di partiti o di sindacati», ed ancora quelle esercitate in immobili condotti in locazione «dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali»: esse godono della durata minima prevista dalla legge, del congegno del rinnovo in mancanza di disdetta, del diniego di rinnovazione alla prima scadenza e del limite all'aggiornamento del canone.

Al di fuori della classificazione che precede occorre infine rammentare le locazioni stagionali, cui fa riferimento l'artt. 27, comma 6, l. n. 392/1978. In tal caso, non viene in questione la specifica attività cui l'immobile è destinato, ma la durata, circoscritta entro l'àmbito – appunto – stagionale, con obbligo, però, per il locatore, di locare l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto (art. 27, comma 6, l. n. 392/1978).

Attività industriali e commerciali

L'art. 27, comma 1, l. n. 392/1978 stabilisce che la durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti anzitutto all'attività industriali, commerciali e artigianali. Lasciando per ora da parte le attività artigianali, occorre in primo luogo soffermarsi sulla locazione di immobili adibiti ad attività industriali e commerciali. La formula non sembra particolarmente felice, poiché non rispecchia la terminologia comunemente in uso, la quale avrebbe forse suggerito l'adozione di una espressione del tipo «locazione di immobili urbani destinati all'esercizio di un'impresa commerciale». Difatti, l'omessa indicazione delle altre attività indicate dall'art. 2195 c.c., il quale definisce in via generale le attività di impresa, ha posto il problema – che non avrebbe potuto altrimenti sorgere se esse siano considerate o meno dall'art. 27 l. n. 392/1978.

Unitamente alla compatta giurisprudenza, al quesito va data risposta positiva. Ed invero, secondo l'art. 2195 c.c. sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria; 4) un'attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti. Prosegue la norma stabilendo che le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in tale disposizione e alle imprese che le esercitano.

Devono essere tra le altre considerate, allora, le attività di trasporto per terra, per acqua o per aria, quelle bancarie e quelle assicurative, oltre a quelle ausiliarie delle precedenti, le quali, espressamente contemplate dall'art. 2195 c.c., non sono invece menzionate dall'art. 27 l. n. 392/1978.

Ebbene, soffermando ad esempio l'attenzione sull'ipotesi dell'attività assicurativa, la Suprema Corte ha ritenuto indubbio che l'attività svolta dalla società assicuratrice sia tra quelle aventi carattere commerciale. Il comma 2, dell'art. 2195 c.c., infatti, stabilisce che le disposizioni di legge che fanno riferimento all'attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate nel medesimo articolo (industrie, trasporti, credito, assicurazioni). È a dire, cioè, che l'indicata norma trova applicazione nell'ipotesi in cui le predette attività non siano specificamente disciplinate da disposizioni ad hoc e che rappresentino estrinsecazione tipica e non similare dell'attività industriale di trasporto, bancaria o assicurativa. E sotto tale profilo non è dubbio che l'attività svolta dalla società assicuratrice trova piena rispondenza in quell'attività di cui al numero 4 del citato art. 2195, e che tale attività, per non essere espressamente citata nella l. n. 392/1978, rinviene nel predetto art. 2195, comma 2, c.c. il riferimento normativo che le assicura la natura di attività commerciale (Cass. III, n. 6339/1985). Non v'è dubbio, dunque, che, ai fini della verifica della ricomprensione dell'attività nell'ambito di applicazione dell'art. 27 l. n. 392/1978, e della disciplina ad esso di volta in volta collegata, non possa prescindersi dalla previsione dell'art. 2195 c.c.

Nel caso di locazione di un terreno attrezzato a campo di calcio, con le necessarie infrastrutture è stato parimenti notato che la qualificazione delle prime due attività comprese nell'art. 27, comma 1, l n. 392/1978, non va tratta dall'art. 2082 c.c., bensì dall'art. 2195, anche se le due norme sono tra di loro coordinate. La prima, infatti, individua, in generale, l'imprenditore commerciale, mentre è la seconda che distingue espressamente la natura delle varie attività. Il bene così descritto, oggetto della locazione, rientra dunque in una delle ipotesi contemplate dal n. 1 dell'articolo in esame, inserendosi in una organizzazione volta alla fornitura di un bene attrezzato al fine di svolgersi una attività sportiva, non importa se agonistica o meno, dietro corrispettivo (Cass. III, n. 4113/1993).

Procedendo ad un sommario esame della casistica, prevalentemente formatasi con riferimento alla sussistenza del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento, può rammentarsi – solo per cenni e senza alcuna pretesa di completezza – che è stata ritenuta avere natura commerciale l'attività di un istituto per le vendite giudiziarie (Cass. III, n. 8908/1995); l'attività di mediatore professionale, qualificabile come attività ausiliaria (Cass. III, n. 1637/1984); l'attività di una impresa assicuratrice (oltre alla pronuncia già trascritta, v. Cass. III, n. 6876/2003; Cass. III, n. 8496/1990) e quella del broker di assicurazioni, il quale svolge attività di mediazione in forma di impresa commerciale (Cass. III, n. 6874/2003); quella di gestione, a struttura imprenditoriale, di una palestra sportiva esercitata a fini di lucro (Cass. III, n. 4690/2003); l'attività scolastica esercitata a fini di lucro e con gestione a struttura imprenditoriale (Cass. III, n. 6019/1995; Cass. III, n. 10453/1994; Cass. III, n. 4487/1994; Cass. III, n. 6420/1987, in tema di asilo nido o scuola materna; Cass. III, n. 5186/1988); l'attività di un istituto di credito (Cass. III, n. 3895/1993); l'attività di gestione di una cabina elettrica (Cass. III, n. 6387/1986).

Ai fini dell'applicazione dell'art. 27 in commento non rileva la circostanza che le attività in questione sia svolta senza contatti diretti col pubblico degli utenti dei consumatori: siffatta caratteristica, infatti, incide esclusivamente sul diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, ma la sua mancanza non esclude l'applicazione della residua disciplina dettata dalla legge. Né rilevano, infine, le modalità di esercizio dell'attività (ad esempio, vendita al minuto o all'ingrosso) ovvero la struttura, individuale o societaria del soggetto che la svolge.

Attività artigianali

Ancora nell'ambito delle attività a tutela piena contemplate dall'art. 27 l. n. 392/1978 vengono in questione le attività artigianali. Sulla materia occorre ricordare, in generale, che: «È imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo» (art. 2, comma 1, l. n. 443/1985). Ed inoltre occorre richiamare la definizione di impresa artigiana adottata dal medesimo testo di legge (art. 3, l. n. 443/1985). Quanto ai limiti dimensionali, la stessa legge prosegue stabilendo che l'impresa artigiana può essere svolta anche con la prestazione d'opera di personale dipendente diretto personalmente dall'imprenditore artigiano o dai soci, sempre che non superi determinati limiti (art. 4, comma 1, l. 8 agosto 1985, n. 443).

Ai fini dell'applicazione della disciplina dettata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 – ed in particolare del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale – è stata riconosciuta natura artigianale all'attività di estetista, la quale, come disciplinata dalla l. n. 1/1990, non ha carattere professionale, ma ha natura, appunto, di attività imprenditoriale artigiana, senza che in contrario assuma rilievo il riferimento alla professione contenuto nella citata legge, il quale ha riguardo alla necessaria preparazione teorico pratica di chi eserciti tale attività e denota il carattere non occasionale ma stabile e duraturo della stessa.

A tal riguardo, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito la quale aveva ritenuto «che la P., nell'espletamento del mestiere di estetista, non svolgeva un'attività assimilabile ad una professione intellettuale, i cui tratti caratteristici sono la natura professionale ed il carattere intellettuale e tecnico della prestazione [...], bensì esclusivamente manuale. Lo stesso giudice ha pure accertato che la P. vendeva cosmetici nei locali condotti in locazione e da tale circostanza ha ulteriormente dedotto che la sua attività doveva essere qualificata come imprenditoriale artigiana e non professionale intellettuale, essendo l'attività di estetista essenzialmente manuale svolta con il lavoro personale della stessa. L'interpretazione data dal giudice di secondo grado alla l. n. 1/1990 non è affatto errata, come sostiene la ricorrente società, ma conforme alla finalità di essa, leggendosi testualmente all'art. 1 che “l'attività di estetista comprende tutte le prestazioni ed i trattamenti eseguiti sulla superficie del corpo umano il cui scopo esclusivo o prevalente sia quello di mantenerlo in perfette condizioni, di migliorarne e proteggerne l'aspetto estetico modificandolo attraverso l'eliminazione o l'attenuazione degli inestetismi presenti”. Con il comma 2, si dispone che tale attività può essere svolta con l'attuazione di tecniche manuali, con l'utilizzazione degli apparecchi elettromagnetici per uso estetico di cui all'elenco allegato alla legge medesima e con l'applicazione dei prodotti cosmetici definiti tali dalla l. n. 713/1986; infine, con il comma 3, “sono escluse dall'attività di estetista le prestazioni dirette in linea specifica ed esclusiva a finalità di carattere terapeutico”. Inoltre, l'estetista che intenda esercitare l'attività in modo autonomo è tenuto ad iscriversi nell'albo provinciale delle imprese artigiane secondo le modalità e con gli effetti previsti dalla l. n. 443/1985. Tutto ciò comporta che l'attività in questione abbia natura di mestiere e che all'estetista deve essere riconosciuta la qualifica di imprenditore artigiano. Né il termine «professione» menzionato nella l. n. 1/1990 può essere inteso come esercizio di attività professionale previsto dall'art. 35 della legge sull'equo canone al fine di escludere il diritto al conseguimento dell'indennità di cui al precedente art. 34, giacché l'anzidetto termine è usato nell'accezione di qualificazione professionale di estetista nel senso che essa dal punto di vista soggettivo si intende conseguita dopo il superamento di un apposito esame teorico-pratico, giusta dispone l'art. 3 l. n. 1/1990 nei modi previsti dall'art. 8, e dal punto di vista oggettivo deve essere svolta in modo stabile e duraturo e non occasionale (Cass. III, n. 2421/1997).

È stata considerata attività artigiana anche quella del sarto. A quest'ultimo, perciò, spetta l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale (Cass. III, n. 8340/1995; Cass. III, n. 8585/1993). È stato altresì detto che non può qualificarsi quale attività artigianale, per i fini dell'applicazione degli artt. 27 ss. l. n. 392/1978, l'esercizio, in un immobile locato ad uso abitativo, di quelle attività che usualmente vengono svolte a domicilio (Cass. III, n. 7128/1983): su tale considerazione, in passato, sempre con riguardo al caso del sarto, è stato escluso che costituisca inadempimento, per modificazione della destinazione d'uso, l'esercizio, all'interno dell'abitazione, di «una modesta attività artigianale» (Cass. III, n. 345/1979, sulla scorta di Cass. III, n. 3173/1963; Cass. III, n. 1182/1963).

Va considerata attività artigianale tutelata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978, ma non gode del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, quella di odontotecnico: e ciò perché l'attività dell'odontotecnico è un'attività artigiana, ausiliaria della professione sanitaria, che trova disciplina dell'art. 11, r.d. n. 1334/1928, per il quale gli odontotecnici sono autorizzati unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle impronte loro fornite dai medici chirurghi con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire, sicché non possono intrattenere rapporti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori (Pret. Roma 2 marzo 1988).

Occorre, perché l'attività artigianale goda della tutela piena prevista dalla legge, che essa non sia oggetto di esercizio illecito. Si è in tal senso affermato – sulla linea tracciata da Cass. III, n. 5265/1993, e ribadita da Cass. III, n. 2041/1998; Cass. III, n. 12966/2000; Cass. III, n. 1235/2003 – che il conduttore che eserciti la propria attività artigianale in difetto delle dovute e necessarie autorizzazioni amministrative, e ciò in ossequio al principio generale secondo cui non può essere riconosciuta alcuna tutela giuridica a chi versi in situazione illecita: in un caso esaminato dal pretore partenopeo, il conduttore, in quanto imprenditore artigiano, avrebbe potuto svolgere la propria attività in assenza dell'autorizzazione amministrativa di cui alla l. n. 426/1971, ovvero della iscrizione al R.E.C., solo in presenza dell'iscrizione nel registro degli imprenditori artigiani (Pret. Napoli 27 dicembre 1997).

Attività agricole

Occorre ora soffermarsi sulla mancata previsione delle attività agricole nell'elencazione contenuta nell'art. 27 l. n. 392/1978. Si deve verificare, cioè, se ed in che misura la legge dell'equo canone, ed in particolare il citato art. 27, nel disciplinare una pluralità di tipologie locatizie in funzione della destinazione d'uso della cosa locata, abbia anche ad oggetto gli immobili destinati all'esercizio di attività agricole.

Sulla questione ha preso posizione il giudice delle leggi. Con riguardo all'eccezione di incostituzionalità sollevata da alcuni giudici di merito, i quali avevano ritenuto che l'art. 27 l. n. 392/1978 non includesse le attività agricole e, perciò, fosse incostituzionale, essenzialmente per violazione dell'art. 3 Cost., la Corte costituzionale ha invece ritenuto che, per diritto vivente, le attività agricole per connessione – quelle di cui all'art. 2135, comma 2, c.c., secondo cui: «Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura» – si devono ritenere comprese nell'ambito dell'art. 27 l. n. 392/1978 e, conseguentemente, in quello dei successivi artt. 29, 67 e 73 (Corte Cost., n. 40/1984).

Quanto alle attività agricole primarie – quelle di cui all'art. 2135, comma 1 c.c., secondo cui: «È imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame» – la Corte Costituzionale, in sintesi, ha rilevato che, ai sensi dell'art. 2135 c.c., l'agricoltura è considerata come attività di impresa e non di mero godimento, sul presupposto della preponderante funzione produttiva, destinata a soddisfare le esigenze di mercato: perciò, ponendo l'accento sulla natura imprenditoriale dell'attività, ha ritenuto che l'imprenditore agricolo non possa ritenersi escluso dalla protezione attribuita dalla legge agli altri imprenditori – pur nella diversità dei rispettivi statuti – in tema di locazione di immobili (Corte cost., n. 40/1984). Inquadrati i temi posti dalle ordinanze di rimessione, la Corte Costituzionale, dopo aver rammentato la distinzione tra attività agricole primarie ed attività agricole per connessione, ha avanzato, in primo luogo, un'osservazione tanto intuitiva quanto essenziale, ossia che il problema denunciato in tanto può porsi, in quanto si versi in ipotesi di attività agricola esercitata in un immobile urbano. Ove si tratti di immobile rustico, invece, si è evidentemente al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 27 l. n. 392/1978 e delle altre norme ad esso collegate: «Un'osservazione preliminare, comune alle proposte questioni, attiene alla natura del bene locato: questo deve appartenere alla categoria degli immobili urbani, a cui esclusivamente si riferisce la citata l n. 392/1978, intitolata appunto «Disciplina delle locazioni di immobili urbani». Intuitivamente deve trattarsi di un bene utilizzato dal locatario (o da utilizzare dal locatore nei casi previsti dagli artt. 29 e 73) nell'esercizio dell'agricoltura perché altrimenti il problema neppure si porrebbe, ma occorre pur sempre che si tratti di un immobile urbano, e tale requisito, pur con qualche inesattezza terminologica, è stato ritenuto sussistente dai giudici a quibus, nel cui compito esclusivo rientra l'accertamento degli elementi inerenti al rapporto giuridico dedotto in giudizio (Corte cost., n. 40/1984).

Ciò detto, la Corte costituzionale ha posto l'accento sull'osservazione che la soluzione interpretativa accolta dai giudici remittenti – ossia che l'art. 27 non contemplasse le attività agricole – si poneva in contrasto, per quanto concerne le attività agricole connesse, con il diritto vivente: «Invero, la mancanza di una esplicita previsione nel ricordato art. 27 non ha impedito alla dottrina, che si è occupata della materia, e alla giurisprudenza, che ha preso in esame il problema, di ritenere che le attività agricole connesse siano comprese nella previsione delle norme impugnate. In particolare, va osservato che la Corte di cassazione è pervenuta a detto risultato sul rilievo che la disposizione dell'art. 2135, comma 2, c.c. trova il suo fondamento nell'intento legislativo di estendere per esigenze unitarie la disciplina dell'impresa agricola ad attività le quali, pur avendo un intrinseco carattere industriale o commerciale, sono intimamente collegate con l'agricoltura; ciò – osserva la Cassazione – non esclude che tali attività vadano considerate nella loro effettiva essenza, sicché, tra l'altro, alle stesse deve essere applicato il nuovo regime delle locazioni previsto dal citato art. 27» (Corte cost., n. 40/1984).

La Corte costituzionale è, quindi, passata ad esaminare il problema delle attività non già connesse, ma agricole primarie, anche queste ritenute comprese nel dettato dell'art. 27: «In termini non proprio coincidenti si presenta il problema rispetto alle attività essenzialmente agricole, ma ciò non impedisce, in definitiva, che la soluzione debba essere la medesima. Per esse infatti non è possibile individuare un «diritto vivente», poiché manca, oltre a qualsiasi apprezzabile apporto dottrinale, anche una giurisprudenza di merito, mentre la Corte di Cassazione, nei soli due casi in cui ha preso in esame il problema, si è orientata in senso contrastante, affermando in uno che le attività agricole ora ricordate non rientrano nella previsione del citato art. 27 (e conseguentemente dei successivi artt. 29, 67 e 73) e ritenendo invece nell'altro che la formula legislativa si riferisce a tutte le attività produttive e quindi non consente di escludere quelle agricole. In tale situazione spetta a questa Corte procedere direttamente all'interpretazione della norma. Già si è visto, rispetto alle attività agricole connesse, come l'argomento tratto dall'elemento letterale non abbia una effettiva consistenza, e ciò vale intuitivamente anche per l'ipotesi qui considerata. È invece importante osservare, sotto il profilo logico, come nel sistema accolto dal vigente codice civile, ricorrendo la previsione dell'art. 2135 c.c., l'agricoltura è considerata come attività d'impresa, e non già di mero godimento, sul presupposto della sua preponderante funzione produttiva diretta a soddisfare le necessità del mercato e, come tale, creativa di ricchezza. Sotto altro profilo, va rilevato che l'agricoltura non può essere considerata come a se stante e senza alcun rapporto con gli altri settori della economia, sussistendo invece strette connessioni e reciproche integrazioni, le quali si sviluppano in misura sempre crescente, specie per quanto riguarda il settore agroalimentare: e questo esige, tra l'altro, l'impiego di tecnologie nuove, per cui sono necessari macchinari di notevoli dimensioni, da custodire necessariamente in appositi locali. Dalle superiori osservazioni consegue che il legislatore non poteva prescindere dalla comunanza della natura imprenditoriale e dello stretto nesso ora ricordato ed escludere perciò l'imprenditore agricolo dalla più ampia protezione che le norme denunciate attribuiscono agli altri imprenditori in tema di locazioni di immobili, al fine di maggiormente tutelarne l'attività economica. Il che tanto più è da ritenere se si considera che il citato art. 27, come sopra è stato ricordato, comprende anche «qualsiasi attività di lavoro autonomo», sicché non poteva essere escluso il lavoro svolto nell'agricoltura e, in particolare, quello del coltivatore diretto (sulla cui nozione, v. anche l'art. 6 l. n. 203/1982), che l'art. 2083 c.c. definisce piccolo imprenditore. Indubbiamente, gli statuti dell'imprenditore agricolo e di quello commerciale sono diversi, ma tale eterogeneità non può avere riflessi in subiecta materia, rispetto alla quale l'esigenza di una maggiore tutela (relativa all'immobile utilizzato per l'esercizio dell'impresa) ricorre in maniera sostanzialmente analoga anche per colui che svolga l'attività prevista dal cit. art. 2135, comma 1, c.c. (Corte cost., n. 40/1984).

Dunque, il giudice delle leggi ha ritenuto ricomprese nell'ambito di operatività dell'art. 27 l. n. 392/1978 tanto le attività agricole connesse, ex art. 2135, comma 2, c.c., quanto le attività agricole primarie, ex art. 2135, comma 1, c.c.

Nella giurisprudenza, il problema dell'inclusione delle attività agricole nell'ambito di operatività dell'art. 27 l. n. 392/1978 si è in un primo tempo posto con riferimento all'istituto del recesso per «necessità». L'art. 59 l. n. 392/1978 prevedeva difatti per le locazioni abitative la facoltà del locatore, nella fase di proroga legale del rapporto prevista dalla legge dell'equo canone, di recedere dal contratto in presenza della necessità sopravvenuta alla formazione del vincolo di destinare l'immobile «ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio, del coniuge o dei parenti in linea retta entro il secondo grado». Una analoga previsione, per le locazioni non abitative, era dettata dall'art. 73 l. n. 392/1978, attraverso il rinvio alle fattispecie contemplate dall'art. 29 l. n. 392/1978, tra le quali la necessità di adibire l'immobile all'esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, di una delle attività indicate nell'art. 27 l. n. 392/1978.

Secondo un primo indirizzo, le attività agricole sono da considerare estranee alla legge dell'«equo canone»: «Le attività agricole in senso stretto (ricovero degli attrezzi, delle sementi, dei concimi, ecc.) al pari delle attività agricole per connessione (deposito dei raccolti in vista di una successiva alienazione) non sono prese in considerazione dalla l. n. 392/1978 neppure ai limitati fini del diritto di recesso» (Pret. Ravenna 18 gennaio 1982). E parimenti è stato ribadito che l'attività agricola, oltre a non rientrare tra quelle espressamente previste dall'art. 27 l. n. 392/1978, «tantomeno è compresa nella espressione “lavoro autonomo” di cui al terzo comma della stessa disposizione e, pertanto, non legittima il recesso del locatore ai sensi dell'art. 73 della citata legge» (Pret. Rionero in Vulture 2 luglio 1982).

In prospettiva opposta, è stato sostenuto che l'attività agricola svolta in vista di una certa produzione – nel caso considerato si trattava di vino – deve essere esaminata «assieme all'attività di vendita del prodotto e può costituire giusto motivo per il recesso del locatore dal contratto ad uso non abitativo, a sensi dell'art. 27 della l. n. 392/1978» (Trib. Vallo della Lucania 22 giugno 1984). Similmente è stato ritenuto che la locazione di immobile, adibito ad uso di deposito di attrezzi e prodotti agricoli dal conduttore che eserciti tale attività, rientra nella previsione di cui all'art. 27 l. n. 392/1978, «la cui ratio è quella di accordare tutela ad ogni attività di lavoro autonomo che sia esercitata abitualmente e professionalmente, senza alcuna possibilità di distinzione in relazione alla dimensione dell'impresa agricola, altrimenti involgente una disparità di trattamento nell'ambito di una medesima categoria di cittadini che condurrebbe alla verifica di costituzionalità della norma per violazione del precetto generale di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.» (Pret. Orsara di Puglia 23 dicembre 1983). È stato detto, in seguito, che il locatore, piccolo imprenditore agricolo, può recedere dal contratto relativo ad un immobile adibito ad uso non abitativo quando intenda destinarlo all'esercizio di un'attività autonoma, abituale e professionale, posta in connessione funzionale con l'esercizio dell'impresa agricola: «In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, il diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, previsto dall'art. 29, lett. b), l. n. 392/1978 per il caso in cui il locatore intenda adibire l'immobile ad una delle attività indicate nel precedente art. 27, si riferisce a tutte le attività elencate in tale ultima norma, ivi compreso, pertanto, l'esercizio abituale e professionale di lavoro autonomo; ne consegue che la suddetta disposizione può essere invocata anche dal coltivatore diretto, per riacquisire la disponibilità dell'immobile locato, pur se non insistente sul fondo coltivato, in relazione ad esigenze che rientrino funzionalmente nell'economia dell'impresa agricola» (Cass. III, n. 2972/1983). Nella specie, l'attività in questione – da considerarsi senz'altro attività agricola per connessione – consisteva nella conservazione dei prodotti del fondo in vista della successiva vendita.

Si è anche affermato che il locatore, titolare dell'impresa agricola, può riottenere la disponibilità dell'immobile quando intenda adibirlo all'esercizio delle attività – anche questa agricola per connessione – di trasformazione ed alienazione dei prodotti connessa a quella tipicamente agraria: «Le norme di cui all'art. 27 ed al combinato disposto degli artt. 29, 73 l. n. 392/1978 (sull'equo canone), riguardanti, rispettivamente, la durata delle locazioni non abitative e il diritto di recesso del locatore (nel regime transitorio dalle stesse), mirano ad assicurare la stabilità dei rapporti locatizi (art. 27) ed a privilegiare il locatore rispetto al conduttore (art. 29-73) in riferimento al concreto svolgimento nell'immobile locato di determinate attività, come quella commerciale o industriale, considerate per la loro effettiva natura e, quindi, indipendentemente dalla loro eventuale accessorietà e complementarietà rispetto alla attività agricola, di per sé esulante dall'ambito di operatività della citata normativa; pertanto, anche il locatore titolare di impresa agricola può recedere dalla locazione non abitativa per la necessità di adibire l'immobile locato, in proprio favore o in favore del coniuge o di altro stretto congiunto, all'esercizio di attività commerciale o industriale connessa a quella tipicamente agraria ai sensi dell'art. 2135 c.c., sia che si tratti di destinazione all'esercizio diretto di tale attività, sia che si tratti di utilizzazione secondaria e marginale (quale quella per deposito di merci), ugualmente attinente alle attività tutelate dalle disposizioni suindicate» (Cass. III, n. 5020/1983).

In seguito – e su una linea condivisa da Cass. III, n. 2273/1988; Cass. III, n. 572/1988; Cass. III, n. 3830/1986; Cass. III, n. 2653/1986 – la Suprema Corte ha ulteriormente ribadito il rilievo della distinzione tra attività agricole per connessione di cui all'art. 2135, comma 2, c.c., le quali non hanno di per se stesse un contenuto propriamente agricolo, ed attività agricole primarie di cui all'art. 2135, comma 1 c.c., riguardo alle quali occorrerebbe propendere per l'esclusione dell'operatività della legge sull'equo canone, esclusione che trarrebbe la propria ratio non solo dalla formulazione letterale dell'art. 27 l. n. 392/1978, ma soprattutto dall'esistenza di uno specifico fattore – la terra – che giustifica l'applicazione della disciplina speciale dettata in materia. Tale soluzione – sostenuta pur successivamente alla citata Corte cost. n. 40/1984 – è così motivata: «L'art. 27 l. n. 392/1978 contempla tra le attività soggette alla normativa speciale esclusivamente quelle “industriali, commerciali ed artigianali”, di interesse turistico, e di lavoro autonomo e sembra, pertanto, escludere espressamente le attività agricole. Ora, ai sensi dell'art. 2135 c.c. sono attività agricole non solo quelle primarie, cioè, dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame (primo comma) ma anche quelle cosiddette “connesse” di cui le più rilevanti sono quelle rivolte alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli (secondo comma). Se, intanto, l'esclusione della operatività della legge sull'equo canone in relazione alle attività agricole primarie trae la sua ratio non solo dall'espressione letterale della norma, ma soprattutto dalla esistenza di uno specifico fattore (terra) che giustifica l'applicazione della disciplina speciale dettata in materia, non altrettanto può affermarsi per quanto concerne le attività agricole connesse, di cui al citato comma 2 dell'art. 2135 c.c., le quali, di per se stesse non hanno un contenuto propriamente agricolo e, quindi, potrebbero considerarsi anche attività commerciali, ma acquistano, per disposizione legislativa, carattere agricolo allorché siano esercitate in connessione con una delle attività agricole fondamentali previste dal codice. Né consegue che anche l'attività secondaria di trasformazione o alienazione dei prodotti agricoli, in quanto intesa al completo sfruttamento e all'integrale valorizzazione di questi va riferita al titolare dell'impresa agraria deve applicarsi la normativa esistente per questa ultima» (Cass. III, n. 1307/1987).

Riguardo alle attività connesse a quella tipicamente agraria, la pronuncia ha poi osservato: «Quando l'art. 27 considera gli immobili che sono “adibiti” ad attività industriali, commerciali, artigianali, ecc., è palese il riferimento obiettivo alla utilizzazione concreta cui gli immobili sono destinati e allo svolgimento di certe attività economiche professionali, a prescindere dalla natura giuridica dell'impresa esercente. Allo stesso modo il successivo art. 29 prescinde dalla qualificazione del soggetto locatore che faccia valere uno dei motivi di recesso previsti in quella norma, ed incentra il precetto sulla utilizzazione concreta che egli intenda fare dell'immobile di cui chiede la disponibilità. In aderenza a tale interpretazione deve, così, ritenersi che anche il locatore titolare dell'impresa agricola o che intenda esercitare tale impresa possa ottenere la disponibilità dell'immobile locato, quando intenda adibirlo all'esercizio dell'attività commerciale o industriale connessa a quella tipicamente agraria di cui all'art. 2135 c.c. o, ancora, quando intenda utilizzare l'immobile per deposito di merci, in quanto anche tale utilizzazione deve considerarsi attinente alle attività privilegiate dal legislatore con la conseguenza che può anch'essa giustificare il recesso da parte del locatore» (Cass. III, n. 1307/1987).

L'àmbito di applicazione della legge dell'equo canone – si può dunque riassumere – è delimitato dalla materia delle locazioni degli immobili urbani, sicché deve ritenersi che il recesso dal contratto di locazione contenuta nella stessa legge sia ammesso solo per la necessità di esercitare nell'immobile un'attività la cui concreta attuazione sia consentita dalla natura e destinazione urbana dell'immobile oggetto del contratto. Conseguentemente, mentre tra le attività che consentono il recesso rientrano quelle agricole connesse contemplate dall'art. 2135, comma 2 c.c., in quanto ricomprese tra le attività industriali, commerciali ed artigianali, considerate dalla menzionata legge, non vi rientra la mera coltivazione del fondo (Cass. III, n. 2615/1990, sulla linea della giurisprudenza di legittimità già ricordata).

Tali conclusioni fissate in tema di recesso, infine, hanno trovato applicazione nella ipotesi prossima del diniego di rinnovazione alla prima scadenza. Si è così detto che, in tema di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, il diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, previsto dall'art. 29 l. n. 392/1978, può essere invocato anche dal coltivatore diretto, per riacquistare la disponibilità dell'immobile locato, pure se non insistente sul fondo coltivato, in relazione ad esigenze che rientrino funzionalmente nell'economia dell'impresa agricola, quali la conservazione dei prodotti del fondo in vista della successiva vendita ovvero il deposito di sementi, fertilizzanti, attrezzi e macchine agricole (Pret. Molfetta 8 ottobre 1986).

