Codice di Procedura Civile art. 414 - Forma della domanda 1 2 3[I]. La domanda si propone con ricorso, il quale deve contenere: 1) l'indicazione del giudice; 2) il nome, il cognome, il codice fiscale e la residenza o il domicilio del ricorrente, il nome, il cognome, il codice fiscale e la residenza o il domicilio o la dimora nonchè l'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi del convenuto; se ricorrente o convenuto e' una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonchè la sede del ricorrente o del convenuto4; 3) la determinazione dell'oggetto della domanda; 4) l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni; 5) l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.
[1] In tema di rito speciale per le controversie in materia di licenziamenti, v. art. 1 commi 47-68, in particolare il comma 51, l. 28 giugno 2012, n. 92. [2] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del presente articolo, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. [3] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [4] Numero così sostituito dall'art. 3, comma 5, lett. a) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. Il testo del numero era il seguente: «l nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente nel comune in cui ha sede il giudice adito, il nome, il cognome e la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto; se ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta, nonché la sede del ricorrente o del convenuto» InquadramentoCon specifico riguardo alla materia locatizia, la l. n. 353/1990 ha introdotto un vero e proprio rito speciale delle locazioni, conformato su quello del lavoro. L'introduzione è stata realizzata sostanzialmente con la tecnica, giudicata in dottrina alquanto discutibile, del rinvio limitato ad alcune norme del rito del lavoro con esclusione implicita delle altre. Il nuovo assetto non ha travolto il procedimento speciale per convalida di sfratto, che continua ad essere disciplinato dagli artt. 657 ss. c.p.c., salvo a rimanere assoggettato al rito delle locazioni all'esito dell'opposizione o della contestazione formulata dall'intimato ex artt. 665 e 666 c.p.c., previa ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell'art. 426 c.p.c., giusta il novellato art. 667 c.p.c. Le controversie che trovano la loro ragione in un rapporto di locazione di immobili urbani sono tutte assoggettate al rito modellato su quello del lavoro, ed attribuite alla competenza del tribunale in composizione monocratica, indipendentemente dalla specifica utilizzazione del bene, dalla natura dell'azione spiegata o dal tipo di pretesa azionata in giudizio. In tale ottica, la prevalente giurisprudenza di merito ha quindi chiarito che nelle controversie locatizie per le quali, l'art. 447-bis c.p.c. appresta il rito speciale modellato su quello del lavoro, non è applicabile il procedimento sommario di cognizione disciplinato dall'art. 702-bis c.p.c. (Trib. Torre Annunziata 24 marzo 2014; App. Lecce 16 marzo 2011; Trib. Catanzaro 16 novembre 2009; contra, Trib. Napoli 15 maggio 2010, con particolare riferimento all'ipotesi in cui la controversia locatizia sia connessa ad altra non soggetta al rito locatizio; Trib. Lamezia Terme 12 marzo 2010), a pena di inammissibilità radicale del ricorso, cioè senza possibilità di mutare il rito ex art. 426 c.p.c., ritenuta norma nella specie inapplicabile (Trib. Modena 17 gennaio 2013), tenuto altresì conto che nei procedimenti disciplinati dal rito sommario di cognizione ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c. non si applica la mediazione obbligatoria (Trib. Firenze 22 maggio 2012) a differenza di quanto prevede invece l'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n.28/2010 per le controversie in materia locatizia. Tuttavia, va anche detto che secondo la giurisprudenza di legittimità, l'omissione nel cambiamento del rito tanto da speciale ad ordinario, quanto da ordinario a speciale, non produce – di per sè – l'inesistenza o la nullità del processo nè della sentenza, in quanto, perchè essa assuma rilevanza invalidante occorre che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso, atteso che l'individuazione del rito nel caso di specie non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad apprezzabilmente incidere sul diritto di difesa, sul contraddittorio, ed in generale, sulle prerogative processuali protette della parte (Cass. III, n. 1448/2015; Cass. III, n. 11903/2008; Cass. II, n. 24561/2013). Il rito del lavoro si differenzia dal rito ordinario innanzitutto per la forma che assume la domanda in forma di ricorso diretto al giudice, il quale, controlla il procedimento sin dal momento della sua instaurazione con il deposito del ricorso, oltre che per un sistema rigido di preclusioni e decadenze, ancorate agli atti introduttivi disciplinati dagli artt. 414 e 416 c.p.c. In dottrina (Carrato 2005, 438), si è condivisibilmente evidenziato che nel richiamare l'art. 414 c.p.c., la norma processuale di riferimento attinente al rito locatizio impone che, sotto il profilo contenutistico siano ricompresi nel corpo del ricorso introduttivo gli stessi elementi, dettagliatamente elencati, pertinenti all'atto introduttivo proprio del processo del lavoro. In forza del richiamo operato dall'art. 447-bis c.p.c. le controversie in materia di locazione, comodato e affitto d'azienda, si svolgono secondo il rito previsto per le controversie di lavoro in quanto applicabili. Il rito processuale ordinario delle locazioni, si distingue dal rito speciale vigente nella stessa materia tenutistico rappresentato dal procedimento bifasico di convalida di sfratto per morosità o per finita locazione. Il ricorso previsto dall'art. 414 c.p.c. è il primo atto con il quale il ricorrente – cui corrisponde la figura dell'attore nel processo civile ordinario di cognizione – porta direttamente a conoscenza del giudice l'esistenza di una controversia in ambito locatizio. Al riguardo, è opportuno precisare che le espressioni “controversie in materia di locazione” analogamente a quella “cause relative a rapporti di locazione”, pur nella loro genericità non possono che rivolgersi alle cause che riguardano direttamente un rapporto di locazione, il suo accertamento ed i suoi effetti, nella sola fase di cognizione e non anche nella successiva fase di esecuzione forzata, laddove l'oggetto non è più il rapporto locatizio in sé ma l'attuazione di un titolo che nella locazione trova la sua origine remota, ma che vive di una sua autonomia sostanziale e processuale. Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'art. 414 c.p.c. riferite al giudice adito, generalità delle parti – ricorrente e resistente – e, per il primo, anche l'elezione di domicilio nello stesso Comune in cui ha sede il giudice adito, oggetto della domanda, esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni, ed indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione. Con il d.lgs. n. 51/1998 sul giudice unico e con la abolizione della figura del pretore, il giudice competente per materia e territorio nelle controversie di locazione è diventato il tribunale in composizione monocratica del luogo ove è posto l'immobile oggetto del rapporto locatizio. Nel rito del lavoro, applicabile al rito locatizio, posto che il ricorrente ha l'onere di indicare gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, al suo mancato adempimento consegue la nullità del ricorso sanabile ex art. 164, comma 5, c.p.c. che non vale, tuttavia, a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati nè specificati nel ricorso introduttivo, sicchè il convenuto può eccepire, in ogni tempo ed in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte dell'attore della norma codicistica sull'onere della prova. La nozione di controversie in materia di locazione di immobili urbani, soggette al rito speciale locatizioIn via di principio si rammenta che nell'ampia nozione di cause relative a rapporti di locazione di immobili urbani, soggette al rito speciale di cui all'art. 447-bis c. p.c., sono da ricomprendere tutte le controversie comunque riferibili ad un contratto di locazione, che attengano, cioè, non solo alla sua esistenza, validità ed efficacia, ma altresì a tutte le altre possibili sue vicende, e segnatamente, a quelle che involgano l'adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto in base alla disciplina codicistica o a quella di settore della legislazione speciale ed in primis, all'obbligazione di pagamento del canone. Infatti, la competenza per materia prevista dalla dell'art. 8, comma 2, n. 3), c.p.c., si estende a tutte le cause relative a rapporti di locazione di immobili urbani, ossia alle controversie comunque riferibili ad un contratto di locazione, che attengano, cioè, non solo alla sua esistenza, validità ed efficacia, ma, altresì, a tutte le altre possibili sue vicende (Cass. III, n. 10070/2001). Ciò posto, va altresì considerato che la qualificazione della natura della controversia dipende per i fini processuali dal titolo invocato dall'attore a fondamento del bene richiesto (Cass. III, n. 8114/2013). Brevi cenni sulla “giurisdizione condizionata” in ambito locatizioCome è noto, anche le controversie locatizie per le quali si applica il rito processuale ordinario – a differenza di quelle disciplinate dal procedimento sommario – rientrano nel perimetro di operatività del d.lgs. n. 28/2010 che istituisce un procedimento obbligatorio