Pur in presenza di un ampio indirizzo giurisprudenziale ammissivo del recesso esercitato dal locatore in ragione della necessità di destinare l'immobile locato ad uso agricolo – sia pure con riguardo alle attività agricole per connessione – la questione è stata nuovamente rimessa alla Corte Costituzionale, che ha nuovamente dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 59, comma 1, n. 1 l. n. 392/1978, nella parte in cui non prevede che il locatore possa recedere dal contratto per la necessità di destinare l'immobile locato ad uso agricolo, in riferimento agli artt. 3, 35 e 41 Cost.: «Già nella sentenza n. 40/1984, questa Corte ha affrontato il problema della mancata previsione delle attività agricole nella elencazione di cui all'art. 27 l. n. 392/1978 (“disciplina delle locazioni di immobili urbani”), con specifico riferimento ai contratti previsti dal combinato disposto degli artt. 67 e 73 l. cit. In tale occasione si è escluso che l'argomento meramente letterale, sul quale i giudici rimettenti avevano fondato le eccezioni d'illegittimità, rivestisse un'effettiva consistenza. Ha affermato la corte che «nel sistema accolto dal vigente codice civile, ricorrendo la previsione dell'art. 2135, l'agricoltura è considerata come attività d'impresa, e non già di mero godimento, sul presupposto della sua preponderante funzione produttiva diretta a soddisfare le necessità del mercato e, come tale, creativa di ricchezza». Sotto altro profilo si è poi rilevato “che l'agricoltura non può essere considerata come a sé stante e senza alcun rapporto con gli altri settori dell'economia, sussistendo invece strette connessioni e reciproche integrazioni, le quali si sviluppano in misura sempre crescente, specie per quanto riguarda il settore agroalimentare”. Analogo ordine di considerazioni deve essere svolto per la norma denunziata, la cui più corretta interpretazione induce a ritenere anche l'uso agricolo dell'immobile tra le destinazioni che legittimano il recesso del locatore. Appropriato è, al riguardo, il richiamo all'art. 2083 c.c. che il giudice a quo effettua onde sottolineare come il legislatore ugualmente definisca piccoli imprenditori l'artigiano, il piccolo commerciante ed il coltivatore diretto del fondo. Non ricorre pertanto per l'uso agricolo il presupposto indicato nell'ordinanza di rimessione e la relativa questione risulta non fondata» (Corte cost., n. 578/1987).

In conformità con l'orientamento espresso dalla giurisprudenza è stato ritenuto, ad altro riguardo, che le locazioni di immobili urbani destinati ad esercizio di attività agricole connesse (art. 2135, comma 2 c.c.), oppure di attività funzionalmente collegate a quelle, primarie, svolte altrove, dallo stesso imprenditore agricolo (ricovero di animali, deposito di attrezzi o di prodotto agricoli, sementi, concime ecc.) sono soggette all'intera disciplina di cui agli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 e, quindi, anche alle norme di in materia di prelazione e riscatto di cui agli artt. 38 e 39 della legge indicata (Cass. III, n. 161/1990).

Inoltre, guardando ancora alla casistica, il diritto di prelazione e quello di riscatto previsti nell'ipotesi di trasferimento a titolo oneroso di un immobile locato per uso diverso da quello di abitazione sono stati ritenuti spettare anche al conduttore che eserciti nell'immobile attività di mescita di vino di propria produzione, attività che deve ritenersi agricola e non commerciale (App. Roma 21 aprile 1992).

Dopo aver riconosciuto che l'ambito coperto dall'art. 27 l. n. 392/1978 e dalla disciplina ad esso collegata ha riguardo anche alla concessione del godimento di un immobile convenzionalmente destinato allo svolgimento di attività agricole – ammettendosi, dunque, la configurabilità di locazioni ad uso diverso, con connotazione agricola – ci si imbatte nel problema della distinzione tra rapporti locatizi e rapporti agrari, in vista dell'individuazione della disciplina giuridica, anche processuale, da applicare.

In linea generale merita rammentare che, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte – da cui pare allontanarsi esclusivamente Cass. III, n. 9867/1990 –, ricorrono gli estremi dell'affitto di fondo rustico solo dinanzi al godimento del terreno come tale, per ottenere un reddito agricolo, ossia proveniente dalla coltivazione (si muove da Cass. III, n. 3363/1953, per giungere sino a Cass. S.U., n. 11648/1993 ed a Cass. III, n. 8078/1994). Secondo il pressoché unanime orientamento, pertanto, la linea di demarcazione tra attività agricola e attività non agricola è data dal collegamento funzionale con il bene terra.

Riguardo al tema della distinzione tra rapporti locatizi e rapporti agrari, sulla scorta di un risalente indirizzo, si trova ribadito che il criterio di distinzione tra contratto di affitto e contratto di locazione è oggettivo e soggettivo al tempo stesso, nel senso che, perché si configuri un contratto di affitto, è necessario non solo che il contratto abbia ad oggetto una cosa produttiva, ma anche che la disponibilità del bene sia concessa al fine di consentire all'affittuario la gestione produttiva dello stesso. Così, in particolare, nell'ipotesi di un immobile costituito da fabbricato ed annesso fondo rustico, è necessario stabilire la prevalenza o meno, nell'economia del contratto, del godimento del fabbricato e del terreno annesso – che pure può comportare un'attività di coltivazione preordinata alla produzione e percezione dei frutti – ovvero della coltivazione del fondo, intesa come oggetto essenziale di una gestione produttiva costituente oggetto di obbligo, prima ancora che di diritto, dell'affittuario (Cass. III, n. 592/1995). La pronuncia così motiva: «La distinzione tra affitto e locazione non attiene puramente e semplicemente all'oggetto, nel senso che sia configurabile il contratto di affitto se il bene concesso in godimento è capace ex se di produrre frutti, ricorrendo nell'ipotesi opposta il contratto di locazione. Ciò che rileva ai fini della configurazione del contratto di affitto non è (semplicemente) il godimento di una cosa produttiva quale oggetto del contratto, bensì che il bene sia “locato” al fine di consentire all'affittuario la gestione produttiva del bene. Occorre, quindi, verificare la funzione attribuita al bene dalle parti nell'ambito del rapporto contrattuale. Il criterio di individuazione è quindi oggettivo e soggettivo ad un tempo, inerendo sia alla funzione obiettiva del bene, sia a quella particolarmente presa in considerazione dalle parti [...]. Nella particolare ipotesi di un immobile costituito da fabbricato e annesso fondo rustico, è rilevante stabilire la prevalenza o meno, nell'economia del contratto, del godimento del fabbricato e dell'annesso terreno – che pure può comportare un'attività di coltivazione preordinata alla produzione e alla percezione dei frutti – ovvero della coltivazione del fondo, intesa quale oggetto essenziale di quella “gestione produttiva” che costituisce oggetto di obbligo, prima ancora che di diritto, dell'affittuario. In altri termini, nella locazione di fabbricato con annesso fondo rustico prevale, nella previsione contrattuale, il godimento sia del fabbricato sia dell'annesso fondo, la cui coltivazione assume rilievo solo mediatamente, quale momento (eventualmente) essenziale per poter conseguire i frutti. Sulla scorta di tale premesse, la Corte di merito avrebbe dovuto portare la sua indagine non semplicemente sulla concreta attitudine del fondo ad una utilizzazione agricola, bensì anche sul rilievo che, nell'ambito del rapporto contrattuale, le parti hanno dato alla gestione produttiva del fondo, e quindi sia sulla prevalenza o meno, nella considerazione delle parti, del godimento del fabbricato rispetto al godimento del terreno coltivato annesso, sia sulla considerazione di questo come «cosa produttiva», sì da potersi configurare come oggetto del contratto il terreno annesso al fabbricato non come semplice oggetto di «godimento» in se e per sé, ma come oggetto di «gestione produttiva» intesa quale obbligo dell'affittuario, non meramente rivolto alla conservazione del bene».

Nel medesimo ordine di idee, si è detto che il contratto con il quale, per un unico corrispettivo, viene ceduto il godimento di un immobile composto da una casa di abitazione e da un terreno idoneo allo sfruttamento agricolo può essere qualificato di locazione o di affitto a secondo che le parti abbiano voluto soltanto consentire il godimento dell'immobile in conformità ai suoi possibili usi, nell'ambito dei quali vi è anche la coltivazione del terreno, o se abbiano piuttosto considerato la funzione produttiva del bene, ricollegandovi un vero e proprio obbligo dell'affittuario alla coltivazione del fondo. Nell'accertamento di questa volontà – ha nell'occasione chiarito la Suprema Corte – il giudice può anche servirsi di elementi estrinseci al contratto, quale l'idoneità del terreno ad assicurare una produzione non esauribile nell'autoconsumo o le qualità professionali del conduttore, se questo dedichi le sue energie abituali alla coltivazione della terra (Cass. III, n. 3724/1996). Per poter qualificare un contratto come contratto di affitto di fondo agricolo è dunque necessario non solo che il contratto abbia ad oggetto una cosa potenzialmente produttiva, ma anche che la disponibilità del bene sia concessa al fine di consentire all'affittuario la gestione produttiva dello stesso: deve valutarsi, allora, se, nell'economia del contratto, abbia prevalenza la finalità di coltivazione del fondo o, invece, quella di godimento del fabbricato, il cui uso costituisca congiuntamente oggetto del contratto. In tal caso, qualora il giudice di merito qualifichi il contratto come locazione ad uso abitativo, a fronte del ricorso delle parti allo schema del contratto di natura agricola, a fini di elusione delle norme imperative contenute nella legge dell'equo canone, segue la declaratoria di nullità per frode alla legge delle clausole contrattuali inerenti agli aspetti agricoli (Cass. III, n. 8856/1996).

Si è esclusa la sussistenza di un'impresa agricola di allevamento di bestiame nel caso che questa non sia collegata alla produzione agraria del terreno e, quindi, che il bene «terra» non si ponga in combinazione con la forza lavoro quale componente dello svolgimento dell'attività zootecnica. Per tale ragione è stato negato che il contratto con il quale il proprietario concede all'allevatore il godimento di un bene immobile possa, in tal caso, ritenersi attinente ad un affitto di fondo rustico, concernendo invece un rapporto locatizio, come tale sottratto alla competenza funzionale delle sezioni specializzate agrarie: «È stato [...] ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che, come non può ravvisarsi una impresa agricola di coltivazione del suolo se tra i fattori di produzione non è presente, in combinazione con il fattore lavoro, il bene “terra”, così non è possibile individuare un'impresa agricola di allevamento di bestiame se questa non è collegata alla produzione agraria del terreno e se, quindi, il bene “terra” non rientra in combinazione con la forza lavoro quale fattore per lo svolgimento dell'attività zootecnica ... Orbene, nel caso di specie il fondo locato, attesa la sua natura non produttiva in quanto già utilizzato per la essiccazione dei prodotti di una fornace [...], non rientra in combinazione con la forza-lavoro quale fattore per lo svolgimento dell'avicoltura, apparendo invece destinato esclusivamente in funzione spaziale alla sosta degli animali in allevamento (Cass. III, n. 10577/1995).

Al contrario, nel caso di cessione, dietro corrispettivo, in favore di un'impresa di allevamento di cavalli da corsa, di un fabbricato con annesso terreno, deve ravvisarsi un contratto di affitto agrario, e non una locazione urbana, anche al fine della competenza del giudice specializzato agrario, qualora quel terreno, per natura e dimensioni, sia adatto e sia in concreto destinato al mantenimento, alla cura ed alla riproduzione degli animali, sicché il contratto risulti rivolto, in via prevalente rispetto alla mera sosta, ricovero od addestramento degli equini, a consentire l'esercizio di detta attività: «Dottrina e giurisprudenza concordano, ormai, nel ritenere che l'allevamento del bestiame (in senso lato) costituisca una attività agricola autonoma e principale, posto che tale dignità le ha conferito il legislatore, il quale tratta separatamente, nel secondo comma dell'art. 2135 c.c. la materia delle attività connesse alla coltivazione del fondo. Risulta pertanto sterile il rilievo dei ricorrenti secondo cui dal predio affittato non potrebbero essere tratti prodotti in quantità adeguata alla nutrizione degli equini ivi allevati; e sterile perché, oltretutto, non si controverte in tema di regime tributario applicabile al reddito di impresa [...] Si controverte, invece, in tema di concessione contrattuale in godimento, verso corrispettivo, di un fabbricato destinato al ricovero di bestiame e di un annesso terreno scoperto per la sua stessa estensione (quattro ettari) e giacitura di sicura vocazione agricola; godimento richiesto da, e concesso ad, una impresa di allevamento di cavalli da corsa per il perseguimento dei suoi scopi societari istituzionali e quindi in vista di una destinazione economica chiaramente concordata al momento del perfezionamento del sinallagma contrattuale. Tanto premesso, questa Corte è dell'avviso che, come non può ravvisarsi una “impresa agricola” di coltivazione del suolo se tra i fattori di produzione non è presente, in combinazione con il fattore lavoro, il bene “terra”; così non è possibile individuare una impresa agricola di allevamento di bestiame se questa non ha base su di un appezzamento di terreno e se quindi il bene “terra” non rientri in combinazione con la forza-lavoro quale fattore per lo svolgimento della attività zootecnica. Ora, sia rispetto alla impresa di coltivazione sia rispetto a quella di allevamento, ovviamente non tutti i contratti stipulati per l'attingimento dei fini imprenditoriali hanno natura di contratti agrari e soggiacciono alla speciale disciplina per essi prevista: ma certamente tale natura hanno i contratti aventi ad oggetto l'affitto dell'appezzamento di terreno occorrente per l'esercizio della impresa, di coltivazione o di allevamento. Confortano tale conclusione il rilievo che la medesima l. n. 11/1971, secondo cui sono devolute alla esclusiva competenza delle sezioni specializzate agrarie del tribunale “tutte le controversie relative alla attuazione della presente legge e delle leggi o norme sull'affitto” (art. 26), nel precedente art. 10 disciplina unitariamente le iniziative di organizzazione e di gestione assunte dall'affittuario siano esse richieste dalla «razionale coltivazione del fondo» oppure “dagli allevamenti di animali” (e non a caso quest'ultimo termine sembra utilizzato in luogo di quello di “bestiame” che figura nell'art. 2135 c.c.). Altri elementi di conforto si ricavano, poi, dalla disciplina indicata nell'art. 7 della nuova legge sui contratti agrari n. 203/1982, a tenore della quale vengono equiparati ai coltivatori diretti, tra gli altri, anche “i laureati in veterinaria per le aziende a prevalente indirizzo zootecnico”; nonché dalla considerazione che anche per l'affitto del fondo a tali aziende ben può provvedersi alla determinazione dell'equo canone (art. 9) sulla base di coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale. In definitiva, non ritiene possibile questa Corte – alla luce anche delle più recenti linee di tendenza che animano l'inquadramento giuridico degli allevamenti – mantenere fermo il proprio anteriore indirizzo giurisprudenziale secondo cui la configurabilità di una affittanza agraria è da escludere allorché oggetto della locazione sia un complesso di edifici e di terreni scoperti destinati alla riproduzione ed all'allevamento di cavalli da corsa ... Può, invece, convenirsi che gli estremi della locazione urbana, ad uso commerciale siano ravvisabili nelle ipotesi in cui oggetto dell'affitto siano aree coperte o scoperte destinate non all'allevamento ma alla sosta od al ricovero degli animali equini od al loro addestramento (maneggi) od alle loro esibizioni sportive o competitive» (Cass. III, n. 9687/1990).

Merita ancora rammentare, infine, che l'esercizio di un impianto di pesca sportiva in uno specchio di acqua compreso in un terreno oggetto di locazione, non costituisce in sé, neppure in via strumentale, attività agricola e gli spazi acquei ove essa viene esercitata non possono essere attratti nella nozione di fondo rustico, con la conseguenza che la controversia avente ad oggetto il rilascio del terreno comprendente il detto specchio d'acqua adibito all'attività sopra indicata, in ragione della risoluzione della relativa locazione per inadempimento del conduttore, non rientra nella competenza della sezione specializzata agraria (Cass. III, n. 3230/1990).

Con riguardo all'allevamento di cavalli – sul quale conviene specificamente soffermarsi in considerazione del numero dei precedenti pronunciati sul punto – è stato stabilito che: «La locazione di un immobile destinato ad attività commerciale, come quella di allevamento di cavalli, deve considerarsi locazione di immobile “urbano”, al fine dell'applicabilità della disciplina della legge sull'equo canone n. 392/1978 [...], a prescindere dalla sua eventuale ubicazione al di fuori della cinta cittadina, perché, ai fini indicati, devono qualificarsi come urbani tutti gli immobili diversi da quelli rustici, cioè adibiti all'attività agricola ed a quelle ad essa strettamente connesse (Cass. III, n. 697/1984). L'attività di allevamento di cavalli da corsa, in particolare, si caratterizza per la sua autonomia rispetto allo sfruttamento del terreno, destinato alla produzione agraria, con annesse scuderie, e, pertanto, «non può essere qualificata come agricola ai sensi dell'art. 2135 c.c. Ne consegue che la controversia avente ad oggetto la risoluzione del rapporto col quale il proprietario concede all'allevatore il godimento dei suddetti immobili, non può ritenersi attinente ad un'affittanza agraria, concernendo, invece, un comune rapporto locativo, così da sottrarsi alla competenza funzionale delle sezioni specializzate agrarie» (Cass. S.U., n. 11648/1993).

Ancora in tema di allevamento di cavalli – in continuità con Cass. III, n. 10577/1995 – si è ripetuto che, ai fini della nozione di impresa agricola desumibile dall'art. 2135 c.c., può qualificarsi «allevamento di bestiame» solo l'allevamento di animali destinati all'alimentazione o all'utilizzo in agricoltura come forza lavoro: «Ne consegue che ha natura commerciale e non agraria l'allevamento di cavalli destinati ad un centro ippico, e che la controversia avente ad oggetto la cessazione del godimento concesso dal proprietario all'allevatore sugli immobili ove l'allevamento è esercitato, concernendo un comune rapporto locativo, si sottrae alla competenza funzionale delle sezioni specializzate agrarie» (Cass. III, n. 12791/1997).

Di contro, è stato in un'occasione affermato che, nel caso di cessione, dietro corrispettivo, in favore di un'impresa di allevamento di cavalli da corsa, di un fabbricato con annesso terreno, «deve ravvisarsi un contratto di affitto agrario, non una locazione urbana, anche al fine della competenza del giudice specializzato agrario, qualora quel terreno, per natura e dimensioni, sia atto e sia in concreto destinato al mantenimento, alla cura ed alla riproduzione degli animali, sicché il contratto risulti rivolto, in via prevalente rispetto alla mera sosta, ricovero od addestramento degli equini, a consentire l'esercizio di detta attività imprenditoriale, di natura agricola» (Cass. III, n. 9687/1990).

Attività turistiche

Guardando ancora alle attività a tutela piena, l'art. 27, comma 1, l. n. 392/1978 menzionava, tra le altre, le attività «di interesse turistico comprese tra quelle di cui all'art. 2 della l. n. 326/1968», disposizione, quest'ultima, abrogata dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 79/2011. Il citato art. 27 menziona oggi le attività «di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili».

Come è stato osservato, molte delle attività di interesse turistico già menzionate dalla legge del 1968 sarebbero ricadute comunque nell'ambito di applicazione della legge dell'equo canone, quali attività di volta in volta industriali, commerciali, artigianali o alberghiere, ai sensi dell'art. 27, oppure ricreative o culturali, ai sensi dell'art. 42: ne deriva che la previsione delle attività di interesse turistico vale a tutelare quegli impieghi dell'immobile locato che rimarrebbero altrimenti al di fuori dell'orbita della legge (Lazzaro, Preden, 57).

All'àmbito di applicazione del combinato disposto degli artt. 27, comma 1, n. 2, l. n. 392/1978 e 2, l. n. 326/1968 è stata ricondotta la locazione di un terreno di cui era pattuita l'esclusiva destinazione ad uso turistico, con la conseguente costruzione dei relativi impianti, ad uso esclusivo, secondo la pattuizione, di «complesso ricettivo di alloggi decentrati», per convogliare nella zona correnti turistiche (Cass. III, n. 913/1983).

Prestando attenzione ad una fattispecie particolare, merita ricordare che, secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità, gli immobili adibiti a campeggio, pur soggetti alla disciplina in commento (Cass. III, n. 22/1985), non possono equipararsi agli alberghi, dal momento che l'art. 27 l. n. 392/1978 fissa in sei anni la durata – tra l'altro – delle locazioni di immobili adibiti ad una delle attività comprese tra quelle di cui all'art. 2, l. 12 marzo 1968, n. 326, tra i quali l'attività di campeggio (Cass. III, n. 1382/2001; Cass. III, n. 4491/1995; Cass. III, n. 13999/1991). In massima si trova cioè ribadito che: «Gli immobili adibiti a campeggio non possono equipararsi agli alberghi per quanto concerne la durata minima dei relativi contratti di locazione, dal momento che l'art. 27 l. n. 392/1978, nello stabilire per le locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione una durata minima non inferiore a sei anni, si riferisce altresì alle locazioni di immobili adibiti ad una delle attività comprese tra quelle di cui all'art. 2 l. n. 326/1968, il quale, alla lett. c), menziona espressamente i campeggi» (Cass. III, n. 4491/1995).

Secondo altro indirizzo, reso con riguardo all'applicazione dell'art. 71 ovvero dell'art. 67 l. n. 392/1978, va accolta l'equiparazione delle locazioni alberghiere e di quelle «aventi ad oggetto villaggi turistici a tipo alberghiero, anche se costituiti in complessi di singole unità abitative, autostelli, campeggi e simili» (Cass. III, n. 401/1984). Allo stesso modo, nella giurisprudenza di merito, è stato detto che è assimilabile alla locazione alberghiera, e dunque ne segue la disciplina, la locazione di un terreno con fabbricati, adibito a campeggio (Trib. Milano 20 febbraio 1992).

Orbene, la prima soluzione appare preferibile. Sembra peraltro più esatto porre l'accento sulla considerazione che l'attività di gestione di un campeggio – ossia di uno spazio destinato allo stazionamento di roulottes e caravan, nonché all'installazione di tende, dotato di servizi igienici e, generalmente, spaccio e mensa – non comporta l'alloggio del cliente, che costituisce connotato tipico dell'attività alberghiera (Lazzaro, Preden, 137).

Questa soluzione è stata fatta propria infine dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che: «Non può essere definita come attività alberghiera quella di colui che offre all'ospite una porzione di terreno attrezzato dove sistemare una tenda, un caravan o una roulotte, come avviene nei campeggi e nei parchi-vacanze, mancando nell'attività di gestione di campeggi l'offerta all'ospite di un alloggio in una struttura propria, che costituisce, invece, il tratto distintivo dell'attività alberghiera. Pertanto, agli immobili adibiti a campeggio non può essere applicata la disciplina prevista per gli alberghi in tema di durata minima dei relativi contratti di locazione» (Cass. III, n. 14537/2009).

La locazione di immobile ad uso di campeggio non deve inoltre essere confusa con l'affitto dell'azienda-campeggio costituita nell'immobile. Si configura infatti locazione di immobile adibito a campeggio quando sia dedotto in contratto un terreno destinato all'attendamento ed al parcheggio delle roulottes, corredato solo di attrezzature indispensabili per tale destinazione, mentre ricorre l'affitto di un'azienda para-alberghiera, alla quale non sono inapplicabili le disposizioni in tema di locazione, allorché oggetto del contratto sia un complesso organico, preesistente alla pattuizione delle parti, del quale, oltre all'immobile siano elementi integranti una serie di servizi, di attrezzature e di impianti interdipendenti (bar, ristorante, piscina, ecc.), organizzati per l'esercizio di una impresa turistico-ricettiva già funzionante con una sua precisa denominazione, e dotata delle relative scritture contabili (Cass. III, n. 4044/1999; Cass. III, n. 6480/1982).

Occorre ancora soffermarsi sui rifugi alpini. È stato detto che l'art. 27, comma 1, n. 2), l. n. 392/1978, nel richiamare le attività di interesse turistico comprese fra quelle di cui all'art. 2, l. 12 maggio 1968, n. 326 – che, appunto, annovera fra le stesse anche i rifugi alpini –, si limita a regolare la durata dei contratti di locazione ove abbiano ad oggetto immobili in cui si svolgono dette attività, ma non comporta che i rapporti concernenti il godimento di siffatti immobili possano integrare esclusivamente una locazione o sublocazione d'immobile (Cass. III, n. 5464/1983). L'alternativa plausibile, anche in questo caso, è quella dell'affitto d'azienda: riguardo alla cui pertinenza sono state formulate, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, considerazioni in parte critiche. Un giudice di merito ha osservato che: «Nel contratto di affitto di azienda alberghiera l'oggetto è costituito da un complesso unitario di beni organizzati per l'esercizio di quell'attività e l'immobile è considerato come uno dei beni aziendali in rapporto di complementarietà e di interdipendenza con gli altri in vista del fine perseguito dallo imprenditore; mentre nella locazione di immobile adibito ad albergo l'oggetto è costituito da un immobile specificatamente considerato nella sua obiettiva consistenza e con funzione prevalente rispetto ad altri beni che abbiano carattere accessorio e non siano collegati da un vincolo unitario a scopi produttivi. Il rifugio alpino, per la prevalenza accordata alla struttura dell'immobile ed al luogo ove esso è sito rispetto alla dotazione degli arredi e dei servizi, è suscettibile di essere concesso in locazione e non già in affitto» (Trib. Genova 2 luglio 1987). Secondo questo punto di vista, dunque, non sarebbe configurabile l'affitto dell'azienda costituita in un rifugio alpino.

Altri hanno rammentato che gran parte dei rifugi «ufficiali» sono di proprietà del Club Alpino Italiano, il quale, attraverso le proprie sezioni locali, ne affida solitamente la gestione a imprenditori privati mediante contratti di affitto di azienda. In ordine all'inquadramento dei contratti di gestione dei menzionati rifugi alpini nell'ambito dell'affitto d'azienda ovvero della locazione di immobile, si è in particolare posto l'accento sul rilievo della disposizione secondo cui: «Si ha locazione di immobile, e non affitto di azienda, in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore» (art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985, convertito in l. n. 118/1985). La norma ha posto il problema dell'applicabilità della disciplina in materia di locazione immobiliare ai contratti di gestione concernenti – appunto – i rifugi alpini, con le eventuali conseguenze in punto di durata, indennità per perdita dell'avviamento, prelazione e riscatto: «Indubbiamente, la soluzione del problema va ricercata attraverso un'analisi dell'attività dell'azienda “rifugio” onde determinarne la natura (alberghiera o meno); per cui non può prescindersi dalla definizione della fattispecie. La nozione giuridica di “rifugio alpino” è offerta da una fonte di natura non legislativa, bensì amministrativa: il decreto del commissario per il turismo 29 ottobre 1955, recante “Direttive di carattere generale per l'attuazione del decentramento amministrativo in materia di turismo”. Dall'art. 13 di questo decreto si evince che i “rifugi alpini” devono rispondere alle seguenti caratteristiche: 1) deve trattarsi di “costruzioni isolate in zone montane raggiungibili attraverso sentieri, mulattiere, ghiacciai, morene, ecc., per ricetto di turisti e di escursionisti di montagna”; 2) è necessario che “la costruzione abbia carattere permanente, costituisca valida difesa dal freddo e dall'umidità, sia ubicata in modo da garantire sicuro asilo, abbia ricettività adeguata alla cubatura e risponda comunque a criteri razionali”; 3) se custoditi, devono disporre “di locali destinati ad alloggio per il custode e allo stazionamento delle guide”; 4) se accessibili durante la chiusura invernale, devono disporre “di uno o più locali di fortuna con parti apribili dall'esterno”; 5) infine, occorre che “dispongano di servizi igienici, di rifornimento idrico e di riscaldamento, nonché di conveniente attrezzatura per il conforto, la sosta e il pernottamento di chi vi trova ricetto e siano dotati di una cassetta di medicazione e pronto soccorso”. La definizione che si ricava dal decreto sopra riportato è sicuramente quella tuttora vigente; anzitutto perché richiamata dal d.P.R. n. 1196/1969 (“Estensione a favore dei cittadini della C.E.E. delle norme di cui all'art. 13 del decreto del commissario per il turismo 29 ottobre 1955 sulla disciplina dei rifugi alpini”); inoltre, perché tutte le disposizioni di legge che, in qualche modo, disciplinano o anche solo citano i rifugi alpini, non ne offrono una nozione alternativa. [...] Individuatane la nozione giuridica, va precisato che diamo qui per pacifico che il “rifugio alpino” costituisca “azienda” ai sensi dell'art. 2555 c.c. Ciò che resta da vedere è se, per gli effetti di cui al d.l. n. 12/1985, convertito in legge 5 aprile 1985, n. 118, l'azienda “rifugio” vada considerata azienda alberghiera, ovvero se sia una struttura ricettiva extra-alberghiera, con la conseguente inapplicabilità della normativa locativa ai relativi contratti di gestione» (Desi, 19).

Quest'ultima conclusione è stata condivisa a partire dall'analisi delle pertinenti disposizioni normative: «La l. 21 marzo 1958, n. 326, che disciplina i “complessi ricettivi complementari a carattere turistico-sociale [...] attuati per soddisfare le esigenze del turismo sociale e giovanile”, gestiti da enti o da privati che non abbiano finalità di lucro (potendovisi annoverare il Club Alpino Italiano) non fa alcuna menzione dei rifugi alpini ma, dopo aver definito la nozione di “alberghi od ostelli per la gioventù”, di “campeggi”, di “villaggi turistici”, di “case per ferie” e di “autostelli”, statuisce all'ultimo comma dell'art. 1 che “i complessi ricettivi complementari che non rispondono alle caratteristiche di cui ai precedenti commi sono assoggettati alla disciplina delle aziende alberghiere”. Secondo un criterio residuale, i rifugi alpini sembrerebbero quindi rientrare in quest'ultima definizione. In realtà, altre fonti normative [...] fanno escludere la possibilità di considerare il “rifugio alpino” una sottospecie di azienda alberghiera. Fra queste, la più recente è il d.P.R. n. 616/1977, il quale, all'art. 60 lett. c), stabilisce che sono attribuite ai comuni le funzioni amministrative, già di competenza statale, in materia di “rifugi alpini, campeggi e altri esercizi ricreativi extra-alberghieri”. Da tale dizione pare fuor di dubbio che il “rifugio alpino” va comunque escluso dagli esercizi alberghieri, dovendosi classificare come esercizio ricreativo “extra-alberghiero”. È evidente quindi che, se in base alla legge n. 326 del 1958 i rifugi alpini ben potrebbero ricadere nella disciplina delle aziende alberghiere, con il d.P.R. n. 616/1977 ciò non è possibile» (Desi, 20).

Passando attraverso una dettagliata analisi letterale e sistematica dei testi normativi coinvolti nell'interpretazione si giunge dunque a dire che, «attesa la prevalenza temporale del dettato di cui all'art. 60 d.P.R. n. 616/1977, e visti il d.P.R. n. 918/1957 e la l. n. 326/1968 che pure distinguono fra alberghi e rifugi alpini, questi ultimi debbano senz'altro annoverarsi fra gli “esercizi extra-alberghieri”. Donde l'inapplicabilità del citato d.l. n. 12/1985, che ha preteso di “reinterpretare” i contratti di affitto di azienda alberghiera, riqualificandoli d'imperio come locazione di immobile nel caso in cui l'attività sia stata iniziata dal conduttore. In altre parole, i contratti di gestione stipulati dalle sezioni del Club Alpino Italiano, sono – e restano – contratti di affitto di azienda (Desi, 21).