di mediazione per chi intende esercitare un'azione in giudizio in materia di locazione, comodato, affitto di aziende, frutto di una chiara scelta legislativa volta a contenere i costi ed i tempi della giustizia civile senza al contempo renderne particolarmente complesso l'accesso, qualora il previo esperimento del tentativo di mediazione abbia esito negativo, ragione per cui, in caso di inosservanza della condizione di procedibilità dell'azione, di cui al citato art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, la notificazione del ricorso – e del decreto emesso dal giudice adito – ai sensi dell'art. 415, comma 4, c.p.c., va effettuata senza attendere l'esperimento del procedimento di mediazione. Ciò in quanto, l'unico effetto processuale derivante dal mancato esperimento della mediazione – rilevabile d'ufficio non oltre la prima udienza – consiste nell'assegnazione alle parti del termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. La domanda che trae titolo da un rapporto lato sensu locativo come quella avente ad oggetto il rilascio dell'immobile occupato sine tituloex art. 447-bis c.p.c. deve scontare la preventiva ed obbligatoria procedura di mediazione, nella materia prevista dall'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 (Trib. Modena 5 maggio 2011). Al riguardo, è quindi opportuno precisare che il tentativo di mediazione diviene condizione di procedibilità solo dopo la pronuncia dei provvedimenti adottati nella fase c.d. sommaria, e per il giudizio a cognizione piena disciplinato dal rito locatizio. In tale ottica si inquadra l'interpretazione dell'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010 – introdotto dal d.l. n. 69/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 98/2013 – laddove prevede la mediazione obbligatoria per le cause in materia locatizia, stabilendo che l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, e che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. L'espressione adoperata dal legislatore “condizione di procedibilità della domanda” di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 va correttamente intesa con riferimento alla domanda di accertamento negativo del diritto al rilascio dell'immobile proposta dalla parte ed alle ulteriori domande riguardanti essenzialmente il pagamento di somme derivanti dal rapporto locatizio (Trib. Bologna 17 novembre 2015). Infatti, se a norma dell'art. 5, comma 1, del d. lgs. n. 28/ 2010 è previsto che l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ed anche che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione, in ambito locatizio detto onere trova una sua regolamentazione nel successivo comma 4 lett. b), ove è specificato l'inoperatività della previsione nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’art. 667 c.p.c. (Trib. Verbania 22 luglio 2021). La forma dell'atto introduttivo: il ricorsoIl rito ordinario del processo locatizio è quello previsto per le controversie di lavoro in quanto applicabili ed inizia quindi con il deposito nella cancelleria del giudice adito del ricorso disciplinato dall'art. 414 c.p.c. La proposizione della domanda con ricorso anziché con atto di citazione è una delle peculiarità che connotano la specialità del processo locatizio e comporta una diversità che non attiene alla mera forma dell'atto introduttivo, atteso che mentre nell'atto di citazione è l'attore ad indicare la data di prima comparizione nella vocatio in jus, nel caso dell'introduzione del contenzioso con ricorso l'udienza di prima comparizione viene invece fissata direttamente dal giudice adito dal ricorrente. In dottrina (Carrato 2005, 437), si è osservato che una delle peculiarità ripresa dal rito del lavoro che connota del carattere di specialità il processo locatizio è costituita dalla forma di introduzione del giudizio che si identifica con il ricorso, il quale, contiene soltanto l'editio actionis non anche la vocatio in jus dell'atto di citazione, e, per tale ragione, viene prima depositato nella cancelleria del giudice competente, e, quindi, unitamente al decreto di fissazione della udienza di discussione, portato a conoscenza della parte resistente. È proprio a causa della mancanza della vocatio in jus nel ricorso del rito locatizio che si rende necessaria la notifica al resistente anche del decreto che fissa l'udienza di discussione, momento che segna anche l'inizio della litispendenza ex art. 39 c.p.c., trattandosi quindi di un atto complesso, a formazione progressiva, che necessita dell'impulso iniziale della parte ricorrente per la formazione dell'editio actionis e per il suo completamento dell'attività successiva del giudice adito che emana il provvedimento contenente la fissazione dell'udienza di discussione, corrispondente nel rito ordinario di cognizione alla vocatio in jus contenuta nell'atto di citazione con l'invito al convenuto a comparire all'udienza di prima comparizione dinanzi al giudice adito. La dottrina (Poliseno, 940; Carrato, Di Filippo 1995, 79; Luiso 1992, 125; Lasagno, 85) al riguardo ha evidenziato come la nuova disciplina sugli effetti dell'invalidità dell'atto di citazione è la conseguenza di un ripensamento critico nei confronti del vecchio testo dell'art. 164 c.p.c., in virtù della distinzione che nel rito del lavoro si percepisce con maggiore evidenza fra editio actionis e vocatio in ius, atteso che la prima, che si identifica con l'atto di esercizio dell'azione, è realizzata dal ricorso ex art. 414 c.p.c., mentre la seconda, che si identifica con gli atti di attivazione del contraddittorio, è realizzata dal decreto di fissazione dell'udienza di discussione emesso dal giudice adito. In ordine al richiamo dell'art. 414 c.p.c. al rito locatizio per effetto del rinvio operato dall'art. 447-bis c.p.c. l'anzidetta disposizione normativa è interamente applicabile per la trattazione delle controversie locatizie per quanto attiene sia alla definizione della struttura dell'atto da redigersi in forma di ricorso, sia al relativo aspetto contenutistico, dovendo contenere gli stessi elementi di un ricorso di lavoro, del quale condivide anche lo stesso iter notificatorio, riguardante tanto il ricorso quanto il decreto di fissazione della prima udienza di comparizione delle parti. In ciò si coglie uno degli aspetti acceleratori tipici del rito locatizio governato dal processo lavoristico, in quanto, a differenza di quanto solitamente accade nel rito ordinario di cognizione in cui la data indicata dall'attore nella vocatio in jus dell'atto di citazione difficilmente corrisponde a quella reale in cui si terrà la relativa udienza di prima comparizione, la data indicata dal giudice nel decreto che fissa la comparizione delle parti dinanzi a sé medesimo è proprio la data in cui effettivamente sarà chiamata la controversia inserita nel ruolo dello stesso giudice designato alla sua trattazione. A ben vedere, esiste anche un'altra peculiarità nella modalità introduttiva del processo locatizio con ricorso anziché con atto di citazione e riguarda gli effetti sostanziali e processuali, come la litispendenza, che si avrà modo di esaminare più avanti, nei successivi paragrafi, e la stessa tempistica concernente l'instaurazione del contraddittorio, che nelle controversie rientranti nella materia locatizia viene ad essere capovolta, essendo anticipata con lo stesso deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adito, contestualmente alla iscrizione a ruolo della causa, momento quest'ultimo che segna quindi la stessa costituzione in giudizio del ricorrente. A ciò aggiungasi che l'introduzione della lite con ricorso anziché con atto di citazione comporta un'ulteriore effetto, ravvisabile nella sostanziale impossibilità di incorrere in tecniche dilatorie della tempistica processuale ordinaria, non potendo il ricorrente indicare autonomamente la data di comparizione a notevole distanza di tempo rispetto alla notifica dello stesso atto con pedissequo decreto al resistente – come invece può verificarsi nell'ordinario giudizio di cognizione: si pensi alle ipotesi più disparate che spaziano dall'opposizione a decreto ingiuntivo sino all'instaurazione di un giudizio ordinario di accertamento negativo del credito vantato dalla controparte evocata strumentalmente in giudizio dall'attore al solo tentativo di guadagnare tempo evitando la preventiva instaurazione nei propri confronti di qualsiasi azione monitoria fino all'accertamento dello stesso credito – ed al contrario, potendo il giudice ottimizzare i tempi di durata del processo, eventualmente calendarizzandone gli stessi adempimenti, tra cui, in primis quelli istruttori. I requisiti del ricorsoI requisiti di contenuto e di forma del ricorso ex art. 414 c.p.c. corrispondono in larga parte a quelli individuati dall'art. 163 c.p.c. per l'atto di citazione nel processo ordinario di cognizione. In dottrina (Luiso 1992, 114), si è evidenziato che i requisiti del ricorso indicati dall'art. 414 c.p.c. divergono in misura marginale rispetto a quelli previsti dall'art. 163 c.p.c. per l'atto di citazione. Nel processo del lavoro, l'atto introduttivo deve soddisfare i requisiti previsti dall'art. 414, n. 3) e n. 4) c.p.c., ossia deve consentire alla controparte ed al giudice l'individuazione, da un lato, dell'oggetto della domanda (il petitum, n. 3 dell'articolo citato), e, dall'altro, degli elementi di fatto e di diritto su cui la domanda stessa si fonda (la causa petendi, n. 4). Ciò in quanto il ricorrente è giuridicamente onerato della prova di tutti i presupposti della propria domanda in forza del principio di cui all'art. 2697 c.c., e il suddetto onere resta tale anche nel caso in cui dovesse verificarsi la contumacia della controparte, necessitando il principio di non contestazione un comportamento concludente della parte costituita (App. Sassari 9 giugno 2021). Al riguardo si è recentemente affermato che l'onere di allegazione gravante sulle parti concerne unicamente i fatti, non le prove o il loro significato: per esse gli artt. 414 e 416 c.p.c. nel rito speciale richiedono solo l'indicazione specifica, non anche una spiegazione in termini di significatività e valenza probatoria che, invece, sono oggetto di autonoma valutazione cui il giudice deve provvedere d'ufficio (Cass. lav., n. 22254/2021). Il ricorso, se è conforme a queste previsioni, consente al convenuto di difendersi validamente, ossia di “proporre domande riconvenzionali ed eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio”, e, soprattutto, di “prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda” e di “proporre tutte le sue difese in fatto ed in diritto”, attività queste, che, come impone l'art. 416 c.p.c., il convenuto deve compiere, a pena di decadenza, al momento della costituzione in giudizio, con la memoria difensiva da depositarsi in cancelleria almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata per la discussione. Il difetto o l'insufficienza di taluno dei requisiti essenziali rende l'atto introduttivo inidoneo al conseguimento dello scopo – rappresentato dall'instaurazione di un contraddittorio in senso sostanziale e non meramente formale – e ne determina, dunque, la nullità. La formula dell'art. 414 c.p.c. nell'enunciare il contenuto dell'atto introduttivo della domanda giudiziale riprende quello analogo dell'art. 163 c.p.c. dovendo infatti indicare nell'ordine il giudice, il nome, cognome, residenza od il domicilio eletto dal ricorrente nel comune in cui ha sede il giudice adito, nonché nome, cognome, residenza o domicilio o dimora del resistente, tenendo presente che se ricorrente od il resistente è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta od un comitato, il ricorso deve indicare anche la denominazione o ditta, e la sede del ricorrente o del resistente. I requisiti di contenuto-forma del ricorso ex art. 414 c.p.c. sono quasi identici a quelli previsti dall'art. 163 c.p.c. per l'atto di citazione (Montesano, Vaccarella, 104; Luiso 1992, 115). Nel paradigma dell'art. 414 c.p.c., che disciplina il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio del lavoro, l'elezione di domicilio del ricorrente “nel comune in cui ha sede il giudice adito” è prescritta – per offrire un ulteriore elemento di identificazione del ricorrente e per individuare il luogo dove devono essere effettuate le comunicazioni e le notificazioni a norma dell'art. 170 c.p.c. – in alternativa alla indicazione della residenza come inequivocabilmente si desume dall'uso consapevole della disgiuntiva “o” in luogo della congiunzione “e”, per il collegamento dei due requisiti nella formula della predetta norma. Pertanto, la mancata elezione di domicilio, ove il ricorso contenga l'indicazione della residenza dei ricorrenti, esclude che possa ritenersi la nullità dello stesso atto. Infatti il solo caso in cui la giurisprudenza di legittimità ravvisa un'ipotesi di nullità insanabile del ricorso è quello in cui si riscontri la mancanza dei requisiti di cui all'art. 414, n. 3) e n. 4) c.p.c. – relativi all'oggetto della domanda ed all'esposizione degli elementi di fatto e di diritto su cui essa si fonda – ovvero sia impossibile individuarli (Cass. II, n.13595/2000, secondo cui l'unica conseguenza dell'inosservanza della disposizione di cui all'art. 414, n. 2, c.p.c., la quale va coordinata con l'art. 52 disp. att. c.p.c. e con l'art. 82 r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, è che le comunicazioni e le notificazioni vanno effettuate in cancelleria). Nel ricorso ex art. 414 c.p.c., se ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta od un comitato, non si prevede invece l'indicazione del nome e cognome del procuratore e l'indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata, come invece richiede l'atto di citazione disciplinato dall'art. 163 c.p.c., il che come evidenziato in dottrina, non significa che nel rito lavoristico le parti devono essere indicate in maniera imprecisa. La dottrina (Socci 2000, 104) ritiene infatti che debba ritenersi valida la regola che il soggetto è ben indicato quando non sorgono incertezze sulla sua identificazione, i cui elementi sono desumibili dall'intero contenuto dell'atto introduttivo ed eventualmente anche dalla stessa notifica del ricorso. Il ricorso deve inoltre contenere la determinazione dell'oggetto della domanda, l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni, e l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione. Indicazione del giudice La mancata indicazione del giudice adito è una delle possibili cause di nullità del ricorso trovando applicazione l'art. 164, comma 1, c.p.c., estensibile al rito lavoristico, salva la sanatoria con efficacia ex tunc per effetto della costituzione della parte resistente. Tuttavia, secondo la giurisprudenza, nel rito del lavoro, l'omessa indicazione nel ricorso introduttivo del giudizio del giudice adito o l'indicazione di un giudice diverso dallo stesso non sono idonei a determinare la nullità del ricorso medesimo per incertezza assoluta in ordine al giudice investito della causa, poiché la procedura di proposizione della domanda con il deposito dell'atto nella cancelleria di un giudice ed il decreto di fissazione dell'udienza di discussione di detto giudice, sempre che dagli atti risulti chiaramente di quale ufficio giudiziario si tratti, esclude che il convenuto, cui il ricorso ed il decreto siano notificati, sia incerto circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello – anche se investito per errore della causa è incompetente – dinanzi a cui la causa è stata così radicata e che lo ha chiamato in giudizio (Cass., sez. lav., n. 965/1984). Pertanto, anche l'erronea indicazione dell'ufficio giudiziario adito dal ricorrente non comporta invece la nullità del ricorso in quanto il suo deposito nella cancelleria ed il decreto di fissazione dell'udienza di discussione escludono che il resistente, al quale il ricorso ed il decreto devono essere necessariamente notificati, possa incorrere in errore nell'individuare il giudice davanti al quale comparire, essendo quest'ultimo identificato in quello davanti al quale la causa è stata radicata con il deposito del ricorso (Cass., sez. lav., n. 965/1984). Il ricorso deve quindi indicare il giudice competente e, trattandosi di controversia locatizia, opera il foro rei sitae ai sensi dell'art. 21 c.p.c. ragione per cui è competente il giudice del luogo dove è posto l'immobile o l'azienda, tenendo presente che qualora l'immobile sia compreso in più circoscrizioni giudiziarie, è competente il giudice della circoscrizione nella quale è compresa la parte soggetta a maggior tributo verso lo Stato, mentre quando non è sottoposto a tributo, è competente ogni giudice nella cui circoscrizione si trova una parte dell'immobile. Inoltre, per le azioni possessorie e per la denuncia di nuova opera e di danno temuto è competente il giudice del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato. Il principio di inderogabilità della competenza territoriale in materia di locazioni risulta dal combinato disposto degli artt. 21 e 447-bis c.p.c. (Cass. VI, n. 29824/2011) trattandosi di competenza esclusiva non derogabile, con la conseguente invalidità di una clausola difforme, posta dall'art. 447-bis, comma 2, c.p.c. (Cass. III, n. 7566/2002). Infatti il principio della necessità di contestazione di tutti i fori alternativamente concorrenti non opera in presenza di un foro esclusivo, quale il forum rei sitae stabilito dall'art. 21 c.p.c., salvo deroga convenzionale ai sensi dell'art. 29 c.p.c., che, però, non opera ove la domanda afferisca alla materia della locazione immobiliare, in applicazione dell'art. 447-bis c.p.c. comma 2 (Cass. VI, n. 21908/2014). Generalità del ricorrente e del resistente L'indicazione delle complete generalità delle parti previste dall'art. 414, n. 2) c.p.c. ha per finalità la loro corretta ed univoca identificazione tanto della parte istante quanto della parte evocata in giudizio, anche per individuare il luogo in cui devono essere effettuate le comunicazioni e notificazioni ai sensi dell'art. 170 c.p.c. A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 noto come Correttivo alla riforma Cartabia, recante disposizioni integrative e correttive al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a sua volta recante l'attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, recante la delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata, il comma 2, dell'art. 414 c.p.c. attualmente prevede che il ricorso debba contenere il nome, il cognome, il codice fiscale e la residenza od il domicilio del ricorrente, il nome, il cognome, il codice fiscale e la residenza od il domicilio o la dimora nonché l'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi del convenuto; se ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto. L'art. 414 c.p.c. – con il richiedere che il ricorso introduttivo del giudizio del lavoro