Dinanzi al dato evidente che taluni rifugi alpini sempre più si presentano, per dimensioni e facilità di accesso, come veri e propri alberghi, merita per altro verso ricordare l'intervento sul tema del Consiglio di Stato, il quale ha osservato che, in mancanza di precisi criteri distintivi desumibili dalla legislazione statale, è da ritenere, quanto alla distinzione tra rifugi alpini ed alberghi (con particolare riferimento all'art. 1 l.r. Trentino-Alto Adige n. 14/1957) che: «L'unico criterio utilizzabile al fine di distinguere le due categorie resta quello quantitativo, desumibile esclusivamente dalla dimensione dell'organizzazione imprenditoriale inerente alla gestione dell'immobile con destinazione ricettiva. Se, pertanto, lo sviluppo turistico della zona sia tale da rendere economicamente conveniente l'ampliamento dei servizi inerenti alle esigenze dell'ospitalità offerta a terzi, il potenziamento delle strutture e delle dotazioni utilizzabili per il miglior impiego del tempo libero, l'allestimento, in definitiva, di una vera e propria organizzazione imprenditoriale avente ad oggetto la fornitura a terzi di tutti i servizi tipici dell'attività alberghiera, non può negarsi il potere della competente autorità amministrativa di procedere ad una nuova valutazione delle originarie condizioni del complesso ricettivo, al fine di accertare se, pur essendo ancora presenti talune delle caratteristiche che inizialmente ne avevano reso possibile una diversa classificazione, non debba tale complesso essere riqualificato come vero e proprio albergo, in consonanza con la maggio r ampiezza assunta dall'organizzazione imprenditoriale e, quindi, anche in relazione al maggio r margine di profitto che l'impresa alberghiera mostri di essere potenzialmente idonea a produrre» (Cons. Stato, n. 481/1982).

L'affermazione del giudice amministrativo non ha trovato d'accordo la dottrina, «poiché prende le mosse da un'asserita mancanza di criteri distintivi tra le due nozioni di albergo e di rifugio alpino; mentre abbiamo visto che la nozione di “rifugio” è senz'altro ricavabile dal d.a.c.t. 29 ottobre 1955, e per la sua estrema peculiarità non consente certo confusione con qualsiasi accezione possibile di “albergo”. Ma soprattutto, perché è alle dimensioni fisico-morfologiche del rifugio e all'ambiente in cui è inserito che deve farsi riferimento, non alle dimensioni organizzative dell'attività che vi viene svolta e al suo margine di profitto. Diversamente, si avrebbe il paradossale risultato – e si perdoni la grossolanità dell'esempio – che un rifugio montano, solo perché ben frequentato e provvisto di un moderno impianto di cucina e di un computer per l'amministrazione, debba considerarsi azienda alberghiera, e una modesta e sguarnita locanda di paese invece no. Pertanto, ci sentiamo di poter concludere che, anche indipendentemente dalle dimensioni strutturali dell'attività imprenditoriale svoltavi, l'impresa “rifugio alpino” – sempreché naturalmente quest'ultimo risponda alle caratteristiche di cui al citato decreto – non possa in alcun caso ascriversi giuridicamente al genus dell'albergo. Quindi con la conseguenza, che ancora rimarchiamo, dell'inapplicabilità della normativa locativa ai relativi contratti di affitto aziendale (Desi, 21).

Attività alberghiere

Ancora in tema di attività a tutela piena, le attività alberghiere sono espressamente contemplate dall'art. 27 l. n. 392/1978, il quale stabilisce che: «La durata della locazione non può essere inferiore a nove anni se l'immobile, anche se ammobiliato, è adibito ad attività alberghiere» (comma 4).

La menzione della locazione di immobile con destinazione alberghiera, «anche se ammobiliato» ha inizialmente suggerito l'ipotesi che il legislatore avesse inteso escludere la configurabilità dell'affitto di azienda alberghiera, ma la Suprema Corte si è mostrata subito di diverso avviso, affermando che: «Le disposizioni dettate dalla l. n. 392/1978, con riguardo alla locazione di immobile adibito ad attività alberghiera, ivi compresa quella di cui all'art. 27 in tema di durata del rapporto, non sono invocabili con riguardo al diverso caso dell'affitto di azienda alberghiera, il quale ricorre quando il contratto abbia ad oggetto non la concessione del godimento di un bene immobile, ancorché corredato da pertinenze ed accessori in relazione alla suddetta destinazione, bensì il complesso unitario di tutti i beni, mobili ed immobili, materiali ed immateriali, unitariamente organizzati per l'esercizio dell'impresa alberghiera» (Cass. III, n. 1527/1982). L'erroneità della diversa opinione prospettata, secondo la Suprema Corte, è infatti resa manifesta dalla considerazione secondo cui nell'azienda, intesa come complesso di beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, «sono inclusi concettualmente e giuridicamente anche rapporti contrattuali di vario genere e quindi anche i contratti di locazione che afferiscono alla struttura o alla gestione aziendale: sarebbe erroneo, dunque, oltre che ingiustificatamente restrittivo, identificare la nozione di azienda alberghiera con il solo contratto di locazione dell'immobile, ancorché ammobiliato» (Cass. III, n. 1527/1982).

In tale prospettiva, dunque, l'affitto di azienda alberghiera rimane sottratto alla tutela complessivamente apprestata dalla legge in caso di locazione. E, quanto alla distinzione tra l'una e l'altra figura, la giurisprudenza ha riproposto argomenti consolidati, osservando – la massima che segue è conforme a molte – che: «La locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall'affitto di azienda, nella specie, alberghiera, perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – l'immobile concesso in godimento – che assume una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell'economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi che, legati materialmente o meno ad esso, assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione, mentre, nell'affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni, mobili ed immobili, legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all'art. 2555 c.c.» (Cass. III, n. 7361/1997; da ultimo, nello stesso senso, v. Cass. III, n. 16138/2010).

Così – sulla scorta, tra le altre, di Cass. III, n. 1498/1984; Cass. III, n. 5787/1995 – la Suprema Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza del giudice di merito che, premessa la non decisività del mero tenore letterale del contratto, ne aveva escluso il carattere di affitto di azienda, qualificandolo come locazione, in considerazione: 1) del rinvio contrattuale ad una serie di norme dettate per la locazione; 2) dell'esistenza di una comunicazione extracontrattuale, successivamente intervenuta, nella quale si faceva riferimento «al punto 6 del contratto di locazione» ed alla contemporanea cessione, con l'azienda, del «contratto di locazione»; 3) delle molteplici intimazioni di sfratto per finita locazione da parte del concedente; 4) del richiamo contenuto in una ricevuta del canone alla esenzione Iva sancita per le locazioni di immobili, ma non per gli affitti di azienda.

Sicché, una volta ammessa la permanente validità della distinzione tra locazione di immobile con destinazione alberghiera ed affitto di azienda alberghiera, vi è stato chi – nonostante l'opposta opinione manifestata da Cass. III, n. 1076/1981, poi ribadita da Cass. III, n. 226/1987 – ha ritenuto non manifestamente infondata, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, comma 3, l. n. 392/1978 nella parte in cui contempla la locazione di immobili, anche se ammobiliati, adibiti ad attività alberghiera, e non pure l'ipotesi dell'affitto di azienda alberghiera (App. Bologna 20 marzo 1981; Pret. Montefiascone 4 dicembre 1981; Trib. Forlì 7 gennaio 1982).

Riassumendo, si può dire che il dubbio di costituzionalità avanzato nelle menzionate pronunce non discende dalla negazione dell'astratta configurabilità di una distinzione tra locazione di immobile con destinazione alberghiera ed affitto di azienda alberghiera, quanto dall'osservazione che tale distinzione si mostra in concreto del tutto marginale, fino a sfumare: di modo che, secondo i sostenitori della tesi dell'incostituzionalità, il deteriore trattamento riservato, rispetto alla locazione di albergo, all'affitto d'azienda alberghiera – nell'ambito del quale l'affittuario non gode di alcuna garanzia di durata, né degli ulteriori istituti posti a tutela del conduttore dalla legge dell'equo canone – determinerebbe una disparità di trattamento rilevante quale violazione dell'art. 3 Cost.

La questione di costituzionalità, come proposta nelle ordinanze di rimessione poc'anzi elencate, non è stata sciolta dal giudice delle leggi, il quale ha disposto la restituzione degli atti ai giudici a quibus ponendo l'accento sull'intervenuta modificazione del quadro normativo e, dunque, considerando: «Che per l'analogia delle questioni i giudizi debbono essere riuniti; che nelle more di essi è sopravvenuto il d.l. n. 12/1985, il cui art. 1, nel comma 9-septies introdotto dalla legge di conversione 5 aprile 1985, n. 118, dispone: “Si ha locazione di immobile, e non affitto di azienda, in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia iniziata dal conduttore”; mentre il comma 9-octies prevede che la norma ora riportata “si applica comunque a tutti i rapporti di locazione alberghiera in atto all'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”; che pertanto è necessario che i giudici a quibus procedano ad un nuovo esame delle questioni alla stregua delle citate, nuove disposizioni di legge, onde valutare se persista la rilevanza delle questioni stesse nei giudizi in corso davanti a loro» (Corte cost. n. 223/1985).

La disposizione ricordata dalla Corte costituzionale – posta parimenti a fondamento della analoga Corte cost. n. 103/1987 – ha dunque per un verso lasciato intatta la distinzione concettuale tra locazione di immobile con destinazione alberghiera ed affitto di azienda alberghiera, ma ha per altro verso sensibilmente ristretto l'ambito di applicazione di quest'ultima figura, la quale in tanto può ormai presentarsi, in quanto l'attività alberghiera, al momento della stipulazione del contratto, sia già iniziata. Da un canto, dunque, quando risulti che l'attività alberghiera sia stata iniziata dal locatore o da un terzo, il giudice può accertare se si è in presenza di contratto di locazione o affitto di azienda, giudicando caso per caso (Cass. III, n. 6749/1993) in applicazione dei consueti principi prima ricordati. Ma, d'altro canto, a seguito della ricordata innovazione normativa: «Se indipendentemente dall'intenzione delle parti e dalla obbiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto, l'attività del conduttore e l'organizzazione dei beni che costituiscono l'azienda, coincidono con la prima destinazione dell'immobile all'esercizio della attività alberghiera, ai sensi dell'art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985 – convertito in l. n. 118/1985 – si presume, iuris et de iure, la natura locativa del rapporto, con conseguente applicabilità della relativa disciplina» (Cass. III, n. 9871/1997).

La pronuncia – conforme alla di poco precedente Cass. III, n. 7361/1997 – sintetizza i termini della questione e richiama alcuni precedenti meritevoli di attenzione: «La presunzione iuris et de iure della natura locativa del rapporto, prevista dall'art. 1, comma 9-septies, del d.l. 7 febbraio 1985, n. 12, convertito con modificazioni nella l. n. 118/1985, opera quando l'attività alberghiera del conduttore, con la correlativa organizzazione dei beni materiali ed immateriali che formano l'azienda, coincida con la prima destinazione dell'immobile all'esercizio dell'attività alberghiera (Cass. III, n. 5817/1994; Cass. III, n. 6749/1993; Cass. III, n. 1154/1992), a prescindere dall'intenzione delle parti e dall'obiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto (cfr. Cass. III, n. 30/1991; Cass. III, n. 7253/1991). La Corte Costituzionale (con sentenze Corte cost. n. 108/1986, e Corte cost. n. 294/1994) ha chiarito che l'intervento del legislatore ha mirato a dirimere le incertezze ermeneutiche relative al criterio discriminatore, in tema di attività alberghiera, tra locazione di immobile, alla quale si applica la l. n. 392/1978, ed affitto di azienda, cui la detta legge non è applicabile. è rimasta così superata la nozione puramente statica dell'azienda, che ha indotto la giurisprudenza a sottrarre al regime vincolistico il rapporto relativo ad immobile attrezzato in modo da formare con gli elementi accessori un complesso coordinato allo scopo produttivo di un servizio alberghiero, realizzabile in tempi successivi alla conclusione del contratto. Fuori dall'ambito di operatività delle disposizioni della l. n. 12/1985, per stabilire se a cessione in godimento di un locale adibito all'esercizio di un'impresa commerciale integra locazione di immobile munito di pertinenza o affitto di azienda occorre verificare se sia oggetto del contratto l'immobile inteso come entità non produttiva, pur se dotato di accessori, ovvero una più vasta ed organica entità, capace di vita economica propria, di cui l'immobile costituisce una componente, sia pure principale, legata da un rapporto di conseguenzialità e dipendenza con gli altri elementi aziendali (Cass. III, n. 11054/1993; Cass. III, n. 3442/1981)» (Cass. III, n. 9871/1997).

La decisione appena trascritta offre altresì lo spunto per richiamare due interventi resi sulla materia dalla Corte costituzionale, la quale, in un primo tempo, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di altre disposizioni, si è soffermata anche su quella – l'art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985, convertito in l. n. 118/1985 – ora in esame: «La pronuncia di illegittimità costituzionale non si estende ai commi 9.-sexies, septies et octies del citato art. 1, in quanto essi contengono disposizioni che non si riferiscono affatto alle innovazioni dallo stesso apportate ma concernono la regolamentazione ordinaria della locazione di immobili urbani per uso non abitativo. Precisamente con il primo dei commi ora detti sono disciplinate diversamente le modalità di revisione del canone, in sostituzione di quelle previste dall'art. 32 della l. n. 392/1978, mentre con gli altri due il legislatore ha inteso eliminare le incertezze ermeneutiche relative al criterio discriminatore, in tema di attività alberghiera, tra locazione di immobile, al quale si applica la ricordata l. n. 392/1978, e affitto di azienda, a cui invece detta disciplina non sarebbe riferibile (sul punto, com'è noto, è stata peraltro eccepita da vari giudici una ingiustificata disparità di trattamento): e ha fornito la definizione dei due tipi contrattuali, statuendo che: “Si ha locazione di immobile e non affitto di azienda, in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore”. Tale norma, insieme a quella del comma 9-octies, che detta la disciplina transitoria della medesima materia, è chiaramente estranea all'oggetto di questo giudizio e pertanto non rimane coinvolta nella presente pronuncia» (Corte cost. n. 108/1986).

Come lo stesso giudice delle leggi ha ricordato, vari giudici di merito avevano denunciato una ingiustificata disparità di trattamento tra locazione di immobile con destinazione alberghiera ed affitto di azienda alberghiera. I dubbi di costituzionalità, avanzati in giurisprudenza, non si sono definitivamente diradati, e dunque la Corte costituzionale è stata nuovamente chiamata ad intervenire sulla materia, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, comma 3, l. n. 392/1978, nella parte in cui, nel fissare in nove anni la durata minima della locazione di immobile adibito ad attività alberghiera, esclude dal proprio ambito di applicabilità l'ipotesi dell'affitto di azienda destinata a identica attività, in riferimento all'art. 3 Cost.: «Che la locazione di immobile, anche se “attrezzato”, e l'affitto di azienda siano rapporti giuridici non assimilabili costituisce ius receptum, condiviso dallo stesso giudice rimettente. Ed invero la giurisprudenza ha sempre affermato che nell'affitto d'azienda l'immobile viene in considerazione non nella sua individualità giuridica ma come uno dei beni che costituiscono il complesso aziendale, in un rapporto di complementarità e interdipendenza con gli altri elementi organizzati dall'imprenditore per un fine produttivo; mentre nella locazione di immobile, questo, anche se caratterizzato dal fatto che il suo godimento deve avvenire per un uso determinato, costituisce l'oggetto esclusivo o quanto meno principale del contratto, con la conseguenza che le eventuali attrezzature di cui l'immobile fosse dotato costituiscono elementi accessori rispetto all'immobile stesso, considerato nella sua autonoma consistenza. 3. – Sul presupposto di siffatta diversità strutturale e funzionale fra i due rapporti poggia il riconoscimento, già espresso da questa Corte (ord. n. 384/1988), della legittimità costituzionale di trattamenti normativi correlativamente differenziati, in guisa da risultare coerenti con le reciproche peculiarità delle situazioni poste a raffronto. A ciò aggiungasi che l'art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985 (recante disposizioni in favore delle aree ad alta tensione abitativa), convertito, con modificazioni, nella l. n. 118/1985, ha poi contribuito a dissipare i dubbi da più parti precedentemente espressi in ordine a un'asserita irragionevole disparità di trattamento dei due rapporti in esame. Il legislatore del 1985, infatti, con lo stabilire che “si ha locazione di immobile e non affitto di azienda, in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore”, è intervenuto al fine di «eliminare le incertezze ermeneutiche relative al criterio discriminatore» fra i due tipi contrattuali (v. sent. 108/1986), non assoggettabili, per eterogeneità, a identica disciplina. Rimane in tal modo escluso che si possa recepire, ai fini di cui alla norma impugnata, una nozione puramente statica dell'azienda, in virtù della quale la giurisprudenza era pervenuta più volte ad escludere dal regime vincolistico il rapporto avente ad oggetto un immobile così attrezzato da formare con gli elementi accessori un complesso coordinato allo scopo produttivo d'un servizio alberghiero, anche se realizzabile solo in tempi successivi alla conclusione del contratto. È quindi divenuta possibile (e netta), attraverso la previsione d'una presunzione iuris et de iure, la sola alternativa fra locazione d'un immobile comunque attrezzato ed affitto di un'azienda intesa rigorosamente nella sua nozione dinamica: così restando relegata nell'ambito della prima, quella dubbia figura di opificio industriale non ancora gestito dal concedente, che dottrina e giurisprudenza avevano elaborato ai fini di cui sopra (Corte cost., n. 294/1994).

In tal modo, la Corte Costituzionale ha posto in rilievo la reciproca autonomia formale dei due istituti giuridici – locazione di immobile e affitto d'azienda – e la loro alterità sia strutturale che funzionale, traendone la naturale conseguenza che l'affinità dei medesimi «non impone affatto un identico trattamento normativo di tutti gli svolgimenti e le implicazioni dei rapporti ad essi, rispettivamente, riconducibili. Né il richiamo ad esigenze comuni (come già è stato precisato con le sentenze Corte cost. n. 68/1983; Corte cost. n. 73/1979, e Corte cost. n. 209/1975) è premessa idonea per inferirne che ogni differenza di regolamentazione incidente sul soddisfacimento di tali esigenze si risolva in una violazione dell'art. 3 Cost.: a tal fine richiedendosi, per contro, la sussistenza di una palese irrazionalità delle divergenti discipline confrontate. Vizio, dal quale resta immune la disposizione censurata» (Corte cost., n. 294/1994).

Anzi – ha osservato il giudice delle leggi – la differente disciplina normativa riservata all'affitto di azienda trova una ragionevole giustificazione «nell'esigenza di evitare, con la protrazione coattiva del rapporto, lo sfruttamento dell'azienda in danno del proprietario ed eventualmente della produzione nazionale, come del resto la Corte di Cassazione ha ripetutamente rilevato. Una maggiore duttilità nella durata costituisce difatti strumento indispensabile per scongiurare l'eventualità che il coacervo dei beni aziendali resti troppo a lungo vincolato ad un affittuario, il quale potrebbe non dare sufficienti garanzie di idonea gestione, con danno sia all'impresa sia all'economia turistica locale. E poiché non è certamente secondario l'interesse pubblico che a quest'ultima si ricollega, nel conflitto fra siffatto interesse e quello dell'affittuario alla continuazione del rapporto appare dunque giustificata la scelta fatta dal legislatore di accordare preferenza al primo, rendendo l'affitto d'azienda insensibile a quegli stessi vincoli di durata che riguardano il caso in cui oggetto del rapporto sia non un complesso organizzato di beni ma un immobile in se e per se considerato» (Corte cost. n. 294/1994; nel senso della manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità concernenti la mancata estensione all'affitto di azienda, in genere, della disciplina in tema di locazioni di immobili urbani ad uso commerciale e artigianale, in considerazione della diversità strutturale e funzionale tra i due rapporti, v. pure Corte cost. n. 384/1988).

Vale rammentare, poi, che la presunzione iuris et de iure posta dall'art. 1, comma 9-septies, già ricordato, trova applicazione non solo quando la prima destinazione dell'immobile all'esercizio dell'impresa alberghiera sia avvenuta ad opera del conduttore, ma anche qualora quest'ultimo abbia ricostituito ex novo nell'immobile, a distanza di tempo, un'azienda alberghiera, dopo che quella iniziata negli stessi locali dal locatore (o da terzi) si era completamente dissolta, con dispersione di tutti i suoi elementi costitutivi e, in primo luogo, dell'avviamento» (Cass. III, n. 10767/1999; Cass. III, n. 6088/2001).

Viceversa, una volta cessato l'originario rapporto, con conseguente riacquisto della disponibilità dell'azienda nel suo complesso da parte dell'avente diritto, la conclusione di un altro contratto, avente il medesimo contenuto e lo stesso oggetto di quello precedentemente risolto, non integra altra locazione d'immobile a destinazione alberghiera, ma consiste in un affitto di azienda in tutte quelle ipotesi in cui, pur nell'eventuale mutata consistenza dell'originario complesso aziendale, il valore aggiunto dell'avviamento continui ad essere la conseguenza dell'attività d'impresa del primo conduttore. In tal senso – secondo un'impostazione accolta anche da Cass. III, n. 7500/2007 – si è affermato: «La norma dell'art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985, convertito con modificazioni dalla l. n. 118/1985, non coinvolta dalla dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 108/1986 della Corte Costituzionale, equipara in toto alla locazione imprenditoriale il contratto di affitto di azienda alberghiera in tutti i casi in cui la relativa attività sia stata iniziata dal soggetto cui è stato concesso in godimento un complesso immobiliare, compiutamente attrezzato ed organizzato nonché potenzialmente idoneo all'esercizio di albergo. La norma – che pone una presunzione assoluta di riconducibilità al tipo della locazione alberghiera dell'affitto di azienda alberghiera nel caso in cui l'originario impulso produttivo, secondo detta destinazione, sia stato impresso per la prima volta dal concessionario del godimento – si riferisce a tutti i rapporti in corso al momento della sua entrata in vigore (Cass. III, n. 30/1991) ed è intervenuta a dare un più preciso contenuto al disposto dell'art. 27, comma 3, della l. n. 392/1978, che considerava già come locazione di immobile destinato ad attività alberghiera la concessione in godimento del bene “anche se ammobiliato”, secondo espressione intesa dagli autori come diretta ad evitare elusioni della disciplina locatizia nell'apparente affitto di azienda di un locale ammobiliato per albergo ed interpretata dalla giurisprudenza (Cass. III, n. 4491/1984) nel senso che l'attrezzatura, di cui l'immobile era fornita, doveva considerarsi solo in funzione accessoria rispetto all'immobile medesimo, che, nella sua autonoma consistenza, continuava ad essere l'oggetto prevalente del contratto. La presunzione di riconducibilità alla locazione alberghiera riflette, tuttavia, il solo caso in cui il titolare di una azienda alberghiera questa abbia affittato per la prima volta, sicché l'attività alberghiera venga ad essere svolta inizialmente solo da tale momento da parte del concessionario del godimento. La norma dell'art. 1, comma 9-septies, infatti, nella previsione secondo cui “si ha locazione di immobile e non affitto di azienda in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore”, è di facile lettura, nel senso che il “conduttore” cui essa fa riferimento non può che essere il “primo” affittuario dell'azienda. Con la conseguenza che il rapporto dovrà essere regolato quale locazione alberghiera, secondo la disciplina della legge sull'equo canone (durata, rinnovazione alla prima ed alle successive scadenze, indennità per l'avviamento commerciale, prelazione ecc.), sino a quando esso continui senza interruzioni con l'originario contraente (ovvero con altri soggetti in veste di conduttori, quali aventi causa dal primo, in virtù di vicende traslative, che presuppongano la attuale efficacia dell'originario contratto, quali cessione della locazione, sublocazione, successione in tutti i casi previsti dall'art. 37 l. n. 392/1978). A seguito, però della cessazione dell'originario rapporto con la conseguente riacquistata disponibilità dell'azienda nel suo complesso da parte dell'avente diritto, la stipulazione ad opera di costui di altro contratto, avente il medesimo contenuto e lo stesso oggetto di quello precedente risolto, non potrà integrare altra locazione di immobile a destinazione alberghiera, ma dovrà necessariamente consistere in un affitto di azienda in tutte quelle ipotesi in cui, pur nella eventuale mutata consistenza dell'originario complesso aziendale, di esso l'acquistato valore aggiunto dell'avviamento continui ad essere la conseguenza della attività di impresa del primo conduttore» (Cass. III, n. 330/2001).

La presunzione in discorso, naturalmente, non opera allorché l'affittuario, per obbligo contrattuale o, comunque, con il consenso del locatore, si sia limitato ad apportare miglioramenti od abbia contribuito, in qualsiasi modo, all'incremento dell'azienda alberghiera (Cass. III, n. 7066/1993).

Sempre in tema di applicabilità della presunzione posta dall'art. 1, comma 9-septies, più volte citato, occorre rammentare che il mancato rilascio della licenza per l'esercizio di un'attività alberghiera non incide sulla validità ed efficacia dell'affitto della relativa azienda da parte del titolare di essa. Dunque, in caso di affitto di un'azienda alberghiera mancante della licenza, la menzionata disposizione è inapplicabile: «Occorre premettere che il contratto di affitto di azienda è valido ed efficace indipendentemente dal requisito della titolarità della licenza di esercizio da parte del concedente il quale non costituisce neppure una condicio iuris, del suddetto negozio. Il difetto di titolarità della licenza può rilevare solo in quanto esso possa incidere negativamente sul rilascio di licenza a nome dell'affittuario e sulla conseguente possibilità da parte sua di una legittima utilizzazione dell'azienda mediante esercizio della correlativa impresa» (Cass. III, n. 5532/1997).

Come puntualizzato dalla giurisprudenza, inoltre, per effetto della previsione dell'art. 1, comma 9-octies, d.l. n. 12/1985, convertito in l. n. 118/1985, il precedente comma della medesima disposizione – ossia il più volte citato comma 9-septies – si applica anche ai rapporti precedentemente costituiti, se in atto, pure solo sul piano fattuale, alla data di entrata in vigore della legge di conversione, ossia al 24 aprile 1985.

Per tali rapporti, pertanto, la questione della ricorrenza dell'una o dell'altra ipotesi contrattuale va risolta nel senso della locazione, a prescindere da ogni indagine sull'intenzione delle parti contraenti o sull'obiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto (Cass. III, n. 30/1991; il principio è stato ribadito da Cass. III, n. 7253/1991).

Ulteriori approfondimenti, in tema di locazione alberghiera, vanno svolti in riferimento all'art. 2112 c.c., il quale, sotto l'attuale rubrica «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda», stabilisce che: «In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. [...]. Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

Perciò, nel caso che il rapporto instaurato tra le parti debba essere di necessità qualificato come locazione, per essere stata iniziata l'attività alberghiera dal conduttore (e ciò in applicazione dell'art. 1, comma 9-septies, d.l. n. 12/1985, convertito in l. n. 118/1985) sorge il problema se, alla cessazione della locazione, con conseguente rilascio dell'immobile locato in favore del locatore, il congegno di tutela dei lavoratori impiegati nell'azienda alberghiera possa trovare applicazione. In proposito, la Suprema Corte ha affermato che il citato art., comma 9-septies, non esclude che la cessazione della locazione dell'immobile utilizzato dal conduttore per l'avvio di un'attività alberghiera – cessazione dovuta all'intento del locatore di svolgere in proprio la stessa attività – possa integrare l'ipotesi del trasferimento di azienda allorché il proprietario-locatore subentri nella gestione dell'albergo, ferma restando l'organizzazione del complesso dei beni destinati all'esercizio dell'impresa (Cass. III, n. 11880/1998).

Attività teatrali

L'art. 7, comma 1, lett. a), l. n. 9/2007, ha modificato il comma 3 (comma successivamente sostituito dall'art. 52 d.lgs. n. 79/2011) dell'art. 27 in commento, estendendo la durata novennale contemplata per la locazione di immobili, anche se ammobiliati, adibiti all'esercizio di attività alberghiera, agli immobili adibiti «all'esercizio di attività teatrali».

Si tratta – come è stato osservato (Lazzaro, Preden, 73) – di una novità che apre una serie di problemi interessanti sul piano della sistematica (anche se, forse, non aventi una grande incidenza sul piano pratico, considerato il numero senz'altro non elevato dei relativi contratti). La norma ha difatti trasbordato nel settore «non abitativo» la locazione di immobile, anche ammobiliato, adibito ad attività teatrali, mentre il successivo art. 28, con il richiamo al comma, modificato, ha sottoposto detto contratto al congegno della rinnovazione di nove anni in nove anni.

Si è precisato che oggetto della locazione può essere un teatro, cioè un edificio appositamente progettato e costruito per essere adibito alla rappresentazione di spettacoli, opere drammatiche, musicali, di varietà, balletto eccetera. Se tali spettacoli sono offerti al pubblico in maniera generalizzata (o anche riservata a determinate categorie) dietro pagamento di un corrispettivo, l'attività svolta dall'imprenditore teatrale è certamente di natura commerciale, e rientra nella previsione del n. 1) del comma 1 dell'art. 27 l. n. 392/1978, beneficiando così delle norme poste a tutela dell'avviamento, quanto alla relativa indennità e al diritto di prelazione. Qualora il godimento concesso coinvolga oltre il locale, le attrezzature per lo svolgimento dell'attività, occorre stabilire in base alla comune intenzione, come la Suprema Corte ha avuto occasione di avvertire proprio in fattispecie concernente un cinema-teatro (Cass. III, n. 1223/1959; Cass. III, n. 6361/1981), se le parti abbiano stipulato una locazione dell'immobile con pertinenze oppure un affitto d'azienda teatrale e cioè se tali attrezzature (poltrone, sipario, impianto elettrico, licenza di esercizio, personale vario) siano oggettivamente destinate, nella loro inscindibile unità, all'esercizio di un'impresa ovvero costituiscano altrettante singole unità, di fronte alle quali il godimento dell'immobile viene a rappresentare l'elemento essenziale ed assorbente dell'economia oggettiva e soggettiva del contratto (qualificandosi il contratto come locazione di immobile ammobiliato da adibire a teatro).

Si è aggiunto che la collocazione sullo stesso piano dell'attività alberghiera e dell'attività teatrale porta poi a credere che trovi applicazione anche con riguardo a quest'ultima il disposto del comma 9-septies, dell'art. 1 della l. 5 aprile 1985, n. 118, per il quale, come si è già avuto modo di vedere: «Si ha locazione di immobile e non affitto d'azienda in tutti i casi in cui l'attività [...] sia stata iniziata dal conduttore» (Lazzaro, Preden, 73).