debba contenere l'indicazione della residenza o del domicilio se il ricorrente è una persona fisica oppure l'indicazione della sede se si tratta di persona giuridica – intende perseguire un duplice scopo: quello di consentire una più esatta identificazione delle parti nonchè quello di individuare il luogo dove devono essere comunicati e notificati alcuni atti processuali (Cass. S.U., n. 7827/1991). Ciò comporta l'irrilevanza dell'indicazione della residenza del ricorrente nell'atto introduttivo del giudizio ai fini della validità e regolare instaurazione del contraddittorio qualora le ulteriori indicazioni ne consentano l'identificazione, potendo l'irregolarità formale essere sanata dalla costituzione del convenuto. La dottrina (Socci, 2000, 104) innanzi richiamata, ritiene infatti che debba ritenersi valida la regola che il soggetto è ben indicato quando non sorgono incertezze sulla sua identificazione, i cui elementi sono desumibili dall'intero contenuto dell'atto introduttivo ed eventualmente anche dalla stessa notifica del ricorso introduttivo del giudizio. Infatti, il rilievo che l'art. 414 c.p.c. attribuisce, tra le altre indicazioni che il ricorso deve contenere, alla “residenza” del ricorrente – corrispondente all'indicazione della residenza, domicilio o dimora del convenuto espressi dalla regola del “contenuto della domanda” di cui all'art. 163 c.p.c. nell'ordinario procedimento di cognizione – consente di poter affermare, parallelamente alle indicazioni dell'art. 164 c.p.c., che l'omissione dell'indicazione della residenza non produce nullità se non si traduce nell'impossibilità di identificare con sicura certezza il ricorrente. In buona sostanza, per aversi un'omissione in grado di incidere negativamente sull'instaurazione del contraddittorio, occorre che la mancanza o l'erroneità dell'indicazione del ricorrente comporti una totale situazione d'incertezza sull'identità della stessa parte sì da assumere rilevanza ai sensi dell'art. 164, comma 1, c.p.c. (Cass., sez. lav., n.1086/1994; Cass., sez. lav., n.3745/1984). Nella prevalente dottrina (Besso, 96), nell'àmbito dell'applicazione dell'art. 164 c.p.c., si è affermata per i vizi relativi alla chiamata in giudizio del resistente – concernenti anche la mancata o corretta indicazione delle parti – una possibile sanatoria attraverso la costituzione di quest'ultimo o la rinnovazione dell'atto. Elezione domicilio del ricorrente La prescrizione dell'onere previsto nell'art. 414 c.p.c. di indicare la residenza o l'elezione di domicilio nel Comune sede del giudice adito rappresenta una scelta ragionevole in quanto funzionale ad un più immediato ed agevole espletamento delle formalità di notificazione degli atti giudiziari, in quanto, la mancata elezione non impedisce il diritto di difesa, ben potendo l'avvocato con l'ordinaria diligenza informarsi presso la cancelleria e ritirare l'atto, considerato, tra l'altro, che tale forma di notifica consegue al mancato adempimento dell'onere imposto alla parte rappresentata nel ricorso. L'art. 414 c.p.c. prescrive alternativamente l'indicazione della residenza o l'elezione di domicilio del ricorrente a differenza di quanto prescrive l'art. 163 c.p.c. nel rito ordinario di cognizione il quale impose sempre l'indicazione della residenza dell'attore. La dottrina (Montesano, Vaccarella, 105) ritiene che in difetto dell'elezione di domicilio o dell'indicazione della residenza del ricorrente, si applica il disposto dell'art. 58 disp. att. c.p.c. La giurisprudenza, ritiene che l'unica conseguenza dell'inosservanza della disposizione di cui all'art. 414, n. 2) c.p.c., la quale va coordinata con l'art. 52 disp. att. e con l'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, è che le comunicazioni e le notificazioni vanno effettuate in cancelleria (Cass. II, n. 13595/2000). Indicazione denominazione e sede del ricorrente e resistente persona giuridica, associazione non riconosciuta o comitato L'art. 414 c.p.c. richiede che il ricorso introduttivo del giudizio del lavoro debba contenere l'indicazione della casa o del domicilio eletto nel comune in cui ha sede il giudice adito, se il ricorrente è una persona fisica, oppure l'indicazione della sede, se si tratta di una persona giuridica. Le stesse precisazioni deve contenere la memoria difensiva per quanto attiene al convenuto anche se l'art. 416 c.p.c. parla solo di residenza o domicilio del convenuto, ma deve intendersi che, se convenuta è una persona giuridica, tale indicazione deve, come precisa l'art. 414, n. 2) c.p.c. con riferimento ad entrambe le parti, essere sostituita con quella della sede legale. A differenza di quanto accade nel rito ordinario di cognizione, non è richiesta anche l'indicazione dell'organo dotato dei necessari poteri di rappresentanza nel giudizio, potendo essere individuati successivamente, ovvero, quanto al resistente, al momento in cui è notificato il ricorso ex art. 414 c.p.c. con il pedissequo decreto dell'udienza di comparizione delle parti ovvero, e per il ricorrente, in occasione dell'anzidetta udienza (Montesano, Vaccarella, 105). L'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioniNel processo del lavoro a cui è ispirato il rito locatizio, il ricorrente ha l'onere di indicare, a pena di nullità, ai sensi dell'art. 414, n. 4) c.p.c., nel ricorso introduttivo del giudizio, analogamente a quanto stabilito per il giudizio ordinario dall'art. 163, n. 4) c.p.c., gli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la pretesa azionata in giudizio. In linea generale, ai sensi dell'art. 414 c.p.c., una domanda può considerarsi proposta contro il soggetto convenuto quando questi sia indicato nel ricorso con le indicazioni ivi previste, l'oggetto – petitum – sia determinato e gli elementi di fatto e di diritto giustificativi – causa petendi – siano specificamente esposti, insieme alle relative conclusioni. L'art. 414, n. 3) c.p.c. richiede la determinazione non della “cosa oggetto della domanda” come invece prevede l'art. 163, n. 3) c.p.c., ma la “determinazione dell'oggetto della domanda”, e, quindi, non soltanto del petitum “mediato” (il c.d. bene della vita) ma anche del petitum “immediato”, vale a dire il contenuto del provvedimento che si chiede al giudice (Picardi, 2167; Montesano, Vaccarella, 105; Tarzia 2008, 97; Fabbrini, 58; Contra, Sandulli, Socci, 110; laddove si ritiene non esservi differenze di sostanza tra il ricorso ex art. 414 c.p.c. e l'atto di citazione ex art. 163 c.p.c., sulla scorta della considerazione che anche l'atto di citazione contiene le conclusioni in cui è presente il petitum immediato; Luiso 1992, 116, il quale rileva che anche nell'atto di citazione l'attore a pena di nullità deve individuare il diritto del quale si invoca la tutela, ed il correlato provvedimento che si chiede al giudice adito). La causa petendi richiesta dall'art. 414, n. 3) c.p.c. è descritta in termini sostanzialmente analoghi a quelli adoperati nell'art. 163, n. 4) c.p.c., e si risolve nella specificazione del fatto giuridico costitutivo vantato spettando al giudice l'individuazione della norma applicabile alla fattispecie concreta (Picardi, 2168; Montesano-Vaccarella, 106). In tale ottica, si è quindi affermato il principio in base al quale, stante la mera eventualità che il giudizio di merito segua il giudizio cautelare atipico di cui all'art. 700 c.p.c., nonchè la non necessaria omogeneità fra l'uno e l'altro giudizio, non è censurabile l'interpretazione del ricorso ex art. 414 c.p.c. data dal giudice, il quale escluda che una pretesa contro una certa parte, avanzata ex art. 700 c.p.c., sia stata nuovamente espressa col successivo ricorso ex art. 414 c.p.c., e, rilevi altresì non essere stata autorizzata ex art. 420 c.p.c., la modifica della domanda formulata nel giudizio di merito (Cass., sez. lav., n. 8070/2009). Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio, per omessa determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l'omessa indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, ma è necessario che ne sia impossibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto (Cass. S.U., n. 6140/1993; più di recente nella giurisprudenza di merito, v. App. Bari n. 4464/2016), risultando impossibile individuare la domanda del ricorrente e le ragioni poste a base di essa con la conseguente impossibilità da parte del resistente di apprestare una compiuta difesa (Cass., sez. lav., n. 13825/2008). La valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancanza di determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, implica necessariamente una interpretazione dell'atto introduttivo della lite riservata al giudice del merito, il quale deve quindi trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso, a seconda se gli stessi elementi consentono o meno di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass., sez. lav., n. 7097/2012). Ciò risponde al più recente orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità secondo cui costituisce ius receptum che nel rito del lavoro si riscontra una circolarità tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, la quale, richiede la necessità che ai sensi dell'art. 414 c.p.c., gli elementi di fatto e di diritto posti a base delle domande e/o istanze del ricorrente siano compiutamente contenuti nel primo atto processuale (ricorso), e richiede altresì che risulti individuato in modo chiaro nel ricorso introduttivo quanto