Peraltro, un locale può essere preso in locazione per essere adibito da un gruppo di persone, a mero scopo amatoriale e senza fine di lucro, ad attività teatrale: il relativo contratto, prima della riforma della quale si discorre, sarebbe stato ricondotto tra le locazioni di immobili adibiti ad «attività ricreativa» (e disciplinato dall'art. 42 l. n. 392/1978). Qualora, invece, il locale fosse adibito all'insegnamento di discipline afferenti alla recitazione, al canto, al balletto, eccetera da parte di chi esercitava in tal senso una attività di docente di tali materie, l'attività ivi svolta sarebbe stata da reputare «scolastica» ovvero «commerciale» (con la conseguente applicabilità delle rispettive discipline di cui agli artt. 42 o art. 27 l. n. 392/1978), a seconda della presenza o meno del fine di lucro (Cass. III, n. 4487/1994).

La disposizione in parola si colloca in armonia con la ratio posta a sostegno della l. n. 392/1978, in quanto individua una specifica attività ritenuta significativa e modella su di essa la disciplina applicabile. Occorre ancora sottolineare che la nozione di attività teatrale possiede uno spettro amplissimo in quanto l'aggettivo teatrale, adoperato dalla norma, ricomprende tutto ciò che è relativo al teatro, alla sua vita e alle sue manifestazioni, sia dal punto di vista artistico che tecnico». Ne discende, come è stato pure osservato (Scarpa, 103), che la locazione teatrale ricorre «anche quando il rapporto sia relativo a immobili non direttamente destinati agli spettacoli e, dunque, all'accesso al pubblico, purché si tratti di locali la cui utilizzazione sia funzionalmente connessa all'esercizio dell'attività teatrale».

Rileva al riguardo anche dalla definizione che si rinviene nel d.m. 21 dicembre 2005 del Ministro per i beni e le attività culturali, che discorre di «immobile costituito da una o più sale idonee alla rappresentazione in pubblico di spettacoli di teatro, commedia musicale e operetta, ovvero comunque da utilizzare per lo svolgimento di attività di produzione, distribuzione, esercizio, laboratorio, promozione, rassegne e festival». È da credere, allora, che, ad esempio, rientrano nei contratti in questione quello avente ad oggetto un magazzino prossimo ad un teatro nel quale vengano conservati costumi da utilizzare nei vari spettacoli o macchinari necessari in talune rappresentazioni per realizzare le scene; quello dove sono situati i dei teatri di posa, per approntare determinate scene, ecc. (così ancora Lazzaro, Preden, 73).

Locazione di immobile e affitto d'azienda

Concluso l'esame delle attività a tutela piena, come enumerate dall'art. 27 l. n. 392/1978, occorre interrogarsi sull'ipotesi che la pattuizione, in ragione della consistenza del suo oggetto e della volontà delle parti, rimanga sottratta alla disciplina locatizia, per assumere i connotati dell'affitto di azienda.

Il tema della distinzione tra le due figure richiede di muovere dalla nozione di affitto, che trova la sua definizione nell'art. 1615 c.c., il quale stabilisce: «Quando la locazione ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile, l'affittuario deve curarne la gestione in conformità della destinazione economica della cosa e dell'interesse della produzione. A lui spettano i frutti e le altre utilità della cosa».

La distinzione tra locazione e affitto è tradizionalmente ancorata dalla Suprema Corte ad una duplice valutazione, condotta tanto sull'aspetto oggettivo, quanto sull'aspetto soggettivo del rapporto. Per aversi affitto, cioè, occorre, sotto il primo aspetto, che l'oggetto della concessione di godimento sia dotato di attitudine produttiva, mentre, sotto il secondo aspetto, si richiede che le parti abbiano considerato l'oggetto del rapporto in funzione del suo scopo produttivo. In tal senso, tra le molte decisioni conformi, si trova ribadito che: «Il criterio di distinzione tra contratto di affitto e contratto di locazione è oggettivo e soggettivo ad un tempo, nel senso che, perché si configuri un contratto di affitto è necessario non solo che il contratto abbia ad oggetto una cosa produttiva, ma anche che la disponibilità del bene sia concessa al fine di consentire all'affittuario la gestione produttiva dello stesso» (Cass. III, n. 592/1995; da ultimo, nello stesso senso, Cass. III, n. 1375/2012).

Ancorché l'affitto abbia per definizione ad oggetto una qualsiasi cosa produttiva immobile o mobile – quale può essere, ad esempio, anche soltanto un capo di bestiame –, non v'è dubbio che, dal punto di vista pratico, l'ipotesi maggiormente rilevante di affitto, accanto a quello di fondo rustico, regolato dalla legislazione speciale, sia proprio l'affitto d'azienda: la quale è definita dall'art. 2555 c.c. come complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.

La questione della distinzione della locazione dall'affitto di azienda, poi, sorge perché la locazione ben può avere ad oggetto il godimento di un immobile unito ad un complesso di accessori o pertinenze. In talune ipotesi, tale circostanza non influisce sulla natura locativa del contratto, pur potendo modificarne la disciplina giuridica. È il caso delle locazioni ad uso abitativo di case mobiliate: la locazione rimane tale, ma viene assoggettata a regole in parte peculiari. In passato, ad esempio, l'art. 12 l. n. 392/1978 consentiva di maggio rare il corrispettivo legalmente dovuto fino al 30%, mentre la possibilità della maggio razione, nel quadro della vigente legge sulle locazioni abitative, è oggi contemplata dal decreto ministeriale previsto dall'art. 2 l. n. 431/1998 (art. 1, comma 4, d.m. 30 dicembre 2002).

In altre ipotesi, invece, la concessione in godimento di un immobile dotato di accessori e pertinenze – un locale adibito a ristorante e fornito della cucina e degli arredi; un locale adibito ad officina meccanica e provvisto di un ponte e del banco degli attrezzi – può determinare, secondo i casi, il sorgere di una locazione immobiliare oppure – appunto – di un affitto di azienda.

Si perviene allora ad affrontare il quesito attinente all'individuazione del criterio distintivo della locazione di immobile con accessori o pertinenze dall'affitto di azienda, criterio di grande interesse, giacché, mentre la locazione di immobile trova la sua disciplina all'interno del paradigma legale ed entro i vincoli dettati dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978, l'affitto d'azienda è tradizionalmente sottratto a quel paradigma, sicché la regolamentazione del rapporto – con riguardo alla durata, al corrispettivo, all'aggiornamento del medesimo e ad ogni altro aspetto – è integralmente rimessa alla volontà delle parti, senza alcun limite all'autonomia negoziale.

Né siffatta diversità di trattamento può legittimamente suscitare dubbi di costituzionalità, come la Suprema Corte ha in più occasioni sottolineato nell'affermare – sulla scorta di Cass. III, n. 6361/1981, e, per le locazioni alberghiere, di Cass. III, n. 1076/1981 – che le disposizioni di favore del conduttore ad uso non abitativo «manifestamente non si pongono in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., giustificandosi la difformità di trattamento con il rilievo che l'azienda costituisce un'entità complessa di beni destinata all'esercizio di un'impresa, con caratteristiche ed esigenze di natura economica, sociale e giuridica nettamente distinte da quelle di un immobile destinato ad attività commerciali» (Cass. III, n. 2138/1989).

Le decisioni sul tema ricalcano il principio poc'anzi formulato, in generale, con riguardo alla figura dell'affitto, secondo cui, al fine di accertare se ricorra locazione di immobile o affitto di azienda occorre procedere ad una duplice indagine, interpretando, da un lato, la comune intenzione delle parti, e dall'altro, prestando attenzione alla obiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto (Cass. III, n. 14647/2002; Cass. III, n. 3627/1996).

Accanto alle pronunce appena menzionate, ve ne è un gruppo consistente che ribadisce il medesimo principio, con il quale si indirizza il giudice alla duplice analisi della pattuizione nel suo aspetto soggettivo ed oggettivo, evidenziando in particolare – analogamente, tra le altre, a Cass. III, n. 13683/2007; Cass. III, n. 3392/2001; Cass. III, n. 1243/2000 – che, nella locazione di immobile, esso costituisce l'oggetto principale della pattuizione, mentre, nell'affitto di azienda, è considerato come parte di un tutto: «La differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto di azienda consiste nel fatto che, nella prima ipotesi l'immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell'economia del contratto, come l'oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all'immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all'immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione; nell'affitto di azienda, invece, l'immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l'oggetto del contratto è costituito dall'anzidetto complesso unitario» (Cass. III, n. 9354/2002).

Nella pratica, risultano assai frequenti le controversie in punto di qualificazione giuridica del rapporto, generalmente inteso dal concedente quale affitto d'azienda e dal concessionario quale locazione di immobile. Si può muovere dalla constatazione che la qualificazione giuridica del rapporto richiede, in ogni caso, una valutazione complessiva degli elementi in gioco, sicché un singolo aspetto non può di regola essere decisivo ai fini dell'opzione per l'una o per l'altra figura. Perciò, ad esempio, il riferimento alla indicizzazione del canone non è sufficiente a conferire al rapporto natura locatizia, rientrando nella libera determinazione delle parti la possibilità di applicazione di alcune norme della legge dell'«equo canone» anche a fattispecie ad essa estranee, come l'affitto di azienda (Cass. III, n. 7730/1994). L'adozione, per contratto, di un criterio di aggiornamento del canone analogo a quello previsto dall'art. 32 l. n. 392/1978 – 75% della variazione Istat dell'anno precedente – non ha dunque rilievo decisivo ai fini della distinzione, sicché esso non fa stato sulla natura del rapporto neppure se recepito in una sentenza passata in giudicato (Cass. III, n. 12084/1998).

L'attitudine produttiva del compendio concesso in godimento, poi, va valutata in concreto, in relazione alle peculiarità del caso. Nel caso di un bar interno ad un ministero, conferito in gestione ad un privato dal circolo ricreativo fra i dipendenti del medesimo, è stato appunto chiarito che tale attitudine è da valutarsi tenuto conto del luogo e del contesto ove l'impresa è esercitata, e perciò non è esclusa dalla circostanza che ai beni e servizi da essa offerti possa accedere solo una clientela determinata, costituendo per contro la particolare ubicazione menzionata certa di produttività dell'attività commerciale (Cass. III, n. 3950/1997).

Essenziale, comunque, è il collegamento teleologico dei beni concessi in godimento in vista della realizzazione della finalità produttiva. Nel caso in cui sia dato in godimento un locale per proiezioni cinematografiche, ove, insieme all'immobile, sia stata contemplata nella convenzione quell'attrezzatura mobile di cui deve essere fornito ogni ritrovo di pubblici spettacoli, occorre dunque accertare se dette attrezzature risultino oggettivamente destinate, nella loro inscindibile unità, all'esercizio di siffatta impresa, o costituiscano, invece, altrettante singole unità, di fronte alle quali il godimento dell'immobile viene a rappresentare l'elemento essenziale ed assorbente dell'economia oggettiva e soggettiva del contratto (Cass. III, n. 6361/1981).

Allo stesso modo è stato osservato che il contratto di affitto di un'azienda para-alberghiera, quale un campeggio, si distingue da quello di locazione di immobile adibito a campeggio per il fatto che, mentre in quest'ultima ipotesi è dedotto in contratto un terreno destinato all'attendamento ed al parcheggio delle roulottes, corredato delle sole attrezzature indispensabili per tale destinazione, nel primo caso oggetto del contratto è un complesso organico preesistente alla pattuizione delle parti, del quale, oltre a detto immobile, siano elementi integranti una serie di servizi, di attrezzature e di impianti organizzati per l'esercizio di una impresa turistica ricettiva già funzionante (Cass. III, n. 4044/1999; Cass. III, n. 6480/1982).

Fortemente suggestiva di un affitto d'azienda – secondo una regola che, con riguardo all'affitto di azienda alberghiera, è stata tradotta in norma, come si è in precedenza visto – è la sua preesistenza alla pattuizione, quale attitudine produttiva dell'organico complesso (Cass. III, n. 3360/1978; Cass. III, n. 3966/1976): sicuro sintomo della preesistenza di un'azienda, ad esempio, è stata ritenuta la circostanza che la licenza d'esercizio di un'attività commerciale fosse stata rilasciata a soggetto diverso dall'effettivo esercente, indipendentemente dal carattere personale e dalla non cedibilità della licenza stessa. In tal caso, dunque, in ossequio alla regola – di cui si parlerà subito dopo – secondo cui l'azienda è tale anche se attualmente in fase di «stasi», è stata ritenuta irrilevante la effettiva produttività del complesso aziendale al momento della conclusione del contratto, essendone sufficiente la potenziale attitudine produttiva, quale prevista e considerata dalle parti contraenti (Cass. III, n. 3950/1997). Al contrario, se i beni strumentali all'esercizio dell'impresa sono ceduti al conduttore non già dal locatore, bensì da un terzo, il rapporto va tendenzialmente qualificato come locazione ad uso commerciale e non come affitto di azienda: difatti, se è vero che la titolarità dell'azienda può essere disgiunta dalla proprietà dei beni strumentali destinati al funzionamento della stessa, è però comunque necessario che di questi beni il titolare possa disporre in base a titolo idoneo che gli consenta di destinarli all'esercizio dell'azienda medesima (Cass. III, n. 13689/2001).

L'affitto di azienda – secondo un indirizzo costante della Suprema Corte – è configurabile anche quando il complesso degli elementi resi coerenti dalla finalità produttiva non sia completo, ossia quando per l'effettivo esercizio sia necessario l'apporto di altri elementi. L'affitto d'azienda non è escluso, allora, se, nel momento della conclusione del contratto, essa non sia ancora in grado di funzionare ovvero richieda una diversa e più efficiente organizzazione rispetto alla struttura preesistente. In linea generale, si può dire – sulla scia di Cass. III, n. 1640/1984 – che: «La figura dell'affitto d'azienda ricorre anche quando il complesso organizzato dei beni sia stato dedotto nel contratto nella sua fase statica, ovvero al momento della conclusione dello stesso non fosse in grado di funzionare per la necessità di una diversa e più efficiente organizzazione o dell'apporto di altri beni» (Cass. III, n. 8076/2007).

La Suprema Corte ha esaminato, tra i tanti, il caso in cui un immobile destinato a gelateria, dotato di un banco frigorifero, tavoli e sedie, non aveva però le macchine per il caffè e per i gelati, le scritture contabili e le scorte, sicché l'azienda non poteva al momento del contratto funzionare: «Rilevò ... la Corte del merito che la concorde dichiarazione, contenuta nelle scritture negoziali, di stipulare un contratto di affitto di immobile adibito a bar gelateria con parte dell'attrezzatura occorrente alla relativa gestione e con cessione, nei modi consentiti, delle licenze amministrative da ritrasferire ... al termine del rapporto, erano elementi sufficienti a far ritenere, nel loro complesso, che si trattasse di affitto di azienda. Invero, per costante giurisprudenza di questa Corte, l'affitto di azienda si differenzia dalla locazione di immobile con pertinenze perché in esso l'immobile non è considerato nella sua consistenza effettiva e nella sua individuabilità giuridica, ma costituisce uno dei beni del complesso unitario destinato al perseguimento di un determinato scopo produttivo, anche se l'azienda, nel momento della conclusione del contratto, non sia ancora in grado di funzionare ovvero richieda una diversa e più efficiente organizzazione rispetto alla struttura preesistente» (Cass. III, n. 4809/1986).

Perché sussista il contratto di affitto di azienda – è stato in seguito ripetuto nel caso di una casa di riposo la cui gestione era stata intrapresa dall'affittuario – non occorre che la stessa sia attualmente in grado di funzionare, essendo sufficiente che i vari elementi dedotti in contratto siano potenzialmente idonei allo svolgimento dell'attività aziendale: «L'accertamento se le parti contraenti abbiano stipulato una locazione di immobile con pertinenze ovvero un affitto di azienda rientra nei compiti del giudice del merito, il quale deve portare l'indagine sulla comune intenzione delle parti e sui beni dedotti in contratto, al fine di stabilire se l'oggetto principale della stipulazione sia un immobile singolarmente considerato ovvero un complesso unitario costituito dall'organizzazione aziendale destinata allo svolgimento di un'attività economica. Consegue che tale accertamento non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione [...]. La Corte d'Appello, confermando l'interpretazione che del contratto aveva dato il giudice di primo grado, ha accertato con sufficiente e corretta motivazione che le parti hanno stipulato un affitto di azienda per l'esercizio di una casa di riposo, indagando sia sulla comune intenzione delle parti che sui beni oggetto del contratto. [...]. La corte di appello ha [...] ritenuto che tale conclusione non è impedita dal fatto che l'attività di impresa (gestione della casa di riposo) sia stata iniziata dall'affittuario successivamente alla stipulazione del contratto. La valutazione è corretta perché, come questa Corte ha più volte precisato [...], l'azienda concessa in affitto può anche essere non ancora in grado di funzionare, essendo sufficiente che i vari elementi dedotti in contratto siano potenzialmente idonei allo svolgimento dell'attività aziendale. Oggetto dell'affitto può essere, cioè, anche un'azienda in fase statica e non ancora dinamica. Il ricorrente ritiene che l'insieme dei detti elementi di fatto avrebbe dovuto condurre il giudice del merito ad escludere la sussistenza dell'affitto di azienda, pure se ciascuno di essi, singolarmente considerato, non sia sufficiente per negare che ci si trovi in presenza di detto contratto. Ma dalla ammissibilità di un affitto di azienda in fase statica, e cioè solo potenzialmente funzionale, deriva necessariamente l'irrilevanza che la parte concedente non svolgesse in precedenza attività imprenditoriale, che detta attività sia stata iniziata dall'affittuario, che i beni aziendali non fossero ancora funzionanti quando è stato stipulato il contratto» (Cass. III, n. 14647/2002).

In definitiva, non occorre che il complesso di beni organizzati sia caratterizzato dal requisito della produttività come realtà oggettiva al momento della stipulazione di un contratto avente per oggetto l'azienda, essendo sufficiente che la produttività sia la conseguenza potenziale, prevista e considerata dalle parti contraenti, dell'organizzazione dei vari elementi che la compongono (v. Cass. III, 11054/1993; Cass. III, n. 5453/1983). È parimenti riconosciuta la configurabilità dell'azienda anche quando questa non abbia ancora cominciato a funzionare o abbia sospeso temporaneamente l'attività, conservando però l'organizzazione: ciò perché l'avviamento non è elemento costitutivo indefettibile dell'azienda: «Pur essendone un elemento rivelatore, l'avviamento non è elemento costitutivo essenziale dell'azienda, potendo esso anche mancare, come accade nel caso di azienda che non abbia ancora iniziato a funzionare o di azienda che abbia sospeso l'attività, conservando tuttavia l'organizzazione» (Cass. III, n. 6608/1983).

Passando al tema della cessazione dell'azienda, per i soli fini della qualificazione del contratto come locazione immobiliare o come affitto d'azienda, vale osservare che essa – secondo un principio speculare a quello fino ad ora esposto in tema di configurabilità di un'azienda attualmente in situazione di stasi – viene meno solo nel caso in cui si determina la mancanza di un elemento essenziale per il suo funzionamento e non anche se viene meno un elemento semplicemente accessorio (Cass. III, n. 3966/1976). Si ha cessazione dell'azienda, quindi, soltanto quando i vari elementi vengono dispersi, essendosi frammentata l'unità teleologica dell'insieme: «Poiché l'azienda è un complesso di beni e di servizi (capitale, fisso e circolante, e lavoro) unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall'imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse» (Cass. III, n. 3723/1981).

Occorre ora chiedersi, una volta individuata la linea di demarcazione tra la locazione di immobile e l'affitto d'azienda, se a quest'ultimo si applichi – ed eventualmente in che misura – la disciplina della locazione. Il problema si è posto con riguardo al trattamento del danno da ritardato rilascio dell'azienda affittata. La Suprema Corte, in proposito, ha osservato che tra le norme sulla locazione e quelle sull'affitto, compreso l'affitto d'azienda, corre, nel codice civile, il tipico rapporto tra norme generali e norme speciali, per cui se la fattispecie non è regolata da una norma specificamente prevista per l'affitto deve farsi ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose, salva l'incompatibilità con la relativa normazione speciale. Perciò la violazione da parte dell'affittuario dell'obbligo di restituzione all'affittante dell'azienda per scadenza del termine dà luogo a carico del primo a responsabilità a norma dell'art. 1591 c.c. dettato in tema di locazione, mancando nella disciplina dell'affitto una norma che regoli i danni per ritardata restituzione e non essendo incompatibile con la normazione speciale sull'affitto l'art. 1591 c.c. (Cass. III, n. 2306/2000). La pronuncia – ribadita da Cass. III, n. 2240/2004; Cass. III, n. 10946/2003; Cass. III, n. 993/2002 – così motiva: «In merito alla prima questione relativa all'applicabilità dell'art. 1591 c.c. all'affitto di azienda, osserva preliminarmente questa Corte che le norme generali sull'affitto sono contenute negli artt. 1615, 1627 c.c. Sparse in più luoghi dello stesso codice sono alcune disposizioni relative specificamente all'affitto di azienda (artt. 2112, ultimo comma, 2557, comma 4, 2558, comma 2, e 2562 c.c.). Secondo l'opinione della dottrina maggioritaria, che ritiene questa Corte di condividere, il codice civile pone un rapporto di specialità fra le norme che ha dettato per l'affitto e quindi anche per l'affitto di azienda) e quelle previste per la locazione in genere. Tale rapporto è facilmente delineabile, sia perché le prime sono poste in una sezione del capo dedicato alla locazione, sia perché all'affitto è unanimemente riconosciuta una causa locatizia. Da ciò consegue che tra le norme sull'affitto e quelle sulla locazione corre il rapporto tipico tra norme generali e norme speciali, per cui se la fattispecie in esame non è regolata da norma specificamente prevista per l'affitto (e più in particolare per l'affitto di azienda) dovrà farsi ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose, salva l'incompatibilità con la relativa normazione speciale [...] Fissato questo principio, va osservato che non vi è dubbio che la violazione da parte dell'affittuario dell'obbligo di restituzione dell'azienda per scadenza del termine all'affittante, dia luogo al sorgere di responsabilità per il primo ... In tema di affitto manca una disposizione che regoli i danni per ritardata restituzione, che invece trovasi tra le disposizioni generali sulla locazione all'art. 1591 c.c. Ne consegue che correttamente il giudice di appello, nel decidere la presente controversia, avente appunto ad oggetto la domanda di risarcimento di danni per mancata restituzione di azienda concessa in affitto, ha applicato l'art. 1591 c.c., non essendo lo stesso incompatibile con la normazione speciale sull'affitto, ed in particolare sull'affitto di azienda» (Cass. III, n. 2306/2000).

La «locazione» di cave di pietra

La locazione di una cava di pietra, avendo ad oggetto una cosa produttiva, deve essere inquadrata nello schema dell'affitto e, come tale, non è assoggettabile alla disciplina delle locazioni di immobili destinati ad uso non abitativo, ai sensi degli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 250/2008; Cass. III, n. 3131/1990). Importanti le conseguenze processuali dell'inquadramento: «Ne consegue l'inapplicabilità alle controversie relative a tale contratto del cosiddetto rito delle locazioni, regolato dall'art. 447-bis c.p.c. [...]. Né sono applicabili, nella materia di cui si tratta, il criterio di competenza territoriale del forum rei sitae, previsto dallo stesso art. 447-bis del codice di rito, e la sanzione di nullità, ivi disposta, delle clausole di deroga a tale competenza, riferibile solo alle indicate controversie in materia di locazione e comodato di immobili ed affitto di azienda» (Cass. III, n. 4503/2001).

È stato tuttavia ritenuto che un contratto avente ad oggetto la concessione estrattiva di materiale pietroso per un periodo di tempo limitato e per un corrispettivo forfetizzato e cioè stabilito indipendentemente dai quantitativi di materiale estratto costituisce un contratto di locazione a cui si rende applicabile l'imposta di registro di cui all'art. 5, lett. a), n. 2), parte prima, della tariffa allegata al d.P.R. n. 634/1972 (Comm. trib. centr., n. 801/1993).

Attività professionali

L'art. 27, comma 2, l. n. 392/1978, richiamando il comma precedente, dettato in tema di durata – non inferiore a sei anni – delle locazioni di immobili adibiti ad attività industriali, commerciali e artigianali ovvero di interesse turistico, stabilisce che: «La disposizione di cui al comma precedente si applica anche ai contratti relativi ad immobili adibiti all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo». L'art. 35 l. n. 392/1978, nell'elencare le attività per le quali non spetta l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale – così come la prelazione, nelle sue diverse forme, ex art. 41 stessa legge – si riferisce, tra l'altro, alle locazioni di immobili «destinati all'esercizio di attività professionali». Entrambe le disposizioni, dunque, contengono gli aggettivi «professionale», «professionali», che, però, manifestano significati affatto diversi. L'art. 27 l. n. 392/1978 discorre di «esercizio abituale e professionale» nel medesimo senso in cui l'art. 2082 c.c. fa menzione dell'imprenditore come di colui che esercita «professionalmente», cioè stabilmente, un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. L'art. 35 l. n. 392/1978, invece, fa riferimento alle «attività professionali» nell'accezione accolta dall'art. 2229 c.c., ossia quali professioni intellettuali.

Ciò detto, le locazioni di immobili destinati all'esercizio di «attività professionali»:

– non godono dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale (art. 35 l. n. 392/1978);

– non godono della prelazione in caso di alienazione a titolo oneroso ed in caso di nuova locazione (art. 41 l. n. 392/1978 in relazione agli artt. 38, 39 e 40 stessa legge);

– sono assoggettate ad una speciale disciplina successoria in caso di uso concorrente dell'immobile (art. 37 l. n. 392/1978), di cui si parlerà a suo tempo.

In questo caso la ragione del trattamento normativo, con particolare riferimento al regime delle esclusioni (indennità e prelazione) è dato dal carattere personale-intellettuale, e di qui fiduciario, della prestazione, carattere che in generale si desume dall'art. 2232 c.c.: chi ricorre ad un certo professionista, quale il medico, l'avvocato, il commercialista, ecc. – questa l'opinione del legislatore – lo sceglie essenzialmente per le sue personali capacità, non per l'ubicazione dello studio, sicché, in caso di spostamento di questo, il cliente mantiene il rapporto fiduciario con il proprio professionista, seguendolo presso il nuovo studio.

Che tale sia la ratio della previsione normativa emerge, in generale, dall'osservazione che le esclusioni «sono caratterizzate, di regola, dalla mancanza dell'elemento che il legislatore ha invece voluto tutelare, non essendo ravvisabile nelle ipotesi contemplate, secondo l'id quod plerumque accidit, l'inerenza diretta all'immobile dell'avviamento creato dal conduttore, giacché trattasi di attività in cui ordinariamente prevale l'elemento soggettivo o organizzativo imprenditoriale indipendentemente dalla sede nella quale la stessa viene esercitata, o, comunque, di ipotesi particolari che escludono il verificarsi di quell'esigenza di riequilibrio economico e sociale che ... costituisce la ratio della normativa impugnata (Corte cost., n. 36/1980). In una successiva pronuncia, riprendendo il precedente, il giudice delle leggi, dopo aver ribadito le proprie considerazioni sulla funzione degli istituti della prelazione e dell'indennità per la perdita dell'avviamento, ha aggiunto che quelle considerazioni dimostravano, in particolare, l'infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale sollevato sotto il profilo della disparità di trattamento tra gli immobili aziendali e gli studi professionali: «Non è invero rilevabile, nelle ipotesi di esclusione del beneficio, quell'elemento che, come si è detto, il legislatore ha invece voluto tutelare, cioè, l'inerenza diretta all'ubicazione dell'immobile dell'avviamento creato dal conduttore, giacché trattasi di attività in cui ordinariamente prevale l'elemento soggettivo indipendentemente dalla sede in cui viene esercitata. Non può quindi riscontrarsi nella fattispecie considerata omogeneità di situazioni tra operatori economici ed esercenti attività professionali. È pertanto infondata la censura sollevata sotto il profilo della pretesa violazione dell'art. 3 Cost. (Corte cost., n. 128/1983).

Nel caso dello studio professionale, dunque, l'attività cui l'immobile locato è destinato si caratterizza per l'elemento dell'intuitus personae, come è stato osservato da Cass. III, n. 1405/1986, sicché il riconoscimento della tutela piena – comprensiva di prelazione e indennità – non si giustificherebbe.

Venendo all'individuazione delle attività professionali menzionate dall'art. 35 l. n. 392/1978, si può senz'altro dire che esse ricomprendono quelle regolate dagli artt. 2229 ss. c.c.: ossia le c.d. professioni liberali riservate dalla menzionata disposizione agli iscritti ai rispettivi albi (ingegneri, avvocati, medici, ecc.). Anzi, vi è stato chi ha affermato – sulla scorta di Trib. Milano 5 luglio 1984 – che l'art. 35 l. n. 392/1978 si riferisce solo alle attività professionali previste dall'art. 2229 c.c. (Pret. Parma 24 gennaio 1990).

Secondo l'opinione preferibile, tuttavia, ciò che assume rilievo è la natura personale della prestazione, sicché nella formula della legge rientrano anche una serie di attività che, «ancorché non protette, vengono svolte in maniera professionale: basti pensare allo scrittore, al pittore, al musicista ecc.» (Lazzaro, Preden, 86).

Può senz'altro convenirsi, quindi, che: «Né la lettera né lo spirito della legge consentono di escludere dal novero delle attività “professionali” di cui all'art. 27 della legge n. 392/1978 quelle che non siano rigorosamente “liberali” (avvocati, medici, ingegneri, ecc.), bensì siano di più recente organizzazione (quali quelle dei biologi, dei geologi, dei consulenti del lavoro, quelle c.d. paramediche ecc.) (Pret. Chieti 14 marzo 1981).

Occorre allora indagare caso per caso individuando la componente personale dell'attività svolta, se del caso ponendo a paragone gli elementi personali e quelli imprenditoriali. Ciò tenendo a mente che anche i professionisti intellettuali possono assumere la qualità di imprenditori commerciali quando esercitano la professione nell'ambito di un'attività organizzata in forma d'impresa, in quanto svolgano una distinta ed assorbente attività che si contraddistingue da quella professionale proprio per il diverso ruolo che assume il sostrato organizzativo – il quale cessa di essere meramente strumentale – e per il diverso apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d'opera intellettuale, ma involgente una prevalente opera d'organizzazione di fattori produttivi che si affiancano all'attività tecnica ai fini della produzione del servizio: «E ciò si verifica sia quando tale attività si collochi nel più vasto ambito di un'organizzazione di impresa, destinata a fornire beni e servizi eterogenei o, comunque, esorbitanti dal quadro delle prestazioni professionali, e sia quando la professione abbia essa stessa le caratteristiche di una vera e propria attività imprenditoriale (ad es. esercizio di farmacia, di talune cliniche specialistiche, ecc.), nelle quali ipotesi si riscontra perciò un avviamento legato all'impresa e non solo e non proprio alla persona del professionista» (Cass. III, n. 2645/1982). Tale esercizio in forma d'impresa non è stato ritenuto però configurabile per il notariato che costituisce, nel nostro ordinamento, ad un tempo, un ufficio pubblico e una libera professione e va annoverato fra le professioni protette il cui esercizio non può costituire un'organizzazione imprenditoriale.

Il problema ha un particolare rilievo con riguardo al caso di attività sanitarie in senso lato, nelle quali l'elemento personale è pur sempre presente. Così, è stato detto che, nel caso di gestione di una casa di cura per anziani, la sussistenza del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale richiede la prevalenza di un'attività organizzativa di natura strettamente imprenditoriale e commerciale; viceversa, qualora prevalga un'opera definibile come professionale per la qualità e la quantità del personale impiegato e per il tipo delle prestazioni eseguite, deve escludersi l'esistenza del diritto alla indennità in questione (Cass. III, n. 4505/2001). La pronuncia, sul punto, così motiva: «La sentenza impugnata è dell'avviso che l'attività di gestione di una casa di cura per anziani costituisca attività commerciale alla quale è ricollegabile un vero e proprio avviamento: ed invero «l'attività in parola è rivolta verso un pubblico originariamente indifferenziato di possibili fruitori costituito dagli anziani che necessitano di particolare assistenza e dai parenti degli stessi, rispetto ai quali assume, di certo, significativo rilievo, unitamente a quello della professionalità del personale impegnato, l'elemento relativo all'ubicazione dei locali in cui è svolta l'opera di ricovero ed assistenza, idoneo a determinare l'attrazione della clientela». Non v'è chi non veda la grave insufficienza logica e giuridica di tale ragionamento. Il Tribunale avrebbe dovuto infatti accertare il genere di attività svolta in quei locali dal L.B. in favore degli anziani ricoverati, per valutare poi a ragion veduta se rivestisse carattere di prevalenza un'opera definibile come professionale per la qualità e la quantità del personale impiegato e per il tipo delle prestazioni eseguite, o se prevalesse invece un'attività organizzativa di natura strettamente imprenditoriale commerciale. È noto che, nel caso delle attività professionali alle quali ha riguardo l'art. 35 della l. n. 392/1978 per negare il diritto all'indennizzo per la perdita dell'avviamento commerciale, se è indubbia la presenza di una clientela, è invece carente l'aspetto della sua inerenza a determinati locali, in quanto il rapporto tra cliente e professionista ha un contenuto fiduciario, strettamente personale, che prescinde dall'ubicazione dei locali dove l'opera professionale viene svolta, di talché al rilascio dei locali non consegue la perdita della clientela. Il tribunale invece attribuisce “significativo rilievo” tanto a una non meglio specificata “professionalità” del personale, senza meglio chiarire il concetto, quanto “all'ubicazione dei locali in cui è svolta l'opera di ricovero e di assistenza”, omettendo di precisare per quali speciali ragioni detta ubicazione fosse così importante per i ricoverati e i loro congiunti. Se poi avesse inteso riferirsi a una vera attività professionale, di quelle contemplate nell'art. 35 citato, allora avrebbe dovuto anche spiegare come tra quell'attività, eminentemente fiduciaria, e i locali potesse configurarsi il rapporto di inerenza, che solo può giustificare, col rilascio, la perdita della clientela e, con essa, dell'avviamento, sì da legittimare il diritto all'indennizzo» (Cass. III, n. 4505/2001).

La Suprema Corte, seguendo la medesima impostazione e richiamando ulteriori propri precedenti, ha escluso che avesse diritto alla prelazione il titolare di un laboratorio di diagnostica ed analisi cliniche, coadiuvato da altri professionisti. Difatti, la qualificazione di simile attività come non meramente professionale, ma commerciale, esige il riscontro di un'organizzazione d'impresa che non s'esaurisca in sostrato strumentale delle prestazioni personali e, correlativamente, il riscontro di un'esorbitanza di tali prestazioni dall'opera intellettuale in senso stretto, per trasmodare in coordinamento dei fattori produttivi indirizzati all'offerta di un servizio autonomamente rilevante (Cass. III, n. 12623/1999). Applicando tali principi al caso esaminato, la Suprema Corte è pervenuta alla medesima conclusione dell'assoluta mancanza di elementi tali da consentire l'attribuzione all'attività dei professionisti che prestavano la loro opera nel centro di analisi cliniche «una funzione strumentale del sostrato organizzativo e di affermare che il loro apporto non risulti circoscritto alle prestazioni di opera intellettuale ma importi una prevalente opera di organizzazione di fattori produttivi che si affiancano all'attività tecnica ai fini della produzione del servizio. E men che mai può parlarsi di risultati dell'opera dei professionisti che si presentano strumentalizzati da fattori di diversa provenienza, così da risultare fusi nella realizzazione di un prodotto e di una utilità «nuovi» propri dell'impresa di servizio. Ed atteso ciò del tutto irrilevante risulta – in ragione appunto della sua esclusiva funzione strumentale dell'opera professionale – la dimensione ed articolazione dell'apparato organizzativo. E quanto al particolare rigore della normativa in tema di istituzioni sanitarie e private che erogano prestazioni di laboratori di analisi chimico – cliniche e di diagnostica esso va posto in relazione alla estrema delicatezza della materia trattata ed al grande interesse che vi rivolge il legislatore e non [...] al preciso intento dello stesso di attribuire a tali laboratori un carattere di imprenditorialità» (Cass. III, n. 12623/1999).

Val quanto dire che il regime delle esclusioni riguarda non solo gli immobili destinati ad attività professionali in senso proprio, ma anche gli immobili in cui queste attività sono svolte attraverso un'attività imprenditoriale, nella misura in cui essa si ponga quale mezzo al fine rispetto all'attività professionale. Oltre alle pronunce ricordate dalla decisione da ultimo menzionata (Cass. III, n. 713/1986, in tema di studio dentistico gestito in forma societaria, la quale sembra propendere per la necessaria prevalenza dell'attività personale; Cass. III, n. 8291/1992, in tema di attività di recupero psico-fisico di soggetti minorati), merita ancora citare la coerente affermazione di un giudice di merito secondo cui: «La società di capitali che utilizzi l'immobile locato come poliambulatorio medico, ha diritto all'indennità di cui all'art. 34 l. n. 392/1978, ove si provi la caratterizzazione dell'attività svolta dalla società stessa come avente carattere commerciale, piuttosto che professionale, escludendosi per quest'ultimo caso la corresponsione dell'indennità ai sensi dell'art. 35 della predetta normativa» (Pret. Bologna 30 ottobre 1998).

All'attività espletata da un laboratorio di analisi cliniche non è dovuta tutela piena, essendo la stessa configurabile come professionale malgrado l'indubbia presenza di un elemento aziendale molto rilevante, poiché il risultato esterno dell'attività medesima appare essere principalmente riconducibile alla particolare competenza tecnica e qualificata di un professionista – l'analista – connotato tipico delle attività professionali (Pret. Roma 20 dicembre 1988). Pur non disconoscendosi, dunque, che l'attività di laboratorio per analisi cliniche presenti caratteristiche in qualche modo assimilabili a quelle imprenditoriali, si è ritenuto anche in tal caso innegabile – come è stato ribadito da Pret. Napoli 7 marzo 1996 – che l'afflusso dei pazienti è determinato «non tanto dalla presenza nel laboratorio di attrezzature di particolare valore o da una organizzazione particolarmente efficiente, ma dalla fiducia e dalla stima riposte nelle qualità personali dell'analista, il che pone in primo piano l'elemento soggettivo che è connotato tipico dell'attività professionale» (Trib. Napoli 14 dicembre 1991).

Passando ad altre fattispecie, si può brevemente ricordare che lo studio pubblicitario comporta attività di carattere professionale (App. Bologna 12 luglio 1985; v. pure, nello stesso senso, Trib. Piacenza 23 maggio 1983), come pure lo studio di marketing (Trib Udine 22 novembre 1993). Diverso è stato ritenuto il caso dell'agenzia pubblicitaria, la cui attività va collocata tra quelle commerciali, poiché realizza una intermediazione nello scambio di beni, e precisamente nella cessione di spazi pubblicitari (Pret. Milano 9 maggio 1985).

È stato ritenuto prevalente l'elemento personale e professionale nell'attività del maestro titolare di una scuola di danza, in relazione alle particolari qualità del medesimo, alle quali, piuttosto che all'ubicazione, era ricollegabile il pregio della scuola (Cass. III, n. 5089/1996). Parimenti è stata ritenuta professionale l'attività di progettazione ed allestimento arredamenti, consulenza di architettura, pubblicità ed estetica industriale, dato il prevalere degli elementi libero professionali, basati sull'intuitus personae, rispetto a quelli imprenditoriali (Pret. Palmanova 1° luglio 1991).

Non può essere qualificata come attività professionale quella dell'estetista, che ha invece natura imprenditoriale artigiana (Cass. III, n. 2421/1997), né quella del titolare di autoscuola (Pret. Foggia 15 gennaio 1985).

Attività transitorie

Ancora sono escluse dal novero delle attività a tutela piena, poiché non godono dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, quelle «di carattere transitorio» (art. 35 l. n. 392/1978), riguardo alle quali neppure opera l'istituto della prelazione, nelle sue due forme, con il conseguente riscatto (artt. 41, 38, 39 e 40 l. n. 392/1978): attività già in precedenza contemplate dalla stessa legge, laddove, stabilita in sei anni la durata minima del rapporto, afferma che: «Il contratto di locazione può essere stipulato per un periodo più breve qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile abbia, per sua natura, carattere transitorio» (art. 27, comma 5, l. n. 392/1978).

A tal riguardo, in un primo tempo la Suprema Corte ha affermato che la transitorietà della locazione non abitativa di cui al citato art. 27, comma 5, l. n. 392/1978 si fonda sulla natura dell'attività professionale o commerciale, senza che possa rilevare che la stessa sia nella fase di avviamento, ovvero richieda oggettivamente durata e stabilità del rapporto: «L'art. 27 della l. n. 382/1978, nel disciplinare la durata minima legale delle nuove locazioni non abitative, facoltizza le parti a stipulare per un periodo più breve di sei anni «qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile, abbia per sua natura, carattere transitorio». Risultando palesemente riferita la transitorietà della locazione ad uso professionale industriale o artigianale, non già ed eventuali vicende temporali, bensì alla natura dell'attività professionale o commerciale, richiedente durata e stabilità del rapporto tali da assicurare la necessaria tranquillità nell'intraprendere o comunque espletare una qualche iniziativa professionale commerciale o industriale del locatario, correttamente il giudice del merito ha riconosciuto al rapporto de quo, anche in considerazione dell'assenza di ogni previsione contrattuale sulla transitorietà, la durata minima legale di sei anni risultando trattarsi di esercizio professionale di una attività, sia pure nella fase di avviamento, oggettivamente richiedente durata e stabilità del rapporto» (Cass. III, n. 6896/1987).

Successivamente la Suprema Corte si è avveduta che un'interpretazione in senso rigorosamente «oggettivista» dell'art. 27, comma 5, l. n. 392/1978 avrebbe condotto ad un esito sostanzialmente abrogativo della norma per l'impossibilità di configurare attività di per se stesse transitorie. Ha perciò ritenuto che il carattere transitorio dell'attività vada individuato non tanto sulla base della natura intrinseca della medesima, quanto tenendo conto del particolare modo con cui essa si atteggia in concreto, come desumibile dalla volontà delle parti. Si discuteva, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, della transitorietà di una locazione avente ad oggetto un immobile da adibire a deposito e vendita di stock occasionali di mobili e arredamenti. La pronuncia, richiamato la soluzione adottata dal precedente di cui si è detto, replica: «Essa poggia sull'equivoco che nell'ambito delle attività contemplate nell'art. 27 della l. n. 392/1978 ne esistono alcune ontologicamente transitorie, laddove, a ben riflettere, dette attività (commerciali, industriali, artigianali, turistiche e professionali) possono essere, in sé, tanto di natura transitoria che di natura non transitoria. L'esattezza di questa affermazione trova conferma anche negli esempi addotti dalla ricorrente, che ravvisa ipotesi di locazioni transitorie in quelle stipulate da un comitato elettorale, o per la vendita di prodotti in occasione di avvenimenti specifici, o con riguardo a complessi di beni determinati (un fallimento, un'asta pubblica et similia); casi in cui la natura transitoria dell'attività in vista della quale è stata stipulata la locazione emerge non dal tipo di attività in sé, che è sempre di carattere commerciale, ma delle particolari caratteristiche del prodotto in relazione a determinate circostanze temporali. Tutti elementi desumibili dalla volontà delle parti consacrati nell'atto contrattuale od evidenziata dal loro comportamento complessivo (è appena il caso di aggiungere che la locazione stipulata da un comitato elettorale esula dall'ambito di quelle particolarmente tutelate dall'art. 27 sopracitato) e, quindi, indagabili secondo i normali criteri dell'ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. Questa è la premessa esatta da cui prendere le mosse, perfettamente evidenziata dal giudice del merito che ne ha tratto le inevitabili conseguenze, procedendo a tutti gli accertamenti necessari per verificare, nel caso di specie, la natura dell'attività» (Cass. III, n. 8489/1990).

Dopo aver ribadito il medesimo principio (Cass. III, n. 6935/1993; Cass. III, n. 13133/1997), la Suprema Corte è nuovamente tornata sull'argomento, chiarendo ulteriormente che il contratto può essere ritenuto conforme al modello legale della locazione non abitativa transitoria a condizione che la transitorietà sia espressamente enunciata, con specifico riferimento alle ragioni che la determinano, in modo da consentirne la verifica in sede giudiziale e sempreché risulti, in esito ad essa, che le ragioni dedotte (delle quali si postula l'effettività, ricorrendo, diversamente, una fattispecie simulatoria) siano di natura tale da giustificare la sottrazione del rapporto al regime ordinario e, cioè, siano ragioni obiettive che escludano esigenze di stabilità: «Nel sistema della l. n. 392/1978, articolato nei due tipi contrattuali di carattere generale delle locazioni ad uso di abitazione e delle locazioni ad uso diverso, nell'ambito di queste ultime, il sottotipo contrattuale «locazione non abitativa transitoria» identifica la locazione di immobile da adibire all'esercizio di una delle attività previste dall'art. 27, commi 1, 2 e 3, che siano destinate, per loro natura, e cioè per ragioni obbiettive ed intrinseche, a non esplicarsi con carattere di stabilità, bensì ad esaurirsi in un arco di tempo relativamente breve. Ciò risulta dall'esame congiunto delle due disposizioni che considerano espressamente il tipo contrattuale in esame, e cioè gli artt. 27 e 35. L'art. 27, dopo aver imposto, a tutela dell'esigenza di stabilità che caratterizza (normalmente) l'esercizio, in immobili locati, delle attività di impresa o di lavoro autonomo considerate nei primi tre commi (attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico, di lavoro autonomo, alberghiere), un ampio termine di durata del rapporto (anni sei, elevati a nove per le attività alberghiere, operanti ex lege qualora sia pattuita una durata inferiore o non sia convenuta alcuna durata: commi 1, 3 e 4) stabilisce, al comma 5, che il contratto di locazione può essere stipulato per un periodo più breve “qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile abbia, per sua natura, carattere transitorio”. La norma, di imperfetta formulazione, sembra aver riguardo alla attività transitoria come autonoma categoria ontologica, ma è agevole opporre che, configurando essa una deroga al regime di durata proprio delle locazioni di immobili destinati all'esercizio di una delle attività ricomprese nei tipi indicati dai primi tre commi dell'art. 27, il suo ambito applicativo va ristretto all'ipotesi della locazione di immobile da destinare all'esercizio di una delle attività suindicate che presenti caratteri di transitorietà» (Cass. III, n. 3663/1996).

Le locazioni non abitative transitorie, dunque, sono destinate all'esercizio delle medesime attività precedentemente elencate dallo stesso art. 27 l. n. 392/1978, ed in più sono caratterizzate dall'elemento della transitorietà: «E, del resto, non v'è dubbio che l'espletamento di una delle attività in questione non è necessariamente caratterizzato da stabilità, ben potendosi riscontrare, nella realtà economica, una attività di impresa o di lavoro autonomo destinata a durare, per ragioni obbiettive, un tempo relativamente breve [...]. Si pensi all'attività di vendita degli arredi di un immobile di prestigio, o di un compendio ereditario, destinata a cessare con l'esaurimento dei beni, ovvero all'esercizio di attività collegate ad avvenimenti particolari (manifestazioni sportive o culturali, solennità civili o religiose, ecc.) di durata contenuta. In tali ipotesi, non configurandosi un'esigenza di stabilità del rapporto, e risultando, per converso, incompatibile il vincolo di durata legale per un contratto destinato a soddisfare esigenze occasionali ed effimere, la norma consente la stipulazione di contratti aventi durata più breve, modulata in funzione del concreto atteggiarsi dell'interesse da soddisfare. La liberalizzazione, sotto tale aspetto, delle locazioni non abitative transitorie si giustifica, quindi, in ragione della insussistenza di esigenze di stabilità del rapporto» (Cass. III, n. 3663/1996).

L'esercizio delle attività elencate dall'art. 27 l. n. 392/1978, allora, non richiede – per le oggettive circostanze del caso – che il rapporto locativo sia dotato del connotato della stabilità. A sua volta, l'art. 35 l. n. 392/1978 dichiara inapplicabili alle locazioni di immobili destinati all'esercizio di attività di carattere transitorio le disposizioni in materia di indennità di avviamento previste, per le locazioni di cui all'art. 27, dall'art. 34, e l'inapplicabilità è estesa alle disposizioni in materia di prelazione e riscatto in forza del richiamo all'art. 35 operato dall'art. 41 l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 3663/1996). È stato così anche di recente ribadito che, qualora una locazione di immobile destinato all'esercizio di una delle attività previste dall'art. 27 della l. n. 392/1978 sia stipulata per una durata inferiore a quella legale, il contratto, ove sorga controversia, potrà essere ritenuto conforme al modello legale «locazione non abitativa transitoria» e, quindi, sottratto alla sanzione di nullità di cui all'art. 79 della legge stessa ed alla eterointegrazione ex art. 1339 c.c., a condizione che la transitorietà sia espressamente enunciata, con specifico riferimento alle ragioni che la determinano, in modo da consentirne la verifica in sede giudiziale e sempreché risulti, in esito ad essa, che le ragioni dedotte (delle quali si postula l'effettività, ricorrendo, diversamente, una fattispecie simulatoria) siano di natura tale da giustificare la sottrazione del rapporto al regime ordinario e, cioè, siano ragioni obiettive che escludano esigenze di stabilità (Cass. III, n. 18942/2019, che ha ritenuto inidonea a giustificare la riduzione pattizia della durata legale del rapporto di locazione la clausola con la quale le parti avevano collegato la transitorietà del contratto alle esigenze del conduttore e non ad oggettive ragioni dipendenti dalla natura, nella specie sanitaria assistenziale, dell'attività svolta nell'immobile locato).

Insomma, la più recente giurisprudenza della Suprema Corte si pone come organica sintesi degli indirizzi precedentemente insorti, evidenziando che le locazioni non abitative transitorie si caratterizzano, sotto il profilo oggettivo, per essere collegate a ragioni che escludono la normale esigenza di stabilità contemplata dalla legge, e, sotto il profilo soggettivo, per essere la transitorietà espressamente enunciata dalle parti al momento della formazione del contratto.

Guardando ai casi pratici presentati all'esame della giurisprudenza, merita ancora ricordare che la locazione di un immobile conclusa come conduttore dal Ministero della protezione civile per esigenze di natura transitoria – un immobile da destinare a scuola per gli alunni di Pozzuoli, rimasti privi di aule in conseguenza di eventi sismici, stipulata per la durata di due anni salvo proroga, in attesa del ritorno della situazione alla normalità – ove non risulti l'esercizio da parte della p.a. del potere normativo extra ordinem attribuitole dalle leggi in materia di calamità naturali, rientra nella previsione di cui all'art. 27, comma 5, l. n. 392/1978 e alla scadenza si rinnova tacitamente in mancanza di tempestiva disdetta, trovando applicazione anche nelle locazioni contemplate dall'art. 42 della stessa legge (tra cui quelle stipulate come conduttori dello Stato o da altri enti pubblici territoriali) il regime della tacita rinnovazione del contratto alla prima scadenza in mancanza di disdetta (Cass. III, n. 7246/1994).

È stato considerato assoggettato alla disciplina in esame il contratto con cui una parte si garantisce il diritto di usufruire di un'area nuda all'interno di un comprensorio fieristico, sulla quale collocare – dietro pagamento di un corrispettivo specificamente individuata in ragione del periodo di apertura alle manifestazioni fieristiche – un prefabbricato da utilizzare per l'esercizio di un'attività commerciale, quale quella di somministrazione di alimenti e bevande (App. Trieste 27 aprile 2001).

Locazioni stagionali

Occorre ancora soffermarsi sul dettato dell'art. 27, comma 6, l. n. 392/1978, il quale stabilisce che: «Se la locazione ha carattere stagionale, il locatore è obbligato a locare l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto. L'obbligo del locatore ha la durata massima di sei anni consecutivi o di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera».

Accolto l'inquadramento delle locazioni non abitative in tre distinte categorie, delimitate in funzione dell'attività svolta nell'immobile locato e connotate dalla maggiore o minore tutela apprestata dal legislatore (attività a tutela piena, semipiena e limitata), occorre dire che le locazioni stagionali se ne collocano al di fuori: esse, cioè, non vengono individuate in ragione dell'attività svolta, che può essere una qualunque delle attività finora enumerate, ma in ragione del particolare atteggiarsi del suo svolgimento, oggettivamente limitato ad un ambito stagionale.

Così, ad esempio, la locazione di un locale da destinare a cinema cade sotto la disciplina «ordinaria» dettata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978: ma, se l'immobile non è un locale coperto, bensì un'area scoperta, ecco che il cinema, destinato a funzionare costantemente, diventerà un'arena estiva, aperta in quella stagione e chiusa nel resto dell'anno.

L'inquadramento della figura è discusso.

Secondo un primo indirizzo – inaugurato, nella giurisprudenza di merito, da Pret. Rimini 11 gennaio 1979 – la locazione stagionale costituisce un rapporto unitario, ancorché scandito in fasi ricorrenti. Da ciò vengono tratte talune conseguenze applicative, quali l'applicabilità del recesso e dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale. La pronuncia di legittimità che ha sostenuto tale tesi (ai fini della verifica dell'applicabilità del recesso), richiamato il testo della norma in commento, ha osservato: «Siffatta dizione non sembra poter sostenere l'idea di una serie di rapporti contrattuali riferentisi alle singole stagioni ed autonomi l'uno dall'altro, ai quali riferire altresì il recesso, con conseguente configurabilità di esso solo nel caso di compatibilità con i termini di preavviso (sei mesi) e di rilascio (ex art. 56), e che resterebbe invece inipotizzabile qualora il singolo «contratto stagionale» – riguardato come autonomo – abbia già esaurito la sua vigenza, lasciando permanere a carico del locatore solamente un mero «obbligo a contrarre» per la medesima stagione dell'anno successivo. Più aderente al dato ed al sistema della l. n. 392/1978 nonché all'istituto del recesso del locatore – il quale, consentendo allo stesso, in presenza di determinate situazioni, di sciogliersi dal vincolo di durata impostogli dalla legge, realizza il contemperamento degli opposti interessi delle parti – reputa il Collegio la considerazione che la locazione stagionale, in realtà, indica un tipo di contratto che si concreta al momento dell'originaria stipulazione e che, analogamente a quanto stabilito per gli altri tipi dall'art. 27, comporta l'identica durata di sei anni (o nove, per le utilizzazioni alberghiere), creando un rapporto unitario, cadenzato in una serie di fasi nelle quali si attua compiutamente lo scambio godimento del bene-prezzo, anche se ognuna di esse resta subordinata alla volontà del conduttore di continuare nel godimento stesso e viene attuata attraverso un particolare meccanismo» (Cass. III, n. 6266/1984).

Di qui la Suprema Corte passa ad elencare i diversi riscontri, sia sul piano sistematico che della ratio, della propria tesi: «Illuminante, in proposito, appare l'art. 33 della legge in esame per il quale “il canone delle locazioni stagionali può essere aggiornato con le modalità dell'art. 32”, e questo, a sua volta, stabilisce che “le parti possono convenire che dall'inizio del quarto anno il canone è aggiornato con riferimento alle variazioni verificatesi nel biennio precedente”. Orbene, poiché il termine “aggiornamento” è sempre adoperato dal legislatore del 1978 nel suo preciso significato tecnico-giuridico, esso non può avere riferimento che a rapporti in corso e non invece a contratti che prendono vita di volta in volta ed in maniera autonoma (in tal caso poteva essere solo stabilito il divieto d'aumento del canone oltre un certo limite). L'obbligo del rinnovo costituisce poi il particolare meccanismo per la prosecuzione dell'originario (ed unitario) rapporto, in ordine al quale il locatore può far valere le cause di recesso di cui all'art. 29 della l. n. 392/1978, anche se tale istituto tende ad atteggiarsi in maniera diversa, rispetto all'ipotesi comune, in considerazione della particolare configurazione data dal legislatore alla locazione stagionale: esso, cioè, incide sempre sulla durata legale, nel senso del venir meno della (principale) obbligazione del locatore di assicurare al conduttore il godimento dell'immobile per il periodo stabilito (dalla legge), che viene superata allorché in capo al locatore si verifichi una delle situazioni considerate dal legislatore idonee a legittimare il recesso; si concreta poi, alternativamente, nel rilascio del bene ovvero, qualora i tempi procedimentali del recesso travalichino quelli di una delle “fasi” in cui il rapporto si cadenza, nel venir meno dell'obbligo a contrarre, cioè a far godere al conduttore l'immobile per l'ulteriore periodo (medesime stagioni degli anni successivi). Soluzione questa che trova altresì fondamento nella ratio della legge, ponendosi altrimenti come ingiustificata – a fronte di una locazione di immobile adibito ad attività commerciale limitata ad un periodo (in ipotesi anche molto breve) dell'anno – la mancanza per il locatore di quella tutela che gli è invece apprestata con riguardo ai contratti concernenti immobili utilizzati continuativamente e per i quali più corposo e degno di considerazione è il contrapposto interesse del conduttore» (Cass. III, n. 6266/1984).

In senso diametralmente opposto, si è affermato che la locazione stagionale quale regolata dall'art. 27, comma 6, l. n. 392/1978, non concreta un rapporto unitario della durata di sei anni a decorrere dalla originaria stipulazione, ma deve essere considerata come una pluralità di rapporti distinti, di durata stagionale, anche se collegati: «Al riguardo, occorre premettere una ricostruzione teorica della c.d. “locazione stagionale”, quale specifico tipo di locazione introdotto per la prima volta dal legislatore del 1978, distinguendolo dalla categoria delle locazioni non abitative e disciplinandolo ai sensi del sesto comma dell'art. 27 della citata legge, il quale stabilisce che “se la locazione ha carattere stagionale, il locatore è obbligato a locare l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatto richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto”, precisando che tale obbligo “ha la durata massima di sei anni consecutivi e di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera”. Già la semplice formulazione letterale della norma induce ad affermare che il carattere della stagionalità non deriva da qualche particolarità strutturale del rapporto locativo, ma dal tipo dell'attività svolta nell'immobile o del godimento per il quale viene utilizzato; in altri termini, la natura dell'attività-godimento ridonda sulla natura del rapporto, ancorché, ad esempio sia stabilita una durata convenzionale superiore al periodo stagionale (cfr., in tema di locazione abitativa di natura transitoria: Cass. III, n. 4712/1981). Ma, soprattutto, la lettera della disposizione rende arduo costruire il rapporto come unitario, che si perfeziona cioè al momento dell'originaria stipulazione – di durata identica agli altri tipi di contratto concernenti immobili non abitativi previsti dallo stesso art. 27 – ancorché cadenzato in una serie di fasi nelle quali si attua compiutamente lo scambio godimento del bene-prezzo, pur avendo ognuna di esse attuata attraverso un particolare meccanismo e restando subordinata alla volontà del conduttore di continuare nel godimento» (Cass. III, n. 2380/1988).

Questo inquadramento, accolto nella pronuncia prima ricordata (Cass. III, n. 6266/1984), incontra, seguendo il ragionamento ora in esame, un ostacolo insormontabile nel fatto che è previsto, per il locatore, «l'obbligo di locare l'immobile per la stessa ragione negli anni successivi, con un limite massimo e su richiesta del conduttore prima delle singole scadenze annuali. Obbligo di locare tale, evidentemente, da escludere in radice l'ipotizzabilità di un rapporto unitario, che altrimenti sarebbe sottoposto alla condizione risolutiva della mancata richiesta, ma che realizza una serie di rapporti, distinti anche se collegati, avendo il legislatore assunto come presupposto la normale scadenza del contratto al termine della stagione e la sua annuale rinnovabilità, ad nutum, del conduttore, per un arco di tempo prestabilito nella misura massima. Certo il legislatore ordinario ha anche presupposto un'altra condizione, sovente non riscontrabile nella pratica: che cioè il conduttore non rimanga nella detenzione dell'immobile alle scadenze contrattuali, restituendo la res locata nella disponibilità del locatore. Ma ove tale situazione non si verifichi, delle due l'una: se manca l'adesione del locatore, trattandosi di rapporto a tempo determinato (art. 1596 c.c.), la detenzione del conduttore si trasforma in un'occupazione abusiva e, quindi, illegittima; se, invece, c'è acquiescenza, la locazione si rinnova tacitamente ai sensi dell'art. 1597 c.c. (con la possibilità di ulteriori tacite rinnovazioni, finché non interviene l'opposizione del locatore, ma con la necessità che il conduttore faccia espressa richiesta, prima della scadenza, se vuole usufruire della disciplina prevista dall'art. 27 citato). Giova aggiungere che la costruzione articolata della locazione stagionale non è incompatibile con l'applicabilità, in regime transitorio, dell'istituto del recesso per i motivi di cui all'art. 29 della l. n. 392/1978, atteso che anche la citata pronuncia – che tale applicabilità ha per prima affermato – ha peraltro precisato che siffatto istituto tende ad atteggiarsi in maniera diversa all'ipotesi normale «concretandosi, alternativamente, nel rilascio dell'immobile ovvero, qualora i tempi procedimentali del recesso travalichino quelli di una delle fasi in cui il rapporto si cadenza, nel venir meno dell'obbligo del locatore a contrarre per la stagione successiva» (Cass. III, n. 2380/1988).

Esaminati gli argomenti utilizzati a sostegno del contrastante indirizzo, la decisione è giunta a conclusione enumerando due importanti conseguenze applicative dell'impostazione, l'inapplicabilità alle locazioni stagionali del congegno della rinnovazione in mancanza di disdetta alla scadenza del primo sessennio e del diritto di prelazione di cui all'art. 40 l. n. 392/1978. La soluzione, condivisa dalla giurisprudenza di merito – Pret. Pietrasanta 12 luglio 1989; Pret. Lucca 13 giugno 1989; Pret. Lucca 12 luglio 1989 – ha trovato conferma nella successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 8388/1995; Cass. III, n. 11148/2003; Cass. III, n. 3684/2006).