richiesto al giudice (petitum), con la conseguente impossibilità di dimostrare circostanze non ritualmente e tempestivamente allegate nel ricorso. La sopra riferita circolarità degli oneri di allegazione, di contestazione e di prova, per essere espressione di un assetto normativo incentrato sull'oralità, concentrazione ed immediatezza, caratterizzante il rito del lavoro e, di conseguenza quello locatizio, è funzionale al perseguimento del principio della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111, comma 2, Cost., in quanto la determinazione dell'oggetto della domanda e l'indicazione dei fatti posti a base della domanda stessa ex art. 414, nn. 3) e 4) c.p.c., consentono alla parte evocata in giudizio, di prendere posizione sui fatti di causa, assolvendo agli oneri di contestazione nonché a quelli probatori aventi ad oggetto i fatti ritualmente e tempestivamente allegati nel ricorso introduttivo della lite. Nel rito del lavoro, quindi, è affetto da nullità assoluta il ricorso introduttivo allorquando sia privo dell'esatta determinazione dell'oggetto della domanda o dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto posti a base della domanda stessa. Tale nullità, che il giudice è tenuto a dichiarare preliminarmente, non è sanabile attraverso una opera di integrazione del contenuto del ricorso con quello dei documenti allegati al ricorso stesso, dovendo il thema decidendum della controversia essere individuato – in ragione della prescrizione di cui all'art. 414, nn. 3) e 4), c.p.c., e della circolarità degli oneri di allegazione, di contestazione e di prova – in forma esauriente e chiara sulla base del solo atto introduttivo della lite, non potendo i documenti ad esso allegati servire per supplirne le carenze, stante la loro natura di mezzi di prova, volti come tali ad asseverare la veridicità e validità degli elementi di fatto e di diritto allegati in ricorso (Cass. S.U., n. 11353/2004). La modifica della domanda e delle conclusioni formulate nel ricorsoNel corso del processo di primo grado, le parti possono modificare domanda e conclusioni, ma solo se ricorrano gravi motivi, positivamente valutati dal giudice ai sensi dell'art. 420, comma 1, c.p.c., come quando il contenuto della memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. versata in atti dello stesso procedimento dal resistente giustifichi la proposizione di una nuova domanda. Al riguardo, è opportuno precisare che si ha un caso di mutatio libelli qualora si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su circostanze e situazioni giuridiche non prospettate prima, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare funzionamento del processo, mentre si ha una semplice “emendatio” quando si incida sulla causa petendi, sicchè risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere in giudizio (Cass., sez. lav., n. 17457/2009). Ciò premesso, la linea di separazione tra un mutamento non consentito della domanda introdotta con il ricorso ex art. 414 c.p.c. ed una modifica invece consentita, ai sensi dell'art. 420, comma 1, c.p.c., deve tracciarsi con riferimento al criterio della sussistenza – nella prima ipotesi – o della insussistenza – nella seconda ipotesi – di un concreto pregiudizio per il diritto di difesa della controparte, che non deve essere posta di fronte ad una controversia del tutto difforme da quella originariamente prospettata: ciò che si realizza in presenza di un petitum diverso e più ampio oppure di una causa petendi basata su fatti costitutivi del diritto radicalmente differenti da quelli delineati nell'atto introduttivo della lite, così da provocare un effetto di sorpresa e disorientamento e da determinare una sopravvenuta carenza o inidoneità degli strumenti di resistenza già apprestati, alterando di conseguenza il regolare ed equilibrato corso del processo. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, tale alterazione deve conseguentemente escludersi ove la modifica dei termini della controversia venga a dipendere dalle allegazioni in fatto contenute nella memoria di costituzione avversaria e, pertanto, da fatti di cui la controparte in tale modo, dimostri di avere già conoscenza, non attuandosi in questo caso alcuna pregiudizievole estensione del thema probandum e rimanendo pienamente integra la parità delle parti nel processo (Cass., sez. lav., n. 6597/2018). Casistica Sulla scorta di quanto affermato con riferimento al ricorso ex art. 414 c.p.c. in ordine all'ammissibilità di una modificazione della originaria causa petendi della domanda proposta nel procedimento per convalida di sfratto, all'esito della conversione del rito da sommario in ordinario, ai sensi dell'art. 667 c.p.c. – in particolare con la memoria integrativa di cui all'art. 426 c.p.c. – alcune pronunce affermano che nel procedimento per convalida di sfratto, l'opposizione dell'intimato ai sensi dell'art. 665 c.p.c. determina la conclusione del procedimento a carattere sommario e l'instaurazione di un nuovo ed autonomo procedimento con rito ordinario, nel quale le parti possono esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, ivi compresa, per il locatore, la possibilità di porre a fondamento della domanda una causa petendi diversa da quella originariamente formulata, e, per il conduttore, la possibilità di dedurre nuove eccezioni e di spiegare domanda riconvenzionale (Cass. III, n. 21242/2006; Cass. III, n. 8336/2004). In base ad altro orientamento, si è invece, ritenuto che, nel rito delle locazioni di cui alla l. n. 353/1990, che ne ha disciplinato il procedimento secondo il rito speciale del lavoro, per il combinato disposto degli artt. 667 e 426 c.p.c., una volta che il giudice abbia pronunciato o negato i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c., il giudizio, che è unico ed inizia con l'esercizio da parte del locatore di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per la convalida, prosegue davanti allo stesso giudice con la facoltà per le parti di depositare memorie integrative, che non possono contenere domande nuove, a pena di inammissibilità rilevabile anche d'ufficio dal giudice, non sanata neppure dall'accettazione del contraddittorio sul punto, col solo limite della formazione del giudicato (Cass. III, n. 8411/2003). Nel rito del lavoro, la disciplina della fase introduttiva del giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano, con la conseguenza che non è proponibile, non solo alcuna domanda nuova, ma non è consentita neanche la formulazione di una emendatio, se non nelle forme e nei termini previsti, per cui è inammissibile – rilevabile d'ufficio e non sanabile neppure dall'accettazione del contraddittorio – qualsiasi modificazione della domanda che non sia stata operata – con riferimento al giudizio locatizio a cognizione piena conseguente al superamento della fase speciale del procedimento per convalida – ai sensi dell'art. 426 c.p.c., attraverso l'integrazione dell'atto introduttivo, nel termine perentorio fissato dal giudice (Cass. III, n. 23908/2006). Allo stesso modo, si è altresì evidenziato che a seguito dell'opposizione dell'intimato, il procedimento speciale per convalida di licenza o di sfratto si trasforma in ordinario processo di cognizione, nell'ambito di un unico procedimento, il quale, introdotto con l'azione di condanna nella fase sommaria, continua a svolgersi nella fase diversa della cognizione piena, con la conseguenza che le memorie integrative delle parti, pur non potendo contenere domande nuove, sono pur sempre idonee ad introdurre tutte le consentite modificazioni del petitum, con l'allegazione di fatti secondari costitutivi del diritto o, comunque, con la prospettazione di una diversa strategia difensiva (Cass. III, n. 15021/2004). Nella fattispecie concernente la convalida della licenza per finita locazione alla sua scadenza, qualora, a seguito dell'opposizione dell'intimato, al procedimento sommario subentri il mutamento del rito ai sensi dell'art. 667 c.p.c., non concreta domanda nuova quella che abbia ad oggetto la richiesta di risoluzione del rapporto di locazione per intervenuta sua scadenza, poiché detta domanda costituisce soltanto specificazione dell'originaria richiesta di condanna in futuro (Cass. III, n. 674/2005). Qualora venga intimata licenza per finita locazione ad una certa data e l'intimato si opponga deducendo l'esistenza di altro contratto con scadenza posteriore, il locatore può proporre con la memoria integrativa, successiva all'ordinanza ex art. 426 c.p.c. (che dispone la prosecuzione del giudizio secondo le regole della cognizione piena), domanda di risoluzione alla stregua del secondo contratto, trattandosi di emendatio libelli, cioè di mera specificazione dell'originaria domanda di risoluzione avanzata in sede monitoria (Cass. III, n. 16635/2008). L'indicazione dei documenti e dei mezzi di provaLa enunciazione corretta e compiuta della domanda avanzata con il ricorso ex art. 414 c.p.c. esige oltre alla nuda allegazione dei fatti anche l'enunciazione delle relative fonti di prova che a pena di decadenza rilevabile d'ufficio dal giudice, il ricorrente ha l'onere di indicare nel ricorso depositato nella cancelleria del giudice adito. La decadenza prevista dagli artt. 414, n. 5), e 416, comma 3, c.p.c. ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere rilevata d'ufficio dal giudice indipendentemente dal silenzio serbato dalla controparte o dalla circostanza che la medesima abbia accettato il contraddittorio, atteso che nel rito del lavoro la disciplina dettata per il giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano (Cass. III., n. 24900/2005; nonché, per la decadenza di cui agli artt. 414, n. 4, e 416, comma 2, Cass. S.U., n. 7708/1993 e Cass., sez. lav., n. 717/1997). Inoltre nel rito del lavoro, in primo grado come in appello, non giustificandosi la distinzione tra prove costituite e prove costituende, con la conseguente applicazione anche alla produzione documentale delle stesse preclusioni previste per le prove orali, è ammissibile la produzione tardiva dei documenti, oltre i termini stabiliti dal codice, in deroga al divieto sancito dagli artt. 414, n. 5), 416, comma 3, e 437, comma 2, c.p.c. solo se gli stessi siano effettivamente nuovi, ossia sopravvenuti o la cui produzione sia giustificata dallo sviluppo della vicenda processuale successivamente al ricorso od alla memoria difensiva, non potendosi dare ingresso a documenti per i quali le parti siano incorse in decadenza, atteso che, altrimenti, si finirebbe per consentire l'aggiramento delle indicate disposizioni, con conseguente violazione della struttura e della logica del sistema che ispira la disciplina probatoria nel rito del lavoro (Cass., sez. lav., n. 11922/2006; Cass. III., n. 24900/2005; Cass. S.U., n. 8202/2005). L'art. 414, n. 5) c.p.c. prevede che il ricorso deve contenere l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione, la cui mancanza, non comporta l'invalidità del ricorso ma la decadenza della stessa parte ricorrente dal dedurre successivamente le fonti di prova, anche documentali, e, quindi, il rischio di incorrere nel rigetto della domanda. In tale ottica, è utile ricordare l'orientamento di recente espresso dalla giurisprudenza di legittimità, nella vigenza del regime processuale introdotto dalla l. n. 353/1990, secondo cui nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, incorre nella decadenza della relativa istanza istruttoria, con la conseguenza che il giudice non può fissare un termine, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., per sanare la carente formulazione (Cass. III, n. 7631/2016; Cass. III, n. 5950/2014). Il suddetto principio non è pacifico atteso che secondo altro orientamento (Cass., sez. lav., n. 17649/2010), nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma, 1 c.p.c. Va da sé che l'assegnazione da parte del giudice, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 421 c.p.c., di un termine per porre rimedio alla irregolarità riscontrata nella indicazione dei capitoli di prova, con l'invito ad una nuova formulazione degli stessi, comporta, in applicazione della particolare disciplina dell'art. 420, commi 5 e 6, c.p.c., la decadenza della parte dal diritto di assumere la prova nell'ipotesi di mancata ottemperanza nel termine fissato (Cass., sez. lav., n. 1130/2005). In dottrina (Masoni 2013, 111), si è osservato che l'onere gravante sul ricorrente di indicare le fonti di prova ed i documenti che intende offrire in comunicazione nel ricorso introduttivo del giudizio locatizio è una caratteristica del rito speciale, che vale a differenziarlo dal rito ordinario di cognizione in cui i mezzi di prova ed i relativi documenti possono essere allegati in un momento successivo, con il deposito della memoria n.2 prevista dall'art. 183, comma 6, c.p.c. prima dell'udienza di trattazione. È vero che l'art. 414 c.p.c. non prevede espressamente una disposizione analoga a quella enunciata dall'ultimo comma dell'art. 416 c.p.c. in tema di decadenza derivante dall'omessa allegazione dei mezzi di prova e dei documenti, ma a tale omissione normativa ha posto rimedio il giudice delle leggi, affermando che una questione che faccia esclusivamente perno sulla comparazione della lettera degli artt. 414 e 416 c.p.c., dando rilievo alla presenza, soltanto nella seconda norma, della espressione “a pena di decadenza” è stata ritenuta priva di fondamento, atteso che una lettura sistematica del dato normativo conferma il carattere paritario della disciplina dell'attività defensionale delle parti. La stessa sanzione che per il convenuto si trova espressamente sancita nell'art. 416 c.p.c. deve, invero, ritenersi prevista per l'attore, sia pure in modo implicito, ma non per questo meno chiaro, in base al disposto dell'art. 414, n. 5) c.p.c. e dell'art. 420 c.p.c. Infatti, poiché l'art. 420, comma 5, c.p.c. consente al giudice di ammettere all'udienza di discussione, oltre i mezzi di prova già proposti, quelli che la parte – e quindi, anche il ricorrente – non poteva proporre prima, ne consegue che, successivamente alla presentazione del ricorso, non potranno essere ammesse le prove che lo stesso atto poteva e doveva indicare ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 414 c.p.c. (Corte cost., n. 13/1977). Analoghe considerazioni valgono per quanto concerne la modificabilità delle domande, eccezioni e conclusioni, che l'art. 420, comma 1, c.p.c. subordina, allo stesso modo per l'attore e per il convenuto, alla ricorrenza di “gravi motivi” il cui accertamento compete ovviamente solo al giudice. Le preclusioni sono dunque nel tessuto del sistema normativo, nel contesto del quale adempiono alle sottostanti esigenze di accelerazione e semplificazione della procedura, rivolgendosi indistintamente all'attore ed al convenuto, con riguardo rispettivamente al ricorso introduttivo ex art. 414 c.p.c. ed alla memoria di costituzione ex art. 416 c.p.c., che sono gli unici atti di parte antecedenti all'udienza di discussione. Ciò premesso, la giurisprudenza ritiene che l'omessa indicazione in ricorso, ai sensi dell'art. 414, n. 5) c.p.c., di documenti tempestivamente depositati all'atto della costituzione in giudizio e altresì enunciati nell'indice del fascicolo costituisca una mera irregolarità e non comporta la decadenza dalla loro produzione, atteso che il convenuto è ugualmente in grado di conoscere tempestivamente i documenti ed eventualmente replicare in ordine al loro contenuto e rilevanza (Cass., sez. lav., n. 14001/2001). I mezzi di prova ed i documenti che, a pena di decadenza (Cass., sez. lav., n. 23745/2008; Cass. S.U., n. 8202/2005, in cui si è affermato il principio che l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi delle vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo), il ricorrente deve indicare nel ricorso e depositare insieme ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a base della domanda. Pertanto, l'omissione, nell'atto introduttivo del giudizio del rito del lavoro, applicabile alle controversie in materia locatizia, dell'indicazione dei mezzi di prova dei quali il ricorrente intende avvalersi determina non già l'inammissibilità del ricorso, bensì l'impossibilità di proporre in seguito i mezzi di prova non indicati, dei quali il ricorrente non può più giovarsi, salvo che essi siano ammessi dal giudice in considerazione della loro rilevanza e ferma restando l'eventualità che la domanda sia accolta alla stregua di ogni altra prova acquisita di ufficio o altrimenti formatasi nel corso del procedimento (Cass., sez. lav., n. 5020/1996; Cass. III, n. 9550/1994), e tale decadenza riguarda anche omissione, nell'atto introduttivo del giudizio, della specifica indicazione dei documenti che si offrono in comunicazione, come prescritto dall'art. 414 c.p.c. Infatti a fronte di una estrema rigorosità nella determinazione dei tempi di indicazione, precisazione o modificazione degli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, e delle correlate eccezioni processuali e di merito della controparte desumibili rispettivamente dagli artt. 414, n. 4), e 416 c.p.c. per il rito del lavoro e dagli artt. 163, n. 4), 166, 183 e 184 c.p.c. per il rito ordinario di cognizione, non possono avallarsi opzioni volte ad affrancare le produzioni documentali dalle stesse preclusioni operanti per tutte le restanti fonti di prova. Ai sensi, invero, dell'art. 416, ultimo comma, c.p.c., applicabile anche nei confronti del ricorrente, l'omessa indicazione, nel ricorso introduttivo ex art. 414 c.p.c., dei mezzi di prova dei quali esso ricorrente intende avvalersi, comporta la decadenza dalla loro proposizione nel corso del giudizio, salvo che emerga la necessità, ipotizzata nell'art. 420, comma 5, c.p.c., che il giudice, ritenutane la rilevanza, ne ammetta la produzione (Cass., sez. lav., n. 6526/1988). Gli enunciati principi, si pongono dunque in linea con il rigoroso sistema delle preclusioni dettato dal legislatore del 1973, che ha disegnato un coerente sistema ispirato ai principi di concentrazione, immediatezza ed oralità, che si presentano come passaggio obbligato per una effettiva funzionalità dell'intero sistema incentrato sulle preclusioni e sulle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., che trova piena legittimazione costituzionale nel carattere paritario della disciplina difensiva dell'attore e del convenuto. Infatti, va da ultimo rimarcato che il sistema delle preclusioni processuali disegnato dal legislatore non lede il diritto di difesa delle parti e la ricerca della verità materiale, essendo volto a garantire la ragionevole durata del processo riconosciuta come diritto dall'art. 6 della Convenzione europea ed espressamente sancita dall'art. 111, comma 2, Cost., la quale, funge come parametro di costituzionalità delle stesse norme processuali essendo oggetto oltre che di un interesse collettivo, ma anche