Al diritto del conduttore di ottenere la cosa in locazione per la medesima stagione dell'anno successivo corrisponde – come del resto emerge dalla formulazione della norma – la posizione di obbligazione del locatore (Pret. Taranto 12 maggio 1998). Tale pronuncia si sofferma sulla determinazione del canone per la stagione successiva, evidenziando che esso non può eccedere la misura stabilita dall'art. 33 l. n. 392/1978, ma può invece essere inferiore ad essa. Sicché, nel caso in cui le parti pattuiscano per la nuova stagione un canone inferiore a quello derivante da quello originario aggiornato ai sensi della menzionata disposizione, il canone delle stagioni ulteriori va calcolato muovendo dall'importo minore e non da quello originario. Ciò il giudice ha desunto dalla qualificazione della locazione stagionale come pluralità di rapporti distinti, di durata stagionale, anche se collegati (Pret. Taranto 12 maggio 1998). Ed ancora, nel caso che insorga contrasto sulla protrazione del rapporto per la successiva stagione, e tale diritto sussista, il locatore può ottenere condanna al rilascio, ma solo per il periodo non «coperto» dalla vigenza del vincolo (Pret. Taranto 12 maggio 1998).

Quanto al funzionamento del meccanismo di prosecuzione del rapporto, è stato chiarito – in ossequio ad un indirizzo più volte ribadito con riguardo alla disdetta – che, in caso di locazione stagionale, è legittima la richiesta di rinnovo per la stagione successiva fatta nella forma dell'atto di citazione notificato, in quanto la forma della lettera raccomandata ex art. 27 l. n. 392/1978 è stabilita solo a fini probatori e non come requisito per l'esistenza della comunicazione stessa, sicché è possibile in ogni caso l'utilizzazione di una forma più rigorosa (App. Trieste 21 novembre 1989).

Resta brevemente da accennare, ancora, all'applicabilità dell'indennità per la perdita dell'avviamento, che è stata ammessa da chi ha ricostruito il rapporto in termini di unitarietà (Cass. III, n. 6266/1984). Nella giurisprudenza di merito è stato affermato che al conduttore d'immobile adibito ad attività commerciale stagionale compete l'indennità di avviamento, almeno ogni qual volta la cessazione del rapporto sia dovuta non a mancata manifestazione della volontà del conduttore di rinnovare il rapporto al termine della prima, seconda, terza, quarta e quinta stagione (situazione da equiparare ad una disdetta o recesso da parte del conduttore medesimo), bensì alla scadenza naturale del rapporto, per insussistenza di un obbligo normativo del locatore di garantire la locazione stagionale oltre il sesto anno (Trib. Lecce 25 giugno 1998).

È stato viceversa stabilito, più di recente, che, in caso di cessazione del rapporto di locazione stagionale, il conduttore non ha diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento, prevista dall'art. 34 l. n. 392/1978, in quanto il tenore letterale della norma consente di ritenere che il legislatore, con il richiamo alle locazioni di immobili relative alle attività di cui ai nn. 1) e 2), abbia inteso escludere le locazioni stagionali disciplinate dall'art. 27, comma 6, l. n. 392/1978. La Suprema Corte svolge il proprio ragionamento a partire dall'adesione alla configurazione della locazione stagionale come pluralità di rapporti, distinti ancorché collegati (Cass. III, n. 12076/2002).

Nella locazione stagionale non assume rilievo decisivo la previsione del recesso: «La locazione di immobile stagionale è caratterizzata dalla durata iniziale limitata al tempo in cui l'attività che il conduttore può esercitare nell'immobile é economicamente vantaggiosa e, quindi, dal collegamento funzionale del bene locato con l'esercizio di tale attività e dalla mancanza di interesse del conduttore alla utilizzazione del bene per il tempo residuo alla stagione, nonché dalla rinnovabilità del contratto, ad nutum del conduttore, per il medesimo periodo in cui ricorrono le dette condizioni, per un massimo di sei anni, con la facoltà del locatore di richiedere annualmente l'aggiornamento del canone. Non ha, invece, alcun rilievo caratterizzante l'eventuale facoltà di recesso del conduttore, essendo la stessa prevista dal comma 7 dell'art. 27 l. n. 392/1978 per qualsiasi locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo» (Cass. III, n. 7687/2008).

È utile infine rammentare una fattispecie di locazione stagionale di un campeggio, riguardo alla quale è stato osservato che, in caso di rapporto locativo avente ad oggetto un terreno adibito stagionalmente a campeggio turistico, costituisce grave inadempimento del conduttore la realizzazione di opere abusive non autorizzate che arrecano danno al fondo impedendone la razionale coltivazione nel periodo di chiusura del campeggio, come contrattualmente stabilito fra le parti, per cui si determina la risoluzione del contratto (Trib. Vallo della Lucania 11 luglio 1990; Trib. Vallo della Lucania 11 luglio 1987).

Locazioni di aree nude

Nel vigore della disciplina vincolistica l'assoggettamento del contratto di locazione di aree nude alla normativa speciale era discusso.

Da un lato – limitando le citazioni a due pronunce coeve, a scopo semplicemente esemplificativo – si riteneva che «le norme che disciplinano la proroga delle locazioni di immobili urbani non sono applicabili alle locazioni di nude aree» (Cass. III, n. 5488/1980), dall'altro lato si affermava talora il contrario per il caso in cui le parti avessero «concordemente pattuito come uso esclusivo dell'area la costruzione di un edificio da destinare ad attività commerciale od industriale» (Cass. III, n. 5438/1980). Tuttavia, si può senz'altro dire che nel quadro di applicazione della legislazione vincolistica l'opinione assolutamente prevalente era nel senso dell'esclusione dal suo ambito di applicazione delle locazioni di aree nude. L'intera legislazione vincolistica, infatti, veniva intesa dalla giurisprudenza come disciplina eccezionale rispetto alla previsione del codice civile, diretta a riequilibrare il mercato delle locazioni, distorto per effetto di un'offerta di immobili – appartamenti per uso abitativo o professionale, locali per uso commerciale – di gran lunga inferiore alla domanda in costante incremento. Conseguente ad una simile impostazione era l'inclinazione a guardare in un'ottica restrittiva al campo di operatività delle norme vincolistiche: che, dunque, erano ritenute inapplicabili alle locazioni di aree nude, riguardo alle quali non era riscontrabile una rarefazione dell'offerta rispetto alla domanda.

Con l'entrata in vigore la legge dell'equo canone, l'approccio restrittivo è rimasto vivo, ma si è affiancato ad un diverso atteggiamento che ha fatto leva sulla natura non più eccezionale, ma ordinaria della nuova legge, la quale va tendenzialmente a coprire tutto il campo delle locazioni non abitative, quali che siano le caratteristiche – edificio od area nuda – dell'immobile concesso in godimento. A partire, pressappoco, dal 1985, questo secondo indirizzo si è affermato (vedi, tra le altre, Cass. III, n. 5930/1985; Cass. III, n. 1418/1986; Cass. III, n. 5158/1987), mentre l'altro è stato definitivamente sconfitto. L'orientamento infine prevalso è analiticamente esposto in ciascuna delle sue implicazioni nella testé citata decisione del 1986, con la quale è stato affermato il principio secondo cui: «Le disposizioni degli artt. 27 e 67 della l. n. 392/1978 sul c.d. equo canone, circa la durata (in via ordinaria e transitoria) delle locazioni di “immobili urbani” ad uso diverso da quello abitativo, concernono, in considerazione del dato letterale delle norme medesime, correlato alle finalità complessivamente perseguite dalla citata legge (rivolta a superare la precedente regolamentazione d'emergenza attraverso una disciplina organica e tendenzialmente completa dei rapporti locativi), gli immobili di qualunque specie che siano ubicati nell'ambito del territorio oggetto della normativa urbanistica e che siano adibiti ad una delle attività contemplate nei primi due commi del suddetto art. 27 (industriali, commerciali, artigianali, ecc.), e, quindi, includono le superfici inedificate od aree nude (nella specie, terreno adibito a deposito di materiali), le quali, pur senza attrezzature artificiali od edificatorie, costituiscano corredo e supporto dell'organizzazione di quelle attività, ancorché in termini di accessorietà e non indispensabilità. Tale principio non subisce delimitazioni od esclusioni per il caso in cui, nel concedersi il godimento di una di dette aree, si contempli la facoltà del conduttore di costruirvi dei manufatti, con o senza l'obbligo di rimuoverli alla cessazione del rapporto, trattandosi di patti che rientrano nell'ambito della tutt'ora vigente disciplina dei miglioramenti e delle addizioni dettata dagli artt. 1592 e 1593 c.c., e non consentono di per sé una qualificazione del negozio come contratto misto o comunque diverso dalla locazione». Con tale pronuncia la Suprema Corte ha in breve sottolineato come la normativa posta dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 sia senz'altro diretta a tutelare i conduttori esercenti le attività ivi determinate, senza alcuna limitazione né in ragione della dimensione dell'attività esercitata, né in relazione all'importanza funzionale dell'immobile nello svolgimento della medesima, sicché: «La rilevata interpretazione della norma dell'art. 27 [...] batte in breccia per le riferite osservazioni la diversa opinione che questa Corte ha talvolta assunto al riguardo ed in ispecie non riceve smentita in quella specifica considerazione dell'inoperatività della legge dell'equo canone in relazione alla configurazione non di locazione bensì di un contratto misto nella concessione del godimento di area per cui [...] sia data facoltà al conduttore di costruirvi dei manufatti [...], dovendosi riflettere che una tale pattuizione non comporta alcuna deviazione o snaturamento dello schema negoziale della locazione, atteso che... una tale previsione si appalesa come la traduzione negoziale della disciplina dei miglioramenti e delle addizioni dettata dagli artt. 1592 e 1593 c.c. per la locazione con una normativa che trova tutt'ora residuale vigore nella compatibilità con la nuova disciplina della legge del 1978 nonché nell'assenza di una sua specifica regolamentazione al riguardo» (Cass. III, n. 1418/1986).

In seguito, quando è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 27 e 38 l. n. 392/1978, il giudice delle leggi l'ha disattesa, constatando che, per diritto vivente, la disciplina denunciata era viceversa applicabile anche alle aree nude (Corte Cost., n. 596/1987).

Successivamente l'atteggiamento della giurisprudenza può dirsi stabilizzato nel senso indicato. Senza pretesa di completezza e limitando le citazioni alla giurisprudenza di legittimità si rammentano Cass. III, n. 2069/2004, concernente un'area nuda destinata a segheria e commercio di legname; Cass. III, n. 4157/1999, concernente un'area nuda utilizzata per accedere ad una cava; Cass. III, n. 6200/1995, concernente un'area nuda destinata dal conduttore, secondo le previsioni contrattuali, all'installazione di una cabina per servizio automatico di fotografie e fotocopie; Cass. III, n. 8386/1992, concernente un'area nuda utilizzata per la custodia di autoveicoli; Cass. III, n. 2390/1991, concernente un terreno da destinare per l'esercizio commerciale di una stazione di rifornimento di carburante; Cass. III, n. 6537/1990, concernente una stazione di servizio per la vendita di carburante; Cass. III, n. 161/1990, concernente aree nude destinati ad esercizio di attività agricole connesse; Cass. III, n. 3465/1989, concernente un'area di terreno da adibirsi a deposito e vendita di materiali edili; Cass. III, n. 5158/1987, concernente un terreno adibito ad attività commerciale di manufatti per l'edilizia; Cass. III, n. 2112/1987, concernente un'area urbana adibita a parcheggio auto; Cass. III, n. 3993/1986, concernente un terreno con sovrastante impianto per la distribuzione di carburante; Cass. III, n. 1285/1985, concernente un terreno da destinarsi a stabilimento balneare; Cass. III, n. 6384/1985, concernente un'area nuda adibita a parcheggio urbano; Cass. III, n. 6344/1985, concernente un'area destinata all'installazione di un prefabbricato per attività commerciale; Cass. III, n. 5930/1985, concernente un'area destinata ad impianto di autolavaggio.

Dimensioni dell'immobile

Nessun rilievo possiedono, ai fini dell'applicazione della disciplina locatizia e, in particolare di quella dettata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978, le dimensioni dell'immobile locato.

L'immobile può consistere anche semplicemente in una vetrinetta (Trib. Milano 7 giugno 1997), o nella facciata esterna di un edificio (Trib. Genova 30 maggio 1995; Pret. Milano 30 maggio 1994).

In linea generale, dunque, per verificare se un determinato rapporto sia assoggettabile alla disciplina dell'art. 27 l. n. 392/1978, il giudice deve unicamente accertare se l'immobile oggetto della locazione sia destinato ad uno degli usi previsti dalla legge.

Locazione di farmacia e questioni applicative connesse

La disciplina dettata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 si applica anche al caso particolare della locazione di farmacia. Con la l. n. 475/1968 – ha infatti osservato la Suprema Corte – vi è stato l'esplicito riconoscimento del carattere di azienda commerciale alla farmacia con la legittimità della vendita di prodotti parafarmaceutici, attività per la quale viene applicata la disciplina del commercio (Cass. III, n. 1149/1986). Ne consegue, in particolare, che in caso di cessazione del rapporto contrattuale di locazione di immobile, ove è ubicata la farmacia, spetta al titolare il diritto di prelazione e l'indennità di avviamento commerciale.

In caso di locazione di immobile adibito a farmacia, si presentano talune peculiarità con riguardo all'aspetto del rilascio. Occorre in primo luogo considerare la perdurante vigenza della disposizione secondo cui non può essere disposta l'esecuzione della sentenza di sfratto da locali adibiti a farmacie senza la previa previa autorizzazione prefettizia (art. 35, l. n. 253/1950; articolo abrogato dall'art. 24 del d.l. n.112/2008, con la decorrenza prevista dal comma 1 del medesimo articolo 24; successivamente l'efficacia del provvedimento è stata ripristinata a norma dell'art. 3, comma 1-bis, del d.l. n. 200/2008; da ultimo, l'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 179/2009, ha dichiarato indispensabile la permanenza in vigore della norma).

Quest'ultima disposizione – ha stabilito la Suprema Corte – non può considerarsi tacitamente abrogata, ai sensi dell'art. 84 l. n. 392/1978, dall'art. 56 della medesima legge, che attribuisce al giudice di cognizione il potere di fissare la data di esecuzione del rilascio dell'immobile locato, dovendosi escludere ogni incompatibilità di quest'ultima norma, che tende ad assicurare il contemperamento degli interessi del conduttore e del locatore, con la prima, che, pur incidendo, come l'art. 56, sulla fase esecutiva, persegue un interesse che si definisce pubblico in funzione del carattere pubblico dell'attività farmaceutica. Non vale in contrario, anzitutto, l'argomentazione che l'art. 56 l. n. 392/1978 abbia innovato in modo radicale la disciplina della materia rispetto al regime della cosiddetta «graduazione» che risaliva sostanzialmente alla legge del 1950. Difatti, pur non considerando decisivo il rilievo che l'art. 56 citato attribuisce al giudice di cognizione il potere di fissare la data di esecuzione per il rilascio, mentre l'art. 35 di cui si tratta opera in sede di esecuzione (perché e il provvedimento del giudice e il provvedimento dell'autorità amministrativa vengono ad incidere sulla fase esecutiva), non si può ritenere che l'applicazione della prima norma escluda l'applicazione della seconda (in relazione a locazione di immobile adibito ad esercizi di farmacia), considerando che la finalità di detta prima norma è il contemperamento degli interessi del conduttore e del locatore, mentre l'art. 35 è posto a salvaguardia di un interesse che si specifica pubblico in funzione del carattere pubblicistico dell'attività farmaceutica. Peraltro, l'art. 56 attribuisce al giudice anche poteri discrezionali nella fissazione della data di esecuzione, mentre l'art. 35 richiede per disporre (o richiedere) l'esecuzione della sentenza di sfratto un atto dell'autorità amministrativa, per cui si tratta di norme di portata diversa che non consente neppure di ritenere che l'art. 56 sia norma esaustiva, nel senso che il giudice possa in ipotesi considerare, nell'ambito della stessa norma, le esigenze specifiche relative al servizio farmaceutico. Deve altresì osservarsi che se il citato art. 56 e l'intera legge del 1978 non hanno richiamato l'art. 35 della legge del 1950, tanto non significa che il legislatore del 1978 non abbia inteso accordare ulteriormente la tutela di quest'ultima norma riguardante le locazioni dei locali adibiti all'esercizio di farmacie. Si è detto che l'art. 35 ha finalità pubblicistiche. Può aggiungersi che tale norma (come tutta la legislazione vincolistica) è stata dettata in considerazione della penuria di immobili, penuria considerata ancora nella legge del 1978 con perduranti limitazioni in materia di locazioni: sicché si ha conferma che l'art. 35 è rimasto in vigore, mancando nella legge del 1978 un'abrogazione espressa specifica nella norma e non sussistendo l'incompatibilità di cui si è trattato (Cass. III, n. 10619/1993). L'indirizzo è ribadito da altre pronunce (Cass. III, n. 10032/1998; Cass. III, n. 8784/1994; Cass. III, n. 3976/1994).

Del tutto isolata, dunque, una decisione secondo cui la menzionata norma è incompatibile con il sistema della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 6272/1988), ove si consideri, per di più, che la perdurante vigenza dell'art. 35 è stata implicitamente affermata anche dalla Corte costituzionale, che ne ha ribadito la costituzionalità (Corte cost., n. 579/1987), dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma denunciata. Successivamente il giudice delle leggi è nuovamente intervenuto sulla medesima disposizione dichiarando la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale di essa, nella parte in cui attribuisce al Comune il potere di autorizzare l'esecuzione degli sfratti dai locali adibiti ad uso di farmacia, senza prevedere un limite temporale all'efficacia del provvedimento che nega l'autorizzazione o, in subordine, senza prevedere un indennizzo per l'ingiusta compressione del diritto del locatore. È stato osservato che la ratio della norma è quella di tutelare l'interesse pubblico sotteso alla localizzazione delle farmacie, interesse che ha durata potenzialmente indeterminata, e che, anche secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, le vicende relative alla esecuzione dello sfratto degli immobili adibiti a farmacia non incidono sugli aspetti civilistici del rapporto locativo e non precludono perciò l'applicabilità dell'art. 1591 c.c. per quanto riguarda il risarcimento del danno subito dal locatore a causa del ritardo nel rilascio dell'immobile (Corte cost., n. 416/2002).

Nella materia è stato anche di recente ribadito che l'autorizzazione prevista dall'art. 35 della l. n. 253/1950 (per l'esecuzione dello sfratto dei locali di una farmacia) è espressione del potere amministrativo – che è posto, non già a presidio di un privilegio personale del titolare della farmacia insediata nell'immobile da rilasciare, ma a tutela del prevalente interesse pubblico alla presenza e alla corretta ubicazione del servizio farmaceutico sul territorio – presenta caratteristiche eccezionali sotto il profilo dell'interferenza di un potere amministrativo sull'esecuzione di provvedimenti giurisdizionali e della conseguente compressione del diritto soggettivo (del locatore), così che il sindaco non può derogare tale autorizzazione, a meno che non risulti manifestamente l'impossibilità del trasloco della farmacia, stante l'irreperibilità (di fatto o di diritto) di altri locali idonei nella zona di riferimento, che non si configura quando in tale zona esista un mercato d'immobili da destinare ad uso non abitativo, pur in carenza di un'offerta di locali idonei a soddisfare le preferenze commerciali del titolare della farmacia e di una loro inammissibile individuazione da parte del Comune (T.A.R. Liguria, n. 748/2016; v. pure T.A.R. Salerno, n. 1069/2014).

Occorre aggiungere che la disposizione di cui all'art. 35 attiene alla fase esecutiva del provvedimento di rilascio e non si pone quale presupposto della pronuncia, in sede di cognizione ordinaria, in ordine alla cessazione del rapporto locativo da emettere in sede di cognizione (Cass. III, n. 8784/1994; Cass. III, n. 4873/1989). Ed allora, non v'è dubbio che il locatore abbia pur sempre interesse ad agire per ottenere la formazione del titolo di rilascio anche prima dell'autorizzazione (Pret. Firenze 2 febbraio 1996; Trib. Firenze, 20 dicembre 1993; Trib. Pistoia 27 luglio 1988).

La giurisprudenza di legittimità, poi, ha chiarito, sempre in tema di operatività del citato art. 35, che la mancanza dell'autorizzazione amministrativa da esso prevista, incidendo sull'attuazione dell'azione esecutiva di rilascio dell'immobile adibito a farmacia, non esclude la mora del conduttore nella restituzione della cosa locata e, quindi, la sua responsabilità ai sensi dell'art. 1591 c.c. (Cass. III, n. 10032/1998, richiamata e condivisa da Corte cost., n. 416/2002). In senso opposto si è in passato pronunciata una non condivisibile pronuncia secondo cui, in tema di sfratto da locali adibiti all'esercizio di farmacia, l'art. 35 comporta che la responsabilità risarcitoria del locatario per ritardato rilascio è configurabile solo a partire dal giorno dell'autorizzazione, in ragione dell'esclusione della colpevolezza del conduttore-farmacista (Cass. III, n. 8842/1991).

Quanto al soggetto cui spetta l'iniziativa di richiedere l'autorizzazione all'esecuzione dello sfratto, esso è da identificare nel locatore. Ciò la Suprema Corte ha chiarito nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 35 in esame, proposta in considerazione del limite che la norma porrebbe alla esecuzione della sentenza di rilascio bloccata, sine die, dalla volontà del conduttore-farmacista, dal quale dipenderebbe la presentazione della richiesta di autorizzazione, dovendosi ritenere che legittimato alla presentazione di quella richiesta sia, invece, il locatore (Cass. III, n. 10619/1993; contra, App. Firenze 11 maggio 1996, secondo cui la richiesta dell'autorizzazione e le conseguenti iniziative per il perfezionamento dell'iter amministrativo spettano al conduttore in base al dovere di diligenza di cui all'art. 1176 c.c., che si arresta soltanto a fronte di fatti o cause a lui non imputabili).

Quanto all'organo competente ad autorizzare lo sfratto, si è affermato che tale potere è passato alle autorità regionali o locali: «Non vi è dubbio che l'imposizione al locatore (il quale intenda far eseguire una sentenza di sfratto) dell'onere di richiedere l'autorizzazione in questione quando conduttore è una farmacista, non soddisfa certamente una esigenza di carattere generale in tema di locazioni (atteso che per nessun altro conduttore viene richiesta l'autorizzazione in questione), ma si riconnette esclusivamente ad una specifica esigenza pubblica di carattere sanitario (che può trovare spiegazione nei particolari requisiti di ubicazione cui deve rispondere un locale adibito a farmacia, per cui in determinate ipotesi il rilascio di questo potrebbe arrecare un danno – sul piano dell'assistenza farmaceutica – all'intera collettività). Sulla base di tale premessa è chiaro, pertanto, che la norma di cui all'art. 35 della l. n. 253/1950 (a prescindere dalla sua collocazione formale in una legge di carattere generale recante disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani) attribuiva la competenza a rilasciare l'autorizzazione de qua al Prefetto non già nella sua qualità di autorità preposta all'ordine ed alla sicurezza pubblica in genere sebbene solamente nella qualità di massima autorità all'epoca preposta, in ambito provinciale, alla sanità pubblica e, quindi, anche al settore farmaceutico. In relazione a quanto precede, diviene altresì evidente che, a seguito del passaggio delle attribuzioni amministrative concernenti la tutela della sanità pubblica al Ministero della sanità ed ai suoi organi periferici (in forza della l. n. 296/1958 e norme di attuazione) e poi alle Regioni (in forza del d.P.R. n. 4/1972 e successive norme statali di trasferimento, come pure delle conseguenti leggi regionali di disciplina della materia) nonché, infine, anche alle Unità sanitarie locali di cui alla l. n. 833/1978, il Prefetto ha perso ogni competenza in materia, dovendosi ad esso intendere sostituite in tutte le ipotesi nelle quali, come nel caso di specie, dalla normativa vigente viene attribuita una potestà avente specifiche finalità di tutela di interessi di carattere sanitario (tra i quali è senz'altro da ascriversi la cura del buon andamento del settore farmaceutico cui come si è sopra detto – fa evidentemente riferimento l'autorizzazione prevista dal precitato art. 35 della l. n. 235/1950) le competenti autorità (a seconda dei casi) regionali o locali. Fondata, quindi, appare la principale censura dell'appellante relativa alla incompetenza del Prefetto a concedere l'autorizzazione allo stato attuale della legislazione, dovendosi invece tale competenza ritenere trasferita all'autorità preposta secondo la normativa di settore attualmente vigente nella Regione [...] alla vigilanza ed alla cura del corretto andamento dell'assistenza farmaceutica» (Cons. St., n. 548/1984).

Quanto al contenuto del sindacato da eseguirsi ai sensi dell'art. 35, l. n. 253/1950, è stato ritenuto legittimo il nulla osta – rilasciato in questo caso dal Comune – funzionale all'esecuzione dello sfratto per finita locazione di una farmacia quando tale provvedimento è il frutto di una adeguata verifica dell'amministrazione in ordine al permanere del livello di assistenza farmaceutica erogato alla popolazione pur con il venir meno della farmacia oggetto di sfratto (Cons. St., n. 1515/1998). È stato tuttavia anche ritenuto che l'art. 35 precedentemente trascritto debba essere interpretato nel senso che per legittimare il diniego del nulla osta da parte della competente autorità sanitaria occorre non la dimostrazione che il locale è indispensabile per evitare la necessità di un trasloco, ma la dimostrazione che il rilascio dei locali comporta l'impossibilità della prosecuzione del pubblico servizio, stante l'accertata impossibilità di reperire altri locali idonei nella zona assegnata alla farmacia dalla pianta organica (T.A.R. Umbria 5 giugno 1999).

In termini non dissimili è stato detto che l'art. 35 mira a contemperare l'esigenza della collettività a non rimanere sprovvista dell'assistenza farmaceutica con quella del privato proprietario, mentre, a differenza dell'ipotesi di trasferimento della farmacia, non ha alcun rilievo la posizione del farmacista, tutelabile solo davanti al giudice ordinario (T.A.R. Emilia-Romagna 13 luglio 1998).

Occorre, infine, interrogarsi sul rapporto tra l'art. 35 citato e l'art. 56 l. n. 392/1978 in tema di fissazione del termine per il rilascio. Secondo un giudice di merito la disposizione dell'art. 35 non preclude la fissazione del termine di esecuzione del rilascio ai sensi dell'art. 56 l. n. 392/1978 da parte del giudice della cognizione, operando le due norme su piani differenti: «L'uno e l'altro termine – quello di cui all'art. 56 l. n. 392/1978 e quello previsto dall'art. 35 l. n. 253/1950 – viaggiano, per così dire, parallelamente, senza interferire cioè l'uno con l'altro. Dovrebbe essere facilmente comprensibile, in altri termini, che il termine dettato dall'art. 56 ha, come di regola, la finalità di tutelare il conduttore e di permettergli di apprestare il trasloco e reperire altro immobile, mentre il termine considerato dall'art. 35 serve a far sì che la popolazione non resti privata di una farmacia: potrà accadere, dunque, che il prefetto autorizzi lo sfratto il giorno dopo la cessazione del rapporto, ma il conduttore possa permanere nel godimento della cosa locata fino allo scadere del termine fissato dal giudice, ovvero, al contrario, che, una volta decorso questo termine, lo sfratto non possa essere eseguito per la mancata autorizzazione del Prefetto» (Trib. Roma 19 marzo 2002).

Nel senso della compatibilità tra le due norme si era del resto già espressa anche la Suprema Corte (Cass. III, n. 10619/1993), che aveva egualmente posto in rilievo la differente portata e finalità delle medesime. Difformemente, nel senso che in mancanza dell'autorizzazione amministrativa il giudice che dispone il rilascio dell'immobile adibito a farmacia dovrebbe astenersi dal fissare il termine dell'esecuzione ai sensi dell'art. 56 l. n. 392/1978, v. una precedente pronuncia di merito (Trib. Roma 15 marzo 1988).

Va quindi rammentata l'ulteriore disposizione secondo cui: «Le domande relative ai trasferimenti di cui ai due articoli precedenti debbono essere prodotte al prefetto entro un termine fissato dal prefetto stesso, con speciale avviso, che viene notificato al sindacato provinciale dei farmacisti e pubblicato, per quindici giorni consecutivi, all'albo della prefettura e a quella del comune. Le domande debbono essere corredate dei titoli e documenti che dimostrino nei richiedenti il possesso dei mezzi sufficienti per il regolare e completo esercizio della farmacia nella nuova sede in cui dovrebbe essere trasferita, nonché, nel caso dell'art. 23, dei mezzi per pagare l'indennità di avviamento e quella presumibile per il rilievo degli arredi, provviste e dotazioni attinenti all'esercizio già esistente. Il prefetto sentirà anche il parere del sindacato provinciale dei farmacisti prima di emettere il provvedimento» (art. 25 r.d. n. 1706/1938). In proposito un giudice amministrativo ha affermato che i provvedimenti di sfratto nei confronti di farmacie debbono essere preceduti, ai sensi dell'art. 25 citato, dal parere dell'ordine dei farmacisti, da ritenersi obbligatorio e non meramente facoltativo, data la potenziale lesività dell'interesse pubblico all'equilibrata pianificazione territoriale delle farmacie, insita nell'esecuzione dello sfratto (T.A.R. Puglia, n. 605/1989). Al contrario, un altro giudice di merito ha affermato che, nel caso di immobile adibito a farmacia, la mancanza del parere dell'ordine dei farmacisti, richiesto dall'art. 25 in questione con riferimento alla diversa ipotesi del trasferimento di una farmacia non osta all'emissione del provvedimento di rilascio per finita locazione: «Il ragionamento – per la verità piuttosto sbrigativo – del T.A.R. pugliese si compendia in ciò che il legislatore, nell'assoggettare all'autorizzazione prefettizia lo sfratto di una farmacia, con l'art. 35 l. n. 253/1950 – secondo cui “non può essere disposta l'esecuzione della sentenza di sfratto da locali adibiti a farmacie senza la previa autorizzazione prefettizia” – avrebbe altresì implicitamente assoggettato tale autorizzazione al parere dell'ordine professionale, considerato come parere obbligatorio, previsto in caso non di sfratto, ma di trasferimento di una farmacia. Si tratta, secondo questo tribunale, di un'opinione immeritevole di consenso. Sostenere che il parere dell'ordine professionale sia previsto in entrambi i casi, nulla stabilendo l'art. 35 l. n. 253/1950 in proposito, significa fare applicazione dell'istituto dell'analogia legis. Ma, naturalmente, l'analogia richiede il presupposto dell'eadem ratio, che in questo caso manca. In effetti, le due ipotesi del trasferimento e dello sfratto di una farmacia sono notevolmente distinte. Entrambe, infatti, rinviano ad una valutazione dell'eventuale pubblico interesse a mantenere la farmacia in loco. Solo nel caso del trasferimento, però, occorre altresì valutare l'attitudine del farmacista a gestire la nuova farmacia, mentre nessuna valutazione di tal genere è richiesta per valutare – per così dire – l'attitudine del farmacista a sloggiare. Ed è evidente che il parere dell'ordine professionale ha rilievo proprio sotto il profilo delle capacità del farmacista di condurre la farmacia presso la quale intende trasferirsi: occorrendo valutare il «possesso dei mezzi sufficienti per il regolare e completo esercizio della farmacia». Nel caso del semplice sfratto invece, la valutazione dell'interesse pubblico implicato – non già delle attitudini del farmacista – è adeguatamente assicurata dall'autorizzazione prefettizia, sicché il parere professionale non serve a nulla. Insomma, il legislatore, nell'art. 35, non ha richiamato il menzionato parere perché esso non andava richiamato, non per averlo dimenticato. Volendo dare per ammesso che il parere di cui all'art. 25 occorre anche nel caso dell'art. 35, dovrebbe comunque constatarsi che il congegno normativo così delineato in occasione della costituzione del titolo esecutivo non viene in ogni caso in questione. Il provvedimento di cui al citato art. 35 si colloca infatti sul versante dell'esecuzione del titolo di rilascio e non della sua formazione [...]. Ma, allora, seppure il parere dell'ordine professionale andasse per via d'interpretazione analogica ad integrarsi con il precetto posto dall'art. 35, apparirebbe comunque evidente che il menzionato parere potrà avere rilievo solo in sede esecutiva (Trib. Roma 19 marzo 2002).