di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo ed imparziale, con la conseguenza che l'opera ermeneutica del dato normativo deve accompagnarsi alla consapevolezza che gli stessi termini acceleratori e le preclusioni volte ad impedire l'ingresso nel processo di un determinato fatto e/o di una prova sono funzionali a tutelare proprio il suddetto principio della ragionevole durata del processo, e, quello, ad esso correlato, dell'economicità dell'azione, in ragione della specialità del rito lavoristico, al fine di garantire una forma di tutela processuale differenziata delle situazioni soggettive contemplate dalla normativa di riferimento rispetto a quelle invece rientranti nella tutela processuale a cognizione ordinaria. Gli effetti sostanziali e processuali del ricorsoL'atto introduttivo del processo del lavoro riveste la forma del ricorso ex art. 414 c.p.c., il cui deposito nella cancelleria del giudice adito dal ricorrente determina l'effetto della c.d. litispendenza di cui all'art. 39, ultimo comma, c.p.c., e dal cui compimento, conseguono gli altri effetti processuali e quelli sostanziali della domanda giudiziale, al di fuori della prescrizione del relativo diritto. La litispendenza nel rito locatizio non richiede quindi la notifica del ricorso, a tale scopo, essendo sufficiente il mero deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adito. In dottrina (Masoni 2013, 113), si è osservato che il principio vale agli effetti della competenza e della giurisdizione, che si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda ex art. 5 c.p.c. In ordine agli aspetti di diritto sostanziale, nel rito speciale del lavoro, l'effetto interruttivo della prescrizione del diritto non si produce invece con il solo deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, a tale fine occorrendo la sua notificazione al convenuto, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di comparizione, trovando applicazione anche nel rito locatizio il principio generale desumibile dall'art. 2943 c.c., per il quale la prescrizione è interrotta solo nel momento in cui l'atto interruttivo viene a conoscenza del destinatario. La giurisprudenza ha quindi chiarito che l'effetto interruttivo della prescrizione esige, per la propria produzione, che il debitore abbia conoscenza legale, non necessariamente effettiva dell'atto giudiziale o stragiudiziale del creditore, ed esso, pertanto, nell'ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si produce con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito ma con la notificazione dell'atto al convenuto (Cass., sez. lav., n. 24031/2017; Cass., sez. lav., n. 14862/2009). A ciò aggiungasi che nei procedimenti contenziosi, che iniziano con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice adito anteriormente alla notificazione, il compimento della formalità del deposito coincide con la proposizione della domanda, sulla validità della quale non possono riverberarsi, ostandovi il disposto dell'art. 159 c.p.c., i vizi incidenti sulla successiva fase della vocatio in ius, da attuare mediante la notificazione del ricorso stesso e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza. La nullità del ricorsoIn base ad un consolidato orientamento di legittimità, nel rito del lavoro la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, sulle quali essa si fonda, ricorre allorché non sia assolutamente possibile l'individuazione dell'uno o dell'altro elemento attraverso l'esame complessivo dell'atto, perché in tal caso il convenuto non è messo in grado di predisporre le necessarie difese ed il giudice non è posto in condizione di conoscere l'esatto oggetto del giudizio ai fini dell'esercizio dei suoi poteri di indagine e di decisione (v., fra le molte, Cass., sez. lav., n. 19009/2018; Cass., sez. lav., n. 5794/2004). La dottrina favorevole all'applicabilità dell'art. 164 c.p.c. al rito del lavoro (Poliseno, 937) sottolinea che la esposta collocazione della disciplina processuale per le controversie individuali di lavoro nell'ambito del codice di rito assume un particolare rilievo nella considerazione che il processo del lavoro rappresenta nel nostro ordinamento uno dei modelli o schemi della ordinaria tutela giurisdizionale dei diritti nella fase della cognizione giudiziale, non trattandosi, dunque, di uno speciale processo a se stante ed avulso da ogni altro previsto ordinariamente dalla legge, ma di uno dei possibili processi ordinari di cognizione, caratterizzato da alcune deviazioni e particolarità rispetto a quello svolgentesi innanzi al tribunale in considerazione del suo oggetto. Ciò anche in considerazione del fatto che la novella del 1990 ha reso assai più vicini il rito ordinario e quello del lavoro, proprio al fine di uniformare maggiormente il primo all'esigenza di concentrazione e speditezza del processo propri del secondo, atteso che il processo ordinario di cognizione è stato, in un certo senso, rimodellato sulle orme della riforma del rito del lavoro del 1973, accogliendone, almeno in parte, il sistema preclusivo, la concentrazione, e la speditezza processuale. Il novellato testo dell'art. 164 c.p.c., invero, distingue le nullità relative alla vocatio in ius che permette il contraddittorio ed un effettivo esercizio del diritto di difesa, e le nullità relative alla editio actionis, che mira a costituire il contraddittorio, al fine di dare inizio al processo: poiché sono diversi gli scopi per cui queste nullità sono stabilite, sono anche diversi gli effetti della invalidità dell'atto di citazione derivante dalla mancanza di uno o dell'altro dei requisiti essenziali. Infatti nel primo caso l'eventuale sanatoria avrà effetti ex tunc, ovvero sin dal momento della prima notificazione, nel secondo invece l'eventuale sanatoria avrà effetti solo ex nunc, ovvero dalla rinnovazione o integrazione dell'atto. Ciò posto, la stessa dottrina (Poliseno, 938) rileva quindi che se la disciplina sugli effetti della invalidità dell'atto di citazione è stata riformulata sulle linee di guida del rito del lavoro, non sembra si possa allora escludere che al rito del lavoro possa per analogia applicarsi l'art. 164 c.p.c., nelle ipotesi in cui sia nullo il ricorso introduttivo ex art. 414 c.p.c. La giurisprudenza di legittimità ha più volte statuito che nel rito del lavoro il ricorrente deve – analogamente a quanto stabilito per il giudizio ordinario dal disposto dell'art. 163, n. 4) c.p.c. – indicare ex art. 414, n. 3) e n. 4) c.p.c. nel ricorso introduttivo della lite la determinazione dell'oggetto della domanda nonché gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda stessa. In caso di mancata specificazione ne consegue la nullità del ricorso, sanabile ex art. 164, comma 5, c.p.c., norma quest'ultima ritenuta estensibile anche al processo del lavoro. Corollario di tali principi è che la mancata fissazione di un termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del ricorso o per l'integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c., del vizio dell'atto, comprovano l'avvenuta sanatoria della nullità del ricorso dovendosi ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156, comma 2, c.p.c. (v., ex plurimis, Cass. lav. n.4557/2009; Cass., sez. lav., n.13878/2007; Cass., sez. lav., n.5879/2005; Cass. S.U., n. 11353/2004). La stessa giurisprudenza (Cass., sez. lav., n.13878/2007), ha avuto cura di precisare che la sanatoria disposta dal giudice ex art. 164, comma 5, c.p.c.non vale, tuttavia, a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati nè specificati nel ricorso introduttivo della lite, sicché il convenuto può eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte dell'attore della norma codicistica sull'onere della prova, in quanto la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto, ma anche l'attore, dovendo ambedue le parti, in una situazione di istituzionale parità, esternare sin dall'inizio tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze. Il suddetto orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità muove dalla considerazione che la nullità del ricorso introduttivo della controversia di lavoro per la mancata indicazione degli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, e, quindi, anche per la mancata specificazione dell'oggetto della domanda, è sanabile alla stregua dell'art. 164, comma 5, c.p.c., stante l'innestarsi del rito del lavoro, pur con le sue particolarità, nell'alveo del processo civile, anche in ragione del sostanziale avvicinamento dei due riti a seguito della novella di cui alla l. n. 353/1990. Secondo la giurisprudenza di legittimità, la mancata fissazione, a norma del citato art. 164, comma, 5 c.p.c. di un termine perentorio da parte del giudice per la rinnovazione del ricorso o per l'integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c. del vizio dell'atto comprovano l'avvenuta sanatoria della nullità del ricorso, dovendosi ritenere, a norma dell'art. 156, comma 2, c.p.c. che l'atto abbia conseguito il suo scopo (Cass., sez. lav., n.12636/2005; Cass., sez. lav., n.23929/2004; Cass. S.U. , n.11353/2004). La dottrina (Luiso 1996, 92) critica tale impostazione, ritenendo che quando si riscontra la nullità dell'atto introduttivo del giudizio – ricorso nel rito locatizio – con riferimento all'editio actionis, la sanatoria può provenire soltanto da un'attività dell'attore, il quale faccia acquisire al processo l'elemento carente e cioè integri la propria domanda in seguito all'ordine giudiziale di integrazione o di rinnovazione, individuando la situazione sostanziale controversa. Non comporta l'invalidità del ricorso introduttivo nel processo retto dal rito lavoristico la mancanza di richieste di ammissione di mezzi di prova ex art. 414, n. 5, c.p.c., non avendo chiaramente nulla a che vedere con la validità della domanda, la quale è definita da petitum e causa petendi, ma, semmai, soltanto con la possibilità che essa venga accolta nel merito e, quindi, con la sua fondatezza, fermo restando che anche nel rito civile ordinario – e, a più forte ragione, nel rito del lavoro – il giudice ha il potere di disporre d'ufficio i mezzi istruttori e la consulenza tecnica, senza alcuna necessità di una formale e tempestiva richiesta di parte (Cass., sez. lav., n. 24392/2024). La nullità del ricorso privo di sottoscrizione della parte o del suo difensoreIl rito del lavoro introdotto con la l. n. 533/1973 non costituisce un rito processuale completo e del tutto autonomo, retto esclusivamente da principi propri e perciò chiuso alla integrazione delle norme e dei principi generali del processo civile ordinario. Al contrario, tale rito, il quale si applica alle controversie locatizie, benché caratterizzato dalla specialità e da rilevanti innovazioni che lo distinguono dal processo ordinario di cognizione, è armonicamente inserito nel sistema normativo del processo civile, sicché postula necessariamente l'applicazione delle disposizioni generali contenute nel Libro I del codice di procedura civile e di quelle che regolano il procedimento davanti al Tribunale, anche se non espressamente richiamate, nei limiti in cui le stesse non contrastino con le peculiarità proprie del rito speciale qui considerato e non siano incompatibili con la struttura e la funzione del processo del lavoro. Pertanto, il rilascio della procura alle liti, previsto dall'art. 163, n. 6) c.p.c., è applicabile anche nel rito del lavoro ancorché non menzionato dall'art. 414 c.p.c., quale presupposto per la valida costituzione del rapporto processuale e requisito essenziale dell'atto introduttivo. Alla stregua di tali criteri, si è esattamente sostenuto in giurisprudenza (Cass., sez. lav., n. 8943/1987) che l'art. 414 c.p.c., il quale non prevede – fra gli elementi che il ricorso deve contenere – l'indicazione della procura e del difensore nè la sua sottoscrizione, deve intendersi integrato dalla disposizione generale di cui all'art. 125 c.p.c., secondo la quale, salvo che la legge disponga altrimenti, gli atti di parte, fra cui il ricorso, debbono essere sottoscritti dalla parte stessa, se questa in giudizio personalmente, oppure dal difensore, con l'avvertenza che, nelle controversie di lavoro, a differenza che in quelle ordinarie, la procura al difensore non può essere rilasciata dopo la proposizione del ricorso, ai sensi dell'art. 125, comma 2, c.p.c., perché tale norme esige che il rilascio avvenga anteriormente alla costituzione della parte, laddove invece nel rito speciale la costituzione in giudizio coincide con il deposito del ricorso. Infatti, la mancanza della procura ad litem comporta l'inesistenza giuridica dell'atto, la quale non può ritenersi sanata dal rilascio della procura da parte della parte interessata in un momento successivo al deposito dell'atto stesso, perché nel processo del lavoro non trova applicazione la disposizione dell'art. 125, comma 2, c.p.c., per la quale la procura al difensore dell'attore può essere rilasciata in data posteriore alla notifica dell'atto di citazione, purché anteriore alla costituzione della parte rappresentata, realizzandosi la costituzione nel giudizio mediante il deposito del ricorso in cancelleria (Cass., sez. lav., n. 9596/2001). L'originario difetto di procura non è poi emendabile a norma dell'art. 182 c.p.c., perché la regolarizzazione può avere efficacia ex tunc soltanto fatti salvi i diritti anteriormente quesiti, compresi quelli che si ricollegano alla scadenza del termine di costituzione (Cass., sez. lav., n. 9899/1998). La prevalente dottrina sul tema qui considerato ha assunto una posizione netta a favore della nullità (Luiso 1992, 132) od inesistenza giuridica (Tarzia 2008, 98) del ricorso privo di sottoscrizione della parte ricorrente se sta in giudizio personalmente, o del suo difensore, in tale modo, distinguendosi unicamente la posizione di chi invece propende per una mera irregolarità dell'atto (Montesano, Vaccarella, 108). Casistica L'art. 414 c.p.c., pur non prevedendo tra gli elementi che il ricorso deve contenere, l'indicazione della procura e del procuratore nè la sottoscrizione, deve intendersi integrato dalla disposizione generale contenuta nell'art. 125 c.p.c (Cass., sez. lav., n. 3880/1986). La giurisprudenza ha chiarito che quando la sottoscrizione del difensore esiste nell'originale ma non nella copia notificata dell'atto, si ha un'ipotesi di nullità che resta sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto, salvi i diritti sostanziali e processuali anteriormente quesiti (Cass., sez. lav., n. 14637/1999). Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non è sufficiente l'omessa indicazione in modo formale dell'oggetto della domanda e degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la stessa si fonda, essendo invece necessario che sia omesso o del tutto incerto il petitum sotto il profilo sostanziale e processuale, nel senso che non ne sia possibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto (Trib . Roma 6 luglio 2021). In particolare la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ex art. 414 c.p.c. per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per la mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, sulle quali essa si fonda, ricorre allorché non sia assolutamente possibile l'individuazione dell'uno o dell'altro elemento attraverso l'esame complessivo dell'atto, perché in tal caso il convenuto non è messo in grado di predisporre le necessarie difese, ed il giudice non è posto in condizione di conoscere l'esatto oggetto del giudizio ai fini dell'esercizio dei suoi poteri di indagine e di decisione (App. Torino 28 gennaio 2021). Non sussiste nullità del ricorso quando la sottoscrizione del procuratore risulta apposta soltanto sotto la certificazione dell'autenticità della firma della parte conferente la procura speciale, redatta in calce al ricorso, atteso che in tale ipotesi la firma del difensore consente di riferire allo stesso anche la paternità del ricorso, assumendo la duplice funzione di sottoscrivere tale atto e di certificare l'autenticità del mandato (Cass., sez. lav., n. 13854/1999; Cass., sez. lav.,n. 5711/1996). Secondo un orientamento consolidato di legittimità (Cass. III, n.6131/1995; Cass. III, n. 802/1987) il precetto enunciato nell'art. 125 c.p.c. – salvo che la legge disponga altrimenti, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso e il precetto tanto nell'originale quanto nelle copie da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte oppure dal difensore – deve ritenersi soddisfatto qualora dalla copia dell'atto notificato, sebbene priva della sottoscrizione del difensore, sia possibile desumere – sulla scorta degli elementi in essa contenuti, la provenienza da un procuratore abilitato munito di mandato. A tale fine, pur non essendo sufficiente la mera menzione, nel contesto dell'atto, del conferimento della procura, può bastare la riproduzione della procura stessa, l'indicazione della sottoscrizione dell'originale, oppure anche l'indicazione della relata da cui risulta che la notifica è stata effettuata ad istanza del medesimo difensore. In proposito, la giurisprudenza (Cass. I, n.11883/1991; Cass. I, n. 3502/1983) ha ritenuto che la dichiarazione dell'ufficiale giudiziario, certificante l'avvenuta notifica di “copia del su esteso atto”, consente di ritenere attestata, sia pure implicitamente, la conformità all'originale, sia per quanto riguarda la copia stessa che per quanto riguarda il mandato in essa riprodotto. Orbene, allo stesso modo si è ritenuto che l'apposizione della locuzione “richiesto come in atti” contenuta nella relata di notifica della copia dell'atto ricevuta dal convenuto, può essere correttamente intesa come idonea ad attestare la provenienza dell'atto medesimo da parte di un procuratore legittimato a richiederne la notifica. Del resto, tale espressione, in quanto apposta su una copia dell'atto, la cui conformità all'originale del ricorso depositato nel quale la sottoscrizione del procuratore non manca, se attestata da un pubblico ufficiale, qual è il cancelliere, è sufficiente a fornire al destinatario tutti gli elementi per dargli contezza della provenienza e del contenuto dell'atto (Cass., sez. lav., n. 9836/1998). La domanda di accertamento della simulazione di un contratto di locazione introduce una controversia che certamente ha natura personale, ma che deve ritenersi come vertente in materia di locazione, nel senso voluto dall'art. 21 c.p.c., proprio perché essa attiene all’effettiva prosecuzione dell'originario contratto di locazione. Conseguentemente, la competenza non può che essere quella prevista dall'art. 21 c.p.c. che qui viene in considerazione non per il riferimento che esso fà alle controversie relative a diritti reali su beni immobili ma alle controversie in materia di locazione e comodato di immobili (Cass. VI, 15 luglio 2022, n. 22393). 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