Resta ancora da considerare che l'imposizione del vincolo di interesse storico-artistico sull'immobile e sul negozio ove si svolge l'attività di farmacia non impedisce l'esecuzione per il rilascio degli stessi sulla base di un titolo per finita locazione, perché il vincolo posto dalla competente autorità amministrativa comporta solo il divieto di svolgere nell'immobile attività in contrasto con l'interesse storico-artistico e non anche la necessità di persistenza dell'attività da parte del conduttore farmacista: «Il terzo motivo di appello ripropone la questione del vincolo sugli arredi e sui locali imposto dalla Sovrintendenza ed esistente al momento dell'impugnato provvedimento. Posto che il proprietario degli arredi vincolati è l'appellante mentre la proprietà dei locali è della controinteressata e posto che, sempre in o maggio alla pianta organica farmaceutica, l'unico farmacista titolare, che può esercire l'esercizio in loco, è solo il proprietario degli arredi, si sarebbe dovuto opportunamente motivare come si sarebbe potuto salvaguardare l'interesse pubblico con l'allontanamento del conduttore in considerazione sia del determinante apporto che la presenza della farmacia dava alla popolazione residente (come si deduce dal notevole fatturato) sia della circostanza, evidenziata dal parere dell'U.S.L., che in realtà «il vero oggetto del contendere è stato per volontà delle parti trasferito alla fissazione del canone e non riguarda – se non consequenzialmente – il trasferimento per sfratto della farmacia». Anche questo motivo è infondato. Come esattamente osservato dai giudici di primo grado, sulla scorta di un costante orientamento della giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, l'imposizione del vincolo d'interesse storico-artistico sull'immobile e sul negozio ove si svolge l'attività dei conduttore non impedisce l'esecuzione per rilascio del medesimo, sulla base di un titolo di finita locazione, comportando il vincolo semplicemente un divieto di svolgere nell'immobile attività in contrasto con l'interesse storico-artistico, non anche la necessità di persistenza dell'attività da parte del conduttore. Con riguardo a caso identico, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che la controversia promossa dal locatore di un immobile adibito a farmacia per far accertare la cessazione della locazione, a seguito della scadenza contrattuale, nonché condannare il locatario al rilascio, non è condizionata dall'autorizzazione amministrativa prevista dall'art. 35 della l. n. 253/1950 per lo sfratto da farmacie né dall'eventuale sopravvenienza, con provvedimento del Ministero per i beni culturali, di vincolo storico di destinazione del bene a farmacia, il quale non tocca l'efficacia della precedente disdetta e si esaurisce in limitazioni alle facoltà di utilizzo del proprietario senza interferenza sul rapporto privatistico di locazione (Cass. III, n. 1832; Cons. St., n. 819/1990). Come esattamente rileva la difesa dell'appellata, tale irrilevanza è stata opportunamente evidenziata nella motivazione del provvedimento sindacale impugnato, dove si dà espressamente atto dell'avvenuta imposizione del vincolo storico-artistico sui locali e gli arredi della farmacia Due Torri da parte dei Ministero per Beni Culturali e Ambientali, e nondimeno si conclude correttamente che «[...] gli effetti del predetto decreto, al rispetto delle cui determinazioni sono tenuti sia i proprietari degli arredi sia i proprietari dei locali nei quali i primi sono collocati, in alcuna misura interferiscono con l'esercizio delle potestà di cui il presente atto è espressione» (Cons. St., n. 1515/1998).

Gli immobili strumentali all'esercizio delle attività protette

Si è visto che l'elemento determinante per l'individuazione della disciplina giuridica applicabile alla locazione non abitativa è costituito dalla destinazione d'uso dell'immobile, ossia dall'attività alla quale esso è convenzionalmente adibito. Ma, accanto a destinazioni di per se stesse significative – locazione ad uso officina, oppure ristorante, oppure negozio, oppure studio professionale, e così via – ve ne sono altre per così dire neutre: le quali, cioè, non affermano ma neppure negano il nesso di collegamento strumentale, oppure soltanto accessorio, tra il godimento dell'immobile locato e lo svolgimento di una delle attività contemplate dall'art. 27 (ed altresì dall'art. 42) l. n. 392/1978.

Uno dei casi tipici è costituito dalla locazione ad uso di deposito: è ovvio che la locazione di una cantina che una famiglia adibisca a custodia di mobili sovrabbondanti ed inutilizzati non è soggetta alla disciplina in commento, mentre sarebbe difficile negare l'applicazione degli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 nel caso di locazione di un magazzino ove ricoverare – consapevole e concorde il locatore – la merce destinata alla vendita in un coerente locale.

Sorge così il problema di verificare se la legislazione speciale debba trovare applicazione soltanto con riguardo agli immobili direttamente adibiti ad una delle attività protette, ovvero anche con riguardo agli immobili strumentali o complementari all'esercizio di quelle attività. Merita in proposito sottolineare che il rilievo dell'immobile nell'esercizio delle attività protette, ex art. 27 l. n. 392/1978, va individuato «non nella funzione del tutto essenziale, o quanto meno prevalente, dell'immobile per l'esercizio di quelle attività, di tal ché in sua mancanza ne deriverebbe la stessa vanificazione dell'attività protetta, bensì nella necessaria correlazione – spaziale e/o funzionale – alle esigenze oggettive dell'organizzazione imprenditoriale di quelle attività, anche se in posizione non primaria ma benanco accessoria [...]. La stessa espressione adoperata dal legislatore nell'art. 27 [...] (“immobili adibiti ad attività”) è priva di qualunque dato di specificazione o comunque delimitativo, da altro canto il contenuto dell'art. 35 della stessa legge del 1978 [...] nel restringere specificatamente la tutela dell'avviamento [...] escludendola per i locali in cui non vi siano rapporti con gli utenti o consumatori oppure siano interni o complementari, manifesta chiaramente che anche tali immobili, ove utilizzati in corrispondenza delle esigenze dell'esercizio di quelle attività, rientrano nell'ambito regolamentato dell'art. 27 (Cass. III, n. 1418/1986).

Da tali considerazioni discende la regola generale applicabile alla materia, la quale si riassume nella massima, di recente ribadita dalla Suprema Corte, secondo cui: «Con riguardo alla locazione di un immobile ad uso non abitativo diverso da quelli previsti dall'art. 27 l. n. 392/1978, l'applicabilità della disciplina di cui agli art. 27 ss. della legge medesima deve essere affermata quando, pur in difetto di un rapporto pertinenziale (in senso proprio), risulti un collegamento funzionale di detto immobile con una delle attività contemplate dal citato art. 27, svolta in altro locale di cui il conduttore abbia la disponibilità a qualsiasi titolo (proprietà, locazione con altro locatore, comodato ecc.), e risulti altresì che tale collegamento, ancorché discendente da un'autonoma iniziativa del conduttore, debba considerarsi legittimo, sulla base delle originarie clausole contrattuali, ovvero del successivo comportamento delle parti, quale una cosciente tolleranza del locatore ai sensi dell'art. 80 l. medesima» (Cass. III, n. 24035/2009).

Depositi

In tale prospettiva, è stato affermato che, in caso di locazione di immobile ad uso deposito, è applicabile la disciplina degli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 quando, pur in difetto di un rapporto pertinenziale o di servizio rispetto ad altro immobile, detto deposito sia in concreto funzionalmente e/o spazialmente collegato – ancorché per iniziativa del conduttore – all'esercizio di una delle attività contemplate dalla citata disposizione, sempre che tale collegamento risulti legittimo alla luce delle originarie pattuizioni contrattuali o al successivo comportamento delle parti: «Da questa Corte si è costantemente ritenuto che l'art. 27 [...] ha individuato una serie di attività che, conferendo all'immobile in cui esse si svolgono una funzione lato sensu economico-produttiva (nei casi dell'art. 27) oppure sociale (in quelli specificati dall'art. 42), giustifica la particolare durata della locazione c.d. “non abitativa” con la conseguenza che la suddetta disciplina non è estensibile in via diretta ed ordinaria ad un immobile ad uso deposito, salvo che lo stesso non sia in concreto funzionalmente e/o spazialmente collegato con una delle attività considerate dalla detta normativa, divenendo in tal caso incidente la relativa ratio e pienamente giustificata la correlativa applicazione» (Cass. III, n. 89/1991).

La Suprema Corte ha ribadito che per il menzionato collegamento è sufficiente «l'obiettiva e funzionale connessione tra deposito ed esercizio di una delle attività contemplate dall'art. 27, sempre che lo stesso non sia il frutto di un'arbitraria e contestata iniziativa del conduttore, chiarendosi ancora al riguardo la necessità che siffatto uso specifico dell'immobile locato, ancorché realizzato dal conduttore, non risulti illegittimo avuto riguardo alle originarie pattuizioni contrattuali, al comportamento successivo delle parti (desumibile da tutte le circostanze del caso concreto) ed alla normativa applicabile al rapporto» (Cass. III, n. 89/1991). Né occorre, dunque, che il deposito sia una pertinenza dell'immobile destinato all'esercizio dell'attività protetta, mentre è necessaria e sufficiente la complementarietà dell'immobile adibito a deposito rispetto alle attività considerate. I giudici di merito avrebbero dovuto invece considerare – tanto emerge dalla prosa non sempre scorrevole che contraddistingue la pronuncia – che la destinazione dell'immobile a deposito era conforme a contratto e che la locatrice, pur consapevole dell'attività protetta svolta dal conduttore, non aveva spiegato alcuna opposizione alla utilizzazione del deposito in funzione dell'esercizio di quell'attività (Cass. III, n. 89/1991). L'irrilevanza del rapporto pertinenziale ex art. 817 c.c. è anche segnalata, con precipua attenzione, da Cass. III, n. 8871/1987. Ed ancora, in talune pronunce è stato negato rilievo alla circostanza che i diversi locali – il deposito e l'altro immobile destinato all'attività protetta – appartengano a più locatori (Cass. III, n. 3589/1992).

Può inoltre accadere che un altro immobile, oltre al deposito, non vi sia affatto: l'ipotesi è stata scrutinata con riguardo ad un venditore ambulante, in una pronuncia nella quale è stato sottolineato che la destinazione indiretta dell'immobile ad attività commerciale non presuppone necessariamente, come succede per le pertinenze, alcuna relazione con altro bene (Pret. Taranto 15 dicembre 1983).

Per il resto la citata decisione (Cass. III, n. 89/1991) riassume un indirizzo stabilizzato secondo cui la locazione di un immobile ad uso deposito è disciplinata dagli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 solo in presenza di uno stretto collegamento spaziale e/o funzionale con una delle attività di cui allo stesso art. 27 o all'art. 42 della legge medesima (v. Cass. III, n. 1785/1998; Cass. III, n. 6522/1996; Cass. III, n. 5320/1993; Cass. III, n. 326/1990; Cass. III, n. 1829/1987; Cass. III, n. 4599/1986; Cass. III, n. 1418/1986; Cass. III, n. 5775/1982; Cass. III, n. 2943/1986; Cass. III, n. 1814/1984; Cass. III, n. 5020/1983; Cass. III, n. 5775/1982). Anche in tempi meno remoti è stato in termini analoghi ripetuto lo stesso principio: «Il ricorrente ... sostiene che per l'assoggettamento di un locale concesso in locazione ad uso di deposito al regime giuridico degli artt. 27 e 28 della l. n. 392/1978 sarebbe sufficiente il collegamento funzionale del locale deposito ad altro locale adibito ad una attività commerciale, indipendentemente dalla consapevolezza che di tale collegamento avesse il locatore. Lamenta, quindi, che il tribunale abbia, invece, ritenuto che per il conseguimento di tale risultato giuridico fosse indispensabile la conoscenza del collegamento da parte della locatrice. La doglianza non ha fondamento. Sul punto il tribunale si è uniformato all'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 89/1991), secondo cui nell'ipotesi di locazione di un immobile ad uso di deposito l'applicabilità della disciplina di cui agli artt. 27 ss. della l. n. 392/1978 può essere affermata quando, pur in difetto di un rapporto pertinenziale o di servizio, risulti un collegamento funzionale di detto deposito con una delle attività contemplate nell'art. 27 e, altresì, risulti che tale collegamento, ancorché discendente da un'iniziativa del conduttore, sia legittimo, alla stregua delle originarie clausole contrattuali, ovvero del successivo comportamento delle parti (quale una protratta tolleranza del locatore) (Cass. III, n. 11701/2002).

Peraltro, se è vero che rileva la tolleranza del locatore, questi ha d'altro canto titolo a dolersi dell'atteggiamento del conduttore il quale, in difformità dalla iniziale pattuizione, tenda a porre le premesse per assoggettare un rapporto alla disciplina propria delle attività protette. Perciò, poiché la locazione di un immobile ad uso di deposito non è soggetta per ciò solo alla disciplina normativa delle locazioni per uso commerciale, il locatore di un immobile urbano, concesso ad una determinata persona fisica ad uso di deposito, può legittimamente rifiutare il pagamento del canone che detto conduttore intenda eseguire non in nome proprio, bensì quale rappresentante di una società, avendo interesse a che il rapporto di locazione non sia posto in collegamento con l'attività commerciale della società, potendo da tale collegamento derivare un mutamento del regime giuridico del rapporto con la soggezione al regime delle locazioni commerciali (Cass. III, n. 4750/1994).

Un sommario esame della casistica, infine, induce a rammentare Trib. Lecce 11 novembre 1999, concernente la locazione – ritenuta estranea all'ambito di applicazione dell'art. 27 l. n. 392/1978 – di area urbana destinata a posteggio auto, utilizzata dal conduttore anche quale deposito del materiale funzionale all'esercizio dell'attività professionale di intonacatore, nonostante la contestazione del locatore; Trib. Nocera Inferiore 10 luglio 1998, concernente la locazione di un'area nuda destinata alla sosta o al ricovero di automezzi, al deposito dei materiali inerti, ad attività amministrative, all'installazione di una cabina per l'energia elettrica, o comunque ad attività di supporto dell'attività estrattiva vera e propria; Pret. Molfetta 5 giugno 1986, concernente un deposito reti e materiale per la pesca utilizzati in una impresa di pesca marittima; Trib. Milano 17 ottobre 1985, concernente locali adibiti a deposito di merce nell'ambito di un'attività commerciale; Pret. Cremona 22 settembre 1984, concernente un deposito di materiale edile; Pret. Fidenza 10 gennaio 1984, concernente un deposito di materiali per l'attività di idraulico, nel qual caso è stato escluso il collegamento con una attività protetta; Pret. Orsara di Puglia 23 dicembre 1983, concernente un deposito di attrezzi e prodotti agricoli del conduttore dedito professionalmente all'agricoltura; Pret. Amalfi 7 febbraio 1983, concernente un deposito di bevande vendute in un bar gestito dal conduttore; Pret. Foggia 4 marzo 1982, concernente un deposito di mobili collegato funzionalmente ad un esercizio commerciale di vendita; Pret. Sorrento 17 febbraio 1982, concernente un immobile adibito a dépendance di un albergo; Pret. Ravenna 24 luglio 1981, concernente un deposito di pezzi di ricambio di autocarro utilizzato per attività di trasporto per conto terzi.

Autorimesse

La locazione di autorimesse, parcheggi, box e simili pone questioni diverse. In questa sede si esaminerà esclusivamente il problema della soggezione di simili immobili alla disciplina locatizia prevista per le attività protette di cui agli artt. 27 e 42 l. n. 392/1978. Da questo punto di vista l'argomento si presenta in termini non dissimili da quello dei depositi.

Vi è, difatti, sulla base delle stesse considerazioni, una tesi favorevole all'inclusione delle locazioni concernenti autorimesse et similia nell'ambito di applicazione dei citati artt. 27 e 42 l. n. 392/1978, quando tali immobili assumano un rilievo strumentale o complementare rispetto all'esercizio di un'attività protetta. L'applicabilità della disciplina, in particolare, è stata correttamente affermata con riguardo all'ipotesi di locazione di box per il ricovero di autoveicoli utilizzati nell'esercizio di attività commerciale (Trib. Padova 17 giugno 1983). Ed ancora, con riguardo ad un'autorimessa usata anche quale luogo di deposito dei materiali dei quali il conduttore, idraulico, si avvaleva per l'esercizio della sua attività di lavoro autonomo, si è precisato che nell'ambito di applicazione dell'art. 27 l. n. 392/1978 non rientrano «tutti i locali ad uso diverso da quello abitativo che semplicemente servano in qualche modo per l'esercizio di taluna delle attività indicate nella disposizione, occorrendo invece un collegamento diretto e funzionale con l'esercizio di tali attività» (Pret. Fidenza 10 gennaio 1984).

In senso opposto, si trova però affermato che: «Il contratto di locazione d'un immobile destinato ad autorimessa privata di un commerciante (nella specie, panettiere) per il ricovero del veicolo utilizzato per la distribuzione della merce non è soggetto alla legge sull'equo canone, in quanto non è indispensabile all'attività commerciale, ma semplicemente funzionale ed accessorio all'esercizio che si svolge in apposito locale» (Pret. Milano 24 gennaio 1983).

In tempi risalenti già a questo millennio la questione è stata affrontata da un giudice di merito in vista del riconoscimento – negato – del diritto di prelazione su un'area nuda condotta in locazione in forza di un autonomo contratto e destinata esclusivamente a parcheggio gratuito dei clienti di un contiguo esercizio commerciale del conduttore. In tale occasione il giudice sembra aver posto l'accento sull'insussistenza di un vincolo pertinenziale tra l'uno e l'altro immobile, che, invece, non possiede alcun decisivo rilievo – come si è visto con riguardo ai depositi – e sulla mancanza del requisito dell'apertura al pubblico, che è necessario ai fini dell'applicazione di taluni istituti, ma non della soggezione, in generale, agli artt. 27 ss. l. n. 392/1978 (Trib. Verona 20 giugno 2000).

La diversità di posizioni si ripropone con specifico riferimento alla fattispecie del box per ricovero di un taxi: per la soggezione della locazione all'art. 27 l. n. 392/1978, v. Trib. Milano 14 marzo 1983; in senso opposto Trib. Milano 11 marzo 1982, e Pret. Milano 23 marzo 1981, secondo cui la legge dell'«equo canone» non può riguardare anche quegli immobili che servano solo in via indiretta e mediata all'esercizio di una delle attività di cui all'art. 27, quale è appunto il caso del tassista o del rappresentante di commercio o del medico, i quali usino il box per ricovero di un'autovettura normalmente impiegata per l'esercizio delle rispettive professioni.

Ovviamente, qualora la locazione dell'autorimessa non ricada nel campo di applicazione degli artt. 27 ss. l. n. 392/1978, e neppure nell'ambito delle locazioni abitative, essa rimane assoggettata alle regole codicistiche (v., p. esempio, Pret. Santhià 19 gennaio 1983). Così, ad esempio, la successione nel rapporto di locazione di un garage privato, ove sia escluso il rapporto di pertinenza con altro immobile condotto in locazione con le attività previste dall'art. 27 l. n. 392/1978, è regolata, in caso di morte del conduttore, dall'art. 1614 c.c. e dalla disciplina generale delle successioni per causa di morte (Cass. III, n. 12918/1982). La pronuncia dà per scontato – come in effetti è – che la locazione di un'autorimessa non adibita all'esercizio di attività protette ex artt. 27 ss. l. n. 392/1978, né pertinenziale ad un immobile locato ad uso abitativo, sia regolata esclusivamente dal codice civile: «Il contratto di locazione dedotto in giudizio ha ad oggetto un immobile adibito a garage. La sentenza del tribunale di Agrigento, sul punto non impugnata, ha escluso l'esistenza di un rapporto di pertinenza tra il vano oggetto di questo contratto ed altro immobile ... Il contratto in esame non può dunque essere considerato sottoposto alla disciplina dettata dalla l. n. 392/1978, né a quella concernente le locazioni di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione né a quella concernente le locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, quanto a questa seconda per non essere stato allegato un rapporto di necessaria correlazione spaziale o funzionale con una delle attività prese in considerazione dalla legge. La successione nella titolarità passiva del contratto resta dunque regolata dalle disposizioni dettate dal codice civile. Questo, in materia di locazione di fondi urbani, regola la continuazione della locazione dopo la morte dell'inquilino e all'art. 1614 c.c. contempla l'ipotesi del contratto, stipulato con divieto di sublocazione, destinato a durare ancora per più di un anno dopo la morte del conduttore, ipotesi in cui è accordato agli eredi il diritto di recesso» (Cass. III, n. 12918/1992).

La durata

Con riguardo al tema della durata dei contratti di locazione ad uso diverso dall'abitazione, nel commentare l'art. 27 l. n. 392/1978, occorre essenzialmente limitarsi a constatare che detta durata è stabilita nel minimo in un sessennio, tranne per le locazioni con destinazione alberghiera ed equiparata, ivi compresi i teatri, nel qual caso la durata base è novennale. È fatta salva la disciplina delle già considerate locazioni transitorie.

A ciò si deve aggiungere che detta previsione è presidiata dal fondamentale congegno stabilito dall'art. 79 della stessa legge, che sanziona di nullità «ogni pattuizione diretta al limitare la durata legale del contratto».

La previsione in discorso opera non soltanto quando il contratto nulla preveda al riguardo (Cass. III, n. 2022/1984), ma anche, e soprattutto, a fronte di clausole contrattuali di segno diverso, dirette a stabilire, beninteso, una durata inferiore, nulla impedendo alle parti di pattuire una durata del contratto di locazione non abitativa maggiore di quella minima normativamente prevista. In caso di durata inferiore a quella legale opera il meccanismo della sostituzione automatica della clausola nulla con quella conforme a diritto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1419, comma 1 e 1339 c.c. In tal senso si trova anche di recente ripetuto che, in tema di locazione ad uso non abitativo, ove le parti abbiano concordato una durata del contratto inferiore al sessennio imposto per legge, la relativa clausola è destinata ad essere sostituita di diritto, ex art. 1419, comma 2 c.c., dalla norma imperativa di cui all'art. 27, comma 4, l. n. 392/1978, senza che ne resti travolto l'intero contratto. Né rileva che le parti abbiano convenuto il venir meno dell'intero negozio in caso di invalidità anche di una sola clausola (nella specie, per essere il consenso viziato da errore di diritto essenziale), atteso che l'essenzialità di tale clausola è esclusa dalla stessa previsione della sua sostituzione con una regola posta a tutela di interessi collettivi di preminente interesse pubblico (Cass. III, n. 20974/2018).

Occorre ancora rammentare che l'art. 79 già citato è stato novellato nel 2014, sicché, con riguardo ai contratti di conclusi a far data dal 12 novembre di quell'anno, non trova più applicazione quando il contratto, anche se concernente una locazione alberghiera, preveda un canone annuo superiore ai 250.000 € e non abbia ad oggetto i locali qualificati di interesse storico. In presenza di un canone di tale entità, è facoltà delle parti concordare contrattualmente termini e condizioni in deroga alle disposizioni della presente legge, sempre che il contratto sia provato per iscritto. Il dato letterale induce dunque a ritenere che le parti possano sottrarre il rapporto all'intera disciplina dettata dal capo II della l. n. 392/1978, ivi compresa quella dettata in punto di durata.

Per il resto, le altre questioni concernenti la durata, ed in particolare il quesito se il meccanismo della automatica rinnovazione al primo sessennio o novennio importi che la locazione debba essere qualificata come ultranovennale, meritano di essere esaminate nel commento agli artt. 28 e 29.

Il recesso

In due disposizioni di tenore pressoché identico (artt. 4 e 27), il legislatore del 1978 ha regolamentato compiutamente la materia del recesso dal rapporto, sia nelle locazioni abitative che non abitative, prima della scadenza del termine di durata. La previsione normativa che concerne le locazioni ad uso di abitazione è la seguente: «È in facoltà delle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione» (art. 27, comma 7, l. n. 392/1978). Ed inoltre: «Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata (art. 27, comma 8, l. n. 392/1978).

In termini generali, può dirsi che la normativa speciale per un verso ammette la pattuizione che attribuisce al locatario il diritto di recedere in qualunque momento, dal contratto; per altro verso la stessa normativa configura una speciale ipotesi di ius poenitendi di cui il conduttore, nella concorrenza dei relativi presupposti, è legittimato comunque ad avvalersi, a prescindere dalla previsione del regolamento convenzionale.

Analogo diritto non è riconosciuto al locatore, ed anzi, una pattuizione che riconoscesse al locatore un tale potere cadrebbe sotto l'applicazione dell'art. 79 l. n. 392/1978, laddove sanziona ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto. Risulta difatti «evidente che la clausola introduttiva in favore del locatore di un diritto di scioglimento del rapporto anticipato rispetto ai termini di durata minima contraddirebbe proprio le norme imperative in materia di durata» (Gabrielli, Padovini, 602).

All'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 392/1978, si è dubitato della legittimità costituzionale della disciplina in esame, osservandosi che la stessa avrebbe irragionevolmente penalizzato il locatore, cui non era stato accordato il medesimo diritto di recedere dal contratto. La Corte costituzionale (peraltro con riguardo al recesso nelle locazioni abitative) ha ritenuto non fondata la censura di costituzionalità prospettata, movendo dalla considerazione della sostanziale differenza delle posizioni delle parti, siccome evidenziata dalla Relazione ministeriale al disegno di legge, e dalla ratio della norma, individuata nell'esigenza di tutelare l'inquilino mediante un'adeguata stabilità del rapporto: nel caso di scioglimento del contratto il conduttore, infatti, avrebbe avuto difficoltà, nelle condizioni offerte dal mercato edilizio, a reperire una diversa abitazione: «La possibilità di recesso del conduttore, invece, non reca alcun effettivo nocumento al locatore, in quanto il preavviso [...] garantisce il locatore stesso in maniera adeguata, essendo presumibile, se non proprio sicuro, secondo l'id quod plerumque accidit, che egli nel frattempo trovi altro inquilino che corrisponda lo stesso canone, e cioè quello stabilito dalla legge. D'altro canto, la ricordata facoltà di recesso del conduttore non è avulsa dall'intero complesso normativo, ma costituisce, in particolare, il fondamento del divieto, contenuto nell'art. 2, comma 1, di sublocazione totale (la quale, come avverte la richiamata Relazione, normalmente costituisce una speculazione in danno del proprietario). Per vero, in tanto è stato escluso il potere di concedere in sublocazione totale l'immobile che il conduttore non abita più, in quanto a questo è stata riconosciuta la facoltà di recedere dal contratto, con la conseguente possibilità di evitare il pregiudizio che altrimenti deriverebbe dall'obbligo del pagamento del canone senza alcuna effettiva utilità (Corte cost., n. 251/1983).

Le due ipotesi di recesso, quella convenzionale e quella legale, sono accomunate dalla circostanza che, fatto salvo l'obbligo del preavviso, il correlativo diritto possa essere esercitato «in ogni momento».

Ci si è interrogati, in dottrina, se il conduttore, nell'ipotesi in cui non sia stata data disdetta, possa o meno egualmente comunicare negli ultimi mesi del periodo contrattuale (sei, dodici o diciotto, a seconda dei casi) il proprio proposito di recedere. È prevalsa, giustamente, la soluzione affermativa: sicché, nel caso che si è indicato, il recesso si intenderà operante con riguardo al tempo della rinnovazione, computandosi, nei sei mesi di preavviso, anche il periodo intercorso tra la comunicazione del recesso e la scadenza del contratto (Bernardi, Coen, Del Grosso, 40). Ove, poi, sia stata intimata disdetta, il recesso non resterà, per ciò solo, da essa assorbito: basti considerare il caso in cui l'atto che mira a impedire il rinnovo sia stato comunicato con largo anticipo rispetto al termine semestrale (per le locazioni abitative), ovvero nell'osservanza della prescrizione che impone la comunicazione almeno dodici o diciotto mesi prima della scadenza (per le locazioni ad uso diverso); in tutti questi casi, all'evidenza, il locatario può avere un chiaro interesse a sciogliersi dal vincolo prima che il contratto venga a cessare in forza della disdetta (in senso contrario, ma solo con riferimento alla locazione destinata ad abitazione: Cosentino, Vitucci, 391).

Tale soluzione è stata condivisa dalla corte di legittimità, in fattispecie in cui veniva in questione il recesso per gravi motivi: «La legge accorda al conduttore due distinti poteri. Il primo, rappresentato dal diritto di recesso per gravi motivi, si inscrive, come si è visto, nella disciplina della durata minima del contratto e consente al conduttore di determinare lo scioglimento del rapporto, che è in corso sulla base del contratto che le parti hanno concluso. è accordato sul presupposto che, dopo la conclusione del contratto, sopravvengano situazioni che incidono in modo grave sulla convenienza del conduttore a proseguire nella programmata utilizzazione dell'immobile e quindi a mantenerne la disponibilità. Può essere esercitato senza limiti di tempo rispetto al momento in cui la nuova situazione si è manifestata, ma ha d'altra parte effetto solo dopo trascorso un predeterminato periodo di tempo. In questo modo al conduttore è lasciata la possibilità di vagliare la persistenza o reversibilità della nuova situazione e la convenienza a mantenere tuttavia nel sito già scelto l'attività che vi ha impiantato, al locatore il tempo considerato normalmente idoneo a trovare per il proprio immobile un nuovo impiego. L'altro potere è quello di evitare che giunto il contratto alla scadenza pattuita, il rapporto prosegua per un nuovo periodo pari alla durata minima legale. Al singolo conduttore è dato di disporre, in modo libero, nell'ambito del rapporto di cui è parte, della tutela predisposta dall'ordinamento a protezione dell'interesse generale al radicamento di iniziative economiche e sociali, interesse che rischierebbe di risultare pregiudicato se i rapporti fossero in ogni caso esposti a cessare alla scadenza della durata minima legale. Il legislatore, siccome ha configurato i due poteri in norme separate, assegnando loro diverse funzioni, non ha previsto che le situazioni che li originano possano prodursi nelle medesime condizioni di tempo e non ne ha regolato il concorso. La soluzione al problema va dunque trovata sul piano della interpretazione sistematica. Una prima considerazione è che il caso in esame non può essere equiparato a quello del conduttore, il quale conclude il contratto in una situazione di rischio attuale quanto alla possibilità di una conveniente futura utilizzazione dell'immobile. In questo secondo caso, il diritto di recesso non può neppure configurarsi, nel primo è invece sorto, ma a suo riguardo si postula la possibile operatività di un fatto preclusivo. Il fenomeno preclusivo opererebbe nel senso che, non sarebbe giustificato conservare al conduttore il potere ad esercizio vincolato, quando ha trascurato di servirsi di un potere a determinazione libera, ovverosia non gli si potrebbe consentire di sciogliersi dal rapporto, quando potendolo fare non ha manifestato una volontà in tal senso. Ora, appare sufficientemente chiaro che, nella situazione data, non si può postulare un assorbimento di un potere nell'altro. Il conduttore, anzi, dovrebbe prima dichiarare di non voler profittare della continuazione del rapporto e poi, volendosene sciogliere anticipatamente, esercitare il diritto di recesso. Si dovrebbe postulare invece una incompatibilità tra mancato esercizio dell'un diritto ed efficace esercizio dell'altro. Questa incompatibilità dovrebbe essere considerata effetto di una rinuncia implicita ovvero sanzione di un comportamento non corrispondente a buona fede. Ma nessuna di queste spiegazioni è appagante. Quello di impedire la prosecuzione del rapporto si presenta come un potere che va esercitato in un dato termine a pena di decadenza e rispetto ad esso rileva il fatto oggettivo che la disdetta non vi sia stata non il perché non v'é stata. Sicché non può vedersi nel fatto che la disdetta sia mancata, fatto che può dipendere dalle più diverse ragioni, un comportamento che presuppone anche la volontà di non far valere il diverso diritto di recesso. D'altro canto, l'esercizio del diritto di recesso, come si è visto, postula una valutazione circa gli effetti della situazione prodottasi. Sicché può ben profilarsi il caso che il conduttore si trovi a versare nella condizione per cui, se la situazione potesse risultare superata, vi sarebbe la convenienza alla continuazione del rapporto attraverso il meccanismo della rinnovazione, mentre se non dovesse esserlo, egli avrebbe interesse a recedere. Dunque, non può essere condiviso il principio di diritto sostenuto dai ricorrenti, e cioè che, se la situazione che genera il grave motivo di recesso si produce quando il conduttore può ancora impedire la rinnovazione, il mancato esercizio del relativo diritto preclude quello di recedere dal contratto» (Cass. III, n. 15082/2000).

Sul tema occorre ricordare che, in materia di locazione immobiliare ad uso diverso da abitazione, intervenuta la disdetta del contratto da parte del locatore, ove il conduttore, per parte propria, si avvalga della facoltà di recesso per gravi motivi, è comunque tenuto al pagamento del canone fino alla scadenza del termine semestrale di preavviso, indipendentemente dal fatto che il rilascio sia avvenuto in data anteriore (Cass. III, n. 13092/2017).

Il recesso convenzionale

Riguardo al recesso convenzionale, la legge prescrive, anzitutto, che il recesso debba essere previsto «contrattualmente».

L'uso di quest'ultimo avverbio ha portato a ritenere che il diritto di recesso possa essere convenuto solo nel contratto originario, restando esclusa la pattuizione successiva (Cosentino, Vitucci, 391). La tesi sembra eccessivamente e ingiustificatamente restrittiva: tanto più che il termine su cui essa si fonda non offre argomenti interpretativi irresistibili; nessuno può infatti negare che sia contratto, nel significato proprio, ricavato dall'art. 1321 c.c., anche l'accordo con cui le parti decidano, nel corso del rapporto locatizio, di attribuire al locatario la facoltà di recesso. Nemmeno si vede la ragione per cui il legislatore, cui pure deve imputarsi la ridondante locuzione, abbia voluto escludere che le parti, nel corso del rapporto, potessero concludere una pattuizione dell'indicato tenore.

Con particolare riguardo alle locazioni non abitative ci si può interrogare circa l'ammissibilità della prova testimoniale vertente sulla conclusione dell'accordo, successivo alla stipula del contratto di locazione, che conferisce al conduttore il diritto di recesso. Sul punto, si è ritenuto che detta «prova testimoniale soggiace chiaramente ai limiti di cui all'art. 2723 c.c., dovendosi provare che, dopo la formazione del contratto, è stato stipulato un patto contrario al contenuto di esso, sì che essa potrà essere ammessa solo se “avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali”» (Pret. Penne 14 novembre 1985).

L'interpretazione della clausola contrattuale che concerna il recesso (e quindi lo stesso accertamento della sussistenza di una disposizione pattizia che il recesso preveda) spetta al giudice del merito, ma trova il suo limite nella violazione evidente dei criteri ermeneutici, che viene a risolversi in errori giuridici (Cass. III, n. 5788/2005).

Quanto alla forma del preavviso, la norma prevede che il recesso vada comunicato a mezzo di lettera raccomandata.

È peraltro da ritenere che, anche nella fattispecie, la forma debba ritenersi prescritta ad probationem tantum e che, per conseguenza, l'utilizzo di un mezzo di comunicazione dotato di minore attitudine probatoria dovrebbe penalizzare il conduttore nell'accertamento giudiziale della manifestata volontà di recedere, senza avere, di per sé, conseguenze invalidanti (Di Marzio, Falabella, 2223).

Il preavviso di recesso non deve contenere alcuna indicazione delle ragioni che lo hanno indotto: «L'art. 27, comma 7, l. n. 392/1978 consente alle parti di pattuire che il conduttore possa recedere dal contratto in qualsiasi momento con il solo obbligo del preavviso al locatore almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione, senza la contestuale indicazione delle ragioni giustificative della disdetta, in quanto tale recesso non crea alcun effettivo nocumento al locatore stante la sufficienza del detto preavviso per trovare un nuovo inquilino» (Cass. III, n. 7357/1997).

La legge disciplina, come si è visto, anche la durata del termine di preavviso, prescrivendo che lo stesso debba essere semestrale. Poiché, inoltre, il preavviso di recesso è atto ricettizio, il termine predetto comincerà a decorrere nel momento in cui la comunicazione è pervenuta all'indirizzo del locatore.

Si è detto, così, che l'atto con il quale si esercita il recesso ha efficacia al momento della ricezione, anche se gli effetti relativi all'estinzione del rapporto sono differiti (Bozzi, Confortini, Del Grosso, Zimatore, 1022). Al riguardo si è posto il quesito se le parti possano disciplinare il termine in maniera difforme rispetto alla legge. Una parte della dottrina (Bernardi, Coen, Del Grosso, 40; Bozzi, Confortini, Del Grosso, Zimatore, 1022; Gabrielli, Padovini, 607) ha ritenuto che il quesito debba essere risolto nel senso della liceità della clausola di contenuto derogatorio: «Stante il carattere disponibile che il comma 1 attribuisce allo stesso diritto di recesso ivi contemplato, parrebbe sostenibile che sia legittimo pattuire tanto un'abbreviazione quanto un allungamento del termine di 6 mesi indicato dalla legge. Sia chiaro però che ove continuasse l'uso invalso nella prassi contrattuale di avvalersi, nella stipulazione dei contratti di locazione, di moduli all'uopo predisposti, una clausola che prevedesse un termine maggiore implicherebbe un'indagine circa la sua “vessatorietà”, apparendo essa particolarmente onerosa per il conduttore nella misura in cui renda più gravoso l'esercizio del diritto di recesso, ai sensi dell'art. 1341 c.c., cpv., rispetto alla disciplina legale (Bernardi, Coen, Del Grosso, 40). È stato tuttavia spiegato che la legge ammette le sole convezioni che si risolvono a beneficio del conduttore: per contro, i patti che attribuissero al locatore un vantaggio in contrasto con una disposizione della legge dell'equo canone (e che quindi abbreviassero il termine semestrale) risulterebbero sanzionati dall'art. 79 (Cosentino, Vitucci, 392; Bucci, Malpica, Redivo 349): «Secondo detta norma, infatti, sono nulle quelle pattuizioni che oltre a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello legale, mirano ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull'equo canone. Un eventuale allungamento del termine di preavviso, pertanto, è illegale in quanto configura proprio quell'ipotesi di patto contrario alla legge che il legislatore, con la disposizione a momenti richiamata, ha voluto vietare. In detta ipotesi, infatti, la posizione del locatore sarebbe privilegiata rispetto a quella risultante dalla previsione legislativa» (Bucci, Malpica Redivo, 350).

Anche in giurisprudenza si afferma che la pattuizione intesa alla riduzione del termine di preavviso «è certamente ammissibile e trova applicazione in deroga alla disciplina [...] la quale è vincolante solo in caso di mancata previsione contrattuale o di termine più gravoso per il conduttore» (Pret. Pordenone 5 febbraio 1988). Perciò, «stante la validità della clausola contrattuale mediante la quale le parti di un rapporto locatizio abbiano concordato di ridurre a mesi quattro il preavviso di recesso da parte del conduttore, non devono essere corrisposte, nella fattispecie, le due mensilità di canone intercorrenti tra la scadenza del preavviso così come pattuita e quella, semestrale, invece prevista dall'art. 27 della l. n. 392/1978» (Trib. Genova 7 aprile 1987). In senso diverso, la Suprema Corte ha affermato che, se il termine di preavviso convenuto in contratto è inferiore al semestre, esso è destinato ad essere ricondotto a quello minimo, previsto dalla legge: «A norma dell'art. 27 l. n. 392/1978, “è in facoltà delle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione”. Le parti sono libere, dunque, di convenire che il conduttore receda in qualsiasi momento dal contratto, addossandogli il mero onere di avvisare il locatore, mediante lettera raccomandata, della sua intenzione. È poi stabilito che il recesso avrà esecuzione almeno sei mesi dopo l'avviso, intervenendo qui una presunzione legale che quel periodo di tempo è il minimo (ma le parti ne potrebbero convenire uno maggiore) del quale ha necessità il locatore per provvedere all'utilizzazione dell'immobile quando, successivamente all'esecuzione del recesso, ne avrà la disponibilità. In questa logica, pertanto, l'unico elemento indispensabile per il perfezionamento della vicenda è costituito dal fatto che il conduttore abbia ritualmente dato avviso al locatore della sua intenzione di recedere dal contratto, posto che l'esecuzione del recesso avverrà nel termine semestrale fissato dalla legge o in quello uguale o eventualmente maggiore stabilito dalle parti. Di qui il duplice rilievo che, per un verso, è valido l'avviso di recesso pur privo di riferimento al momento in cui esso avrà esecuzione (posto che questo momento è integrato dalla volontà della legge o delle parti) e che, per altro verso, l'avviso contenente (come nella specie) una data di esecuzione inferiore a quella stabilita nel contratto o a quella minima stabilita dalla legge conserva la sua validità, benché il momento della relativa esecuzione debba essere ricondotto al termine convenzionale o a quello minimo legale (come pure è avvenuto nella specie). Sicché, può essere enunciato il principio secondo cui, a norma dell'art. 27 l. n. 392/1978 (in base al quale “è in facoltà dalle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione”), nel caso in cui le parti abbiano convenuto tale facoltà, l'avviso di recesso diretto dal conduttore al locatore, facente riferimento ad un termine inferiore a quello convenzionalmente stabilito dalle parti stesse o inferiore a quello minimo fissato dalla legge, conserva validità ed efficacia, benché il termine di esecuzione debba essere ricondotto a quello convenzionalmente pattuito o a quello minimo semestrale fissato dalla legge» (Cass. III, n. 831/2007).

La soluzione non ha persuaso la giurisprudenza di merito, che anche di recente ha ribadito che, i n tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, le parti, nella loro autonomia negoziale, possono fissare un termine di preavviso inferiore a quello semestrale previsto dall' art. 27 l. 27 luglio 1978, n. 392 per il recesso del conduttore, il cui esercizio fa sorgere l'obbligo di corrispondere i canoni sino al compimento del periodo di preavviso come convenzionalmente stabilito (App. Napoli 9 luglio 2020, n. 2538 ).

La soluzione della S.C. desta perplessità. È difficile cogliere il fondamento dell'inserzione automatica della disciplina normativa nell'ipotesi in cui il termine pattuito sia inferiore ai sei mesi: ciò in quanto l'abbreviazione del termine integra una clausola a favore del conduttore: una disposizione pattizia che (al pari di quella che stabilisca una durata del contratto superiore a quella minima) l'ordinamento non ha interesse a colpire. Ma, a ben vedere, nemmeno l'assunto della nullità della clausola che preveda un termine di preavviso più ampio rispetto al semestre sembra conforme ai principi. Intanto, per le locazioni disciplinate dalla legge di riforma del 1998, manca una disposizione del tenore dell'art. 79 l. n. 392/1978, dal momento che l'art. 13 l. n. 431/1998 non contempla l'ipotesi della pattuizione che attribuisca un vantaggio contrastante con le disposizioni normative dettate. Ma anche per le locazioni non abitative le conclusioni cui perviene una parte della dottrina e la giurisprudenza non possono essere condivise. Non si comprende, infatti, come possa ammettersi, nel contempo, la pacifica liceità della mancata pattuizione della clausola di recesso e l'asserita illiceità della disposizione contrattuale che, prevedendo il recesso, lo subordini a un termine superiore a quello semestrale, previsto dalla legge. Se è legittimo non accordare al locatario la possibilità di sciogliersi anticipatamente dal vincolo, altrettanto dovrà dirsi dell'ipotesi, meno gravosa per il conduttore, di pattuito recesso da esercitarsi entro un dato termine, quale che esso sia. In tal senso, sembra corretto affermare che questa seconda pattuizione non può determinare alcuno svantaggio per il conduttore, dal momento che, in linea di principio, è nel potere delle parti di attribuire o negare il recesso: onde la disciplina legale non è qualificata dal riconoscimento di un tale diritto del locatario (Di Marzio, Falabella, 2228).

Al riguardo, è stato giustamente osservato che l'opposto ragionamento «non tiene nella debita considerazione la circostanza che le disposizioni degli artt. 4 e 27 sulle modalità di esercizio del recesso da parte del conduttore sono dettate nell'ambito del regolamento di un diritto che deriva al conduttore non già dalla legge, ma dalla graziosa concessione del locatore. La legislazione speciale si limita, invero, ad imporre al locatore di tollerare il recesso ante tempus del conduttore, soltanto qualora venga attribuito al conduttore dal patto contrattuale e, quindi, dalla libera volontà del locatore» (Gabrielli, Padovini, 607).

Deve, quindi, concludersi nel senso che la previsione del termine semestrale abbia natura dispositiva, e sia quindi destinata ad operare nel solo caso in cui le parti, pur avendo contemplato il recesso, nulla abbiano convenuto quanto al termine entro cui la comunicazione della volontà di avvalersi del diritto potestativo debba aver luogo (Di Marzio, Falabella, 2228).

L'accordo, successivo alla conclusione del contratto, circa l'abbreviazione del termine può essere raggiunto anche tacitamente. Si è detto, in particolare, che a fronte della manifestata volontà, da parte del conduttore, di recedere con soli tre mesi di anticipo, rileva la mancata opposizione del locatore a tale abbreviazione del termine e la stipula, con altro soggetto, di un nuovo contratto di locazione, con decorrenza dalla data del preventivato rilascio comunicato dal locatario (Pret. Pordenone 23 marzo 1988).

Con riferimento alle locazioni destinate alle attività particolari di cui all'art. 42, non rileverà, poi, il dato del contrasto tra le pattuizioni contrattuali e la disciplina di cui all'art. 27, comma 7, l. n. 392/1978, essendo detta disposizione inapplicabile ai rapporti in questione: si è quindi asserito che le parti di tali rapporti potranno stabilire la disciplina convenzionale più confacente ai loro interessi, fermo il divieto di attribuire al locatore un vanteggio in contrasto con le disposizioni della legge; eventuali difformità circa i tempi e le modalità della comunicazione del preavviso di recesso andranno quindi valutate caso per caso, dovendosi individuare se, nel contesto generale, la clausola abbia violato il disposto dell'art. 79 l. n. 392/1978 (Lazzaro, Preden, 171). Nel tentativo di colmare le lacune che la disciplina del recesso convenzionale prospetta, con riferimento a siffatti rapporti, si è poi detto che, in mancanza di diversa pattuizione, il termine di preavviso andrebbe individuato sulla base degli usi locali in tema di disdetta, o, in alternativa, sulla base di quanto disposto dall'art. 28, comma 1, espressamente richiamato dall'art. 42 (Cosentino, Vitucci, 392).

Nulla osta a che l'esercizio del diritto sia temporalmente circoscritto o subordinato al verificarsi di precise condizioni. Deve allora reputarsi legittima la pattuizione che consente il recesso solo a partire da un certo momento della vicenda contrattuale (ad esempio, dopo il terzo anno della locazione) o in presenza di un determinato evento (ad esempio, ove abbia luogo l'acquisto, da parte del conduttore, di una casa di abitazione). Le parti possono anche pattuire un compenso per l'ipotesi in cui il locatario si avvalga del diritto riconosciutogli in contratto: in quest'ultimo caso lo scioglimento dal vincolo risulterà condizionato in forza della previsione dell'art. 1372, comma 3, c.c., che subordina l'efficacia del recesso all'esecuzione della prestazione convenuta (Bucci, Malpica, Redivo, 350).

Il recesso per gravi motivi

Al di là della previsione contrattuale, la legge riconosce, poi, al conduttore, il diritto di recedere dal contratto ove ricorrano gravi motivi. Poiché l'espressione impiegata dal legislatore è volutamente ampia, e tale da legittimare dubbi di natura esegetica, si impone di chiarire in cosa questi consistano.

È stato giustamente sottolineato che la formula della legge vada interpretata rigorosamente, in base a criteri oggettivi e predeterminati: «I gravi motivi, i quali devono insorgere dopo l'instaurazione del rapporto, devono essere di natura tale da rendere impossibile, o sommamente gravosa, la prosecuzione della locazione»; essi, poi, «non possono essere determinati dal comportamento dell'inquilino dovendo essere ricollegabili a cause non prevedibili e comunque estranee alla sua sfera soggettiva» (Bozzi, Confortini, Del Grosso, Zimatore, 1022).

L'interpretazione è stata fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, la quale è consolidata nell'affermazione del principio che segue: «I gravi motivi che consentono, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, il recesso del conduttore dal contratto di locazione, ai sensi degli artt. 4 e 27 della l. n. 392/1978, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere al conduttore oltremodo gravosa la prosecuzione del rapporto stesso» (Cass. III, n. 10980/1996; Cass. III, n. 260/1991; Cass. III, n. 11466/1992; Cass. III, n. 13909/2002; più di recenteCass. III, n. 12461/2023; Cass. III, n. 30862/2023, in caso di p.a. conduttrice). Così si è anche di recente ribadito che i gravi motivi legittimanti il recesso anticipato dal contratto di locazione previsti dall'art. 27, l. n. 392/1978, pur potendo riguardare anche un solo ramo d'un intero complesso aziendale di cui fan parte settori che riscontrano risultati economici positivi, debbono essere determinati da fatti estranei dalla volontà di chi li invoca, imprevedibili e sopravvenuti e tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del rapporto (Cass. III, n. 5803/2019).

I gravi motivi vengono generalmente distinti in soggettivi ed oggettivi, secondo che siano inerenti alla persona del conduttore, ovvero al suo oggetto, cioè all'immobile (Cosentino, Vitucci, 393).

Tra i motivi soggettivi, si discute con riguardo alle diverse vicende che possano interessare l'attività imprenditoriale del conduttore. Così, è stata esclusa la legittimità del recesso in ragione dell'antieconomicità della prosecuzione dell'attività per mancata acquisizione di commesse (Trib. Padova 29 maggio 1986); dei negativi risultati della gestione economica (Trib. Rovigo 7 febbraio 1998); della mancata previsione della futura inadeguatezza, per le sue dimensioni, dell'immobile locato (Trib. Milano 9 settembre 1993), essendo del tutto fisiologiche le esigenze di maggiore spazio conseguenti alla normale espansione dell'attività imprenditoriale del conduttore (Trib. Milano 18 novembre 1996); dell'incremento dell'attività imprenditoriale (Trib. Bologna 17 novembre 1998). A fronte di tale indirizzo rigorista (il quale perviene in talune ipotesi a soluzione non perfettamente ragionevoli, come nell'esclusione della legittimità del recesso in un caso in cui l'immobile locato aveva subito ingenti danni per l'esplosione di una bomba, dal momento che il disagio economico del conduttore sarebbe stato il frutto della libera determinazione del conduttore di continuare l'attività commerciale: App. Lecce 4 dicembre 1996), un diverso filone giurisprudenziale riconosce rilievo anche l'insufficienza e inadeguatezza dell'immobile, determinatesi in ragione dell'espansione dell'attività economica del conduttore (Trib. Milano 22 settembre 1988; Trib. Vicenza, 2 gennaio 2001; Trib. Firenze, 16 dicembre 1991). Ed in effetti, fermo restando che la decisione va assunta caso per caso, tenendo conto delle peculiarità della fattispecie (per soluzioni misurate sul caso concreto, v., per esempio, Trib. Genova 23 marzo 1987; Trib. Milano 25 febbraio 1993; Pret. Bologna 4 novembre 1994), non si può negare che il concetto di estraneità dei fatti legittimanti il recesso alla volontà del conduttore va rapportato alle cause obiettive che impongano il ridimensionamento o incremento dell'attività (Cass. III, n. 10980/1996), sicché deve ammettersi che il conduttore possa operare una scelta di adeguamento strutturale dell'azienda, ampliandola o riducendola per renderla rispondente alle sopravvenute esigenze di economicità e produttività (Cass. III, n. 17042/2003), tanto più che l'andamento dell'attività imprenditoriale non rientra nell'àmbito della prevedibilità, che spetta al giudice di merito scrutinare (Cass. III, n. 9689/2003; Cass. III, n. 13909/2002; Cass. III, n. 10980/1996; Cass. III, n. 11466/1992; ecco, allora, che può integrare grave motivo un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all'attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile, che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo: Cass. III, n. 11466/1992; Cass. III, n. 10980/1996; Cass. III, n. 3418/2004; per l'insussistenza di gravi motivi nel caso di concessionaria di vendita di autoveicoli che intenda rilasciare l'immobile per concentrare altrove le attività v. Cass. III, n. 12020/2002). Qualora, a fondamento del recesso, il conduttore deduca il sopravvenuto andamento favorevole della congiuntura aziendale, la gravosità della persistenza del rapporto locativo deve essere valutata oggettivamente ed in concreto, utilizzando come parametri comparativi, da un lato, la dimensione e le caratteristiche del bene locato e del nuovo locale e, dall'altro, le nuove esigenze di produzione e di commercio dell'azienda, non essendo – di per sé – sufficiente l'incremento del fatturato aziendale o del personale lavorante. (Cass. III, n. 20503/2023, che ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la legittimità del recesso del conduttore, a fronte dell'incremento di sole sette unità del personale necessitante di una postazione fissa, tenuto conto altresì che la superficie destinata ad uso ufficio nell'immobile oggetto di locazione era superiore a quella di cui la società conduttrice disponeva nel nuovo immobile). In senso restrittivo risulta però ribadito che i gravi motivi di cui all'art. 27, comma 8, l. n. 392/1978, devono essere determinati da fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendergli oltremodo gravosa la sua prosecuzione. Il comportamento deve essere conseguenziale a fattori obiettivi. Deriva da quanto precede, pertanto, che se il conduttore è un imprenditore commerciale egli non può operare scelte di adeguamento strutturale della azienda ampliandola o riducendola per renderla rispondente alle sopravvenute esigenze di economicità e produttività (Cass. III, n. 5802/2019).

Per converso, nel caso di cessazione dell'attività imprenditoriale svolta nello stesso, dovuta a una generale crisi economica del relativo settore, la valutazione dei gravi motivi che consentono al locatario di liberarsi in anticipo del vincolo contrattuale implica la considerazione della complessiva situazione economica di quest'ultimo, in funzione dell'accertamento dell'assenza di convenienza alla prosecuzione del rapporto e non già della possibilità di traslazione del valore della perdita su altra attività, non potendosi pretendere che il conduttore si faccia carico della prosecuzione di un rapporto locatizio non più conveniente, esternalizzando le perdite su un'altra attività estranea al sinallagma contrattuale, siccome non convolta direttamente nel godimento dell'immobile locato (Cass. III, n. 6731/2023).

Ai motivi oggettivi possono ricondursi i vizi della cosa locata, giacché il conduttore può avere maggiore interesse al recesso che alla risoluzione prevista dall'art. 1578 c.c. (Gabrielli, Padovini, 662).

Possono rilevare altresì l o scadimento delle condizioni dell'immobile, dell'edificio o del quartiere in cui questo è posto, nonché il diniego delle autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell'attività cui l'immobile deve essere destinato, sempre che ricorra il requisito dell'estraneità alla volontà del conduttore, sopravvenuto e imprevedibile (il recesso, perciò, non è legittimo quando già al momento della stipulazione del contratto non sussistano i presupposti di fatto e di diritto per conseguire l'autorizzazione: Cass. III, n. 260/1991), e fermo restando che grava sul conduttore l'onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell'attività che intende esercitarvi, nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative, con la conseguenza che, ove egli non riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore, e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle caratteristiche proprie del bene locato, sicché la destinazione particolare dell'immobile (tale da richiedere che lo stesso sia dotato di precise caratteristiche e che attenga specifiche licenze amministrative) diviene rilevante - quale condizione di efficacia, elemento presupposto o, infine, contenuto dell'obbligo assunto dal locatore nella garanzia di pacifico godimento dell'immobile in relazione all'uso convenuto - solo se abbia formato oggetto di specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera enunciazione, in contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso e l'attestazione del riconoscimento dell'idoneità dell'immobile da parte del conduttore ( Cass. III, n. 14067/2023 ).

I gravi motivi a fondamento del recesso devono essere specificati nell'atto di preavviso (tale specificazione inerisce al perfezionamento della dichiarazione di recesso.

Anche di recente è stato ribadito che, in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, la necessità, ai fini del valido ed efficace esercizio del diritto potestativo di recesso del conduttore, ex art. 27, comma 8, l. n. 392/1978, che i gravi motivi dello stesso siano enunciati nella medesima comunicazione di recesso esclude che il conduttore possa esplicitare successivamente le ragioni della determinazione assunta (Cass. III, n. 13368/2015). Il preavviso al contempo risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione: Cass. III, n. 10980/1996; Cass. III, n. 4238/1997; Cass. III, n. 16676/2002) quantunque il conduttore non sia tenuto a fornire spiegazioni e a offrire prove (Cass. III, n. 17042/2003). In caso di contestazione, poi, il giudice è tenuto a verificare la corrispondenza delle ragioni del recesso con quelle enunciate dal conduttore nel preavviso (Cass. III, n. 954/1996; Cass. III, n. 4238/1997). Ergo, in tema di locazione immobiliare conclusa dalla P.A. iure privatorum, quale conduttrice, la necessità che i gravi motivi del recesso, ex art. 27 della l. n. 392 del 1978, siano enunciati nella comunicazione a tal fine prevista esclude che il conduttore possa esplicitare successivamente le ragioni della determinazione assunta, invocando disposizioni di legge in tema di spending review diverse da quelle espressamente indicate in tale comunicazione (Cass. III, n. 30862/2023, che ha confermato la sentenza di merito che, ai fini della legittimità del recesso comunicato dall'INAIL, aveva tenuto conto esclusivamente delle ragioni esplicitate nella comunicazione, senza prendere in esame altre disposizioni normative, addotte solo in sede di legittimità).

La Suprema Corte ha inoltre rilevato in termini più generali, che la violazione di obblighi contrattuali non possa costituire motivo di recesso (Cass. III, n. 15620/2005).

Dubbio è, infine, se il fallimento del locatore (oggi liquidazione giudiziale) autorizzi il recesso del conduttore.

Alcuni lo negano, argomentando dal contenuto dell'art. 80 l. fall., a norma del quale il fallimento del locatore non scioglie il contratto, nel quale subentra il curatore (Bernardi, Coen, Del Grosso, 44). Si è tuttavia notato che l'evenienza in discorso, per quanto inidonea a determinare lo scioglimento del vincolo, può incidere sulla sfera giuridica del conduttore, in relazione al suo rapporto di godimento con l'immobile e agli interessi correlati (Pozzi, 173, secondo cui rileverebbe, ad esempio, la minore affidabilità che la persona del locatore può indurre per il sollecito adempimento delle obbligazioni contrattuali, o la liquidazione del bene locato e la conseguente inopponibilità all'aggiudicatario di pattuizioni concluse senza formalità con l'originario locatore).

In caso di illegittimo esercizio del recesso occorre distinguere il caso in cui il locatore accetti la cessazione del contratto ed il caso in cui il locatore si opponga alla anticipata risoluzione. Nel primo caso ha luogo lo scioglimento del vincolo per mutuo consenso (Pret. Modena 27 novembre 1995; Pret. Legnano 10 agosto 1982), con tutto quanto ne consegue in punto di estinzione dell'obbligazione di pagamento del canone. Nel secondo caso, non potendosi dubitare che la locazione non cessa, occorre chiedersi se il conduttore sia tenuto al pagamento del canone fino alla scadenza del termine di preavviso ovvero fino alla fisiologica scadenza del rapporto, oppure se sia tenuto al risarcimento del danno cagionato in concreto. Sul punto la Suprema Corte ha ritenuto che l'illegittimo recesso dia luogo a responsabilità del conduttore, tenuto come tale a dimostrare che, nonostante l'anticipata restituzione dell'immobile, non si è prodotto alcun pregiudizio patrimoniale (Cass. III, n. 5827/1993).

Merita infine evidenziare che, in tema di recesso anticipato del conduttore ad uso diverso da quello abitativo, ai sensi dell'art. 27, comma 8, l. n. 392/1978, quando i gravi motivi sopravvenuti dedotti dal conduttore si sono verificati prima della scadenza del termine per dare l'utile disdetta alla scadenza naturale del contratto e il conduttore non l'abbia data, tale condotta, interpretata secondo il principio di buona fede, va intesa come rinunzia a far valere in futuro l'incidenza di tali motivi sul sinallagma contrattuale, dei quali può altresì presumersi la non gravità, poiché altrimenti sarebbe stato ragionevole utilizzare il mezzo più rapido per la cessazione del rapporto (Cass. III, 14623/2017; Trib. Pisa 22 giugno 2020, n. 651).

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