Codice di Procedura Civile art. 416 - Costituzione del convenuto 1 2 3

Vito Amendolagine

Costituzione del convenuto 123

[I]. Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza [, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito]4.

[II].La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito [in cancelleria] di una memoria difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale [36] e le eccezioni processuali [37, 38, 100, 157 ss.] e di merito [35; 2946 ss. c.c.] che non siano rilevabili d'ufficio5.

[III]. Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.

 

[1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1,  l. 11 agosto 1973, n. 533.

[2]  In tema di rito speciale per la controversie in materia di licenziamenti, v. art. 1 commi 47-68, in particolare il comma 53, l. 28 giugno 2012, n. 92.

[3]  La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del presente articolo, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

[4] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. c), n. 1 d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164,  che ha soppresso le parole tra parentesi quadre. Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

[5] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. c) , n. 2 d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164,  che ha soppresso le parole tra parentesi quadre. Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

Inquadramento

L'art. 416 c.p.c. disciplina la costituzione della parte resistente, che si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva scritta, nella quale, il medesimo resistente oltre a proporre, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio, deve altresì prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dal ricorrente a fondamento della domanda, proponendo tutte le sue difese in fatto ed in diritto ed indicando specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.

Nel processo locatizio, soggetto al rito del lavoro, sono individuabili specifiche preclusioni istruttorie che maturano sin dalla costituzione in giudizio delle parti, e, quindi, a carico del resistente evocato in giudizio.

A carico del resistente non può tuttavia porsi un onere processuale al di fuori dell'art. 416, comma 3, c.p.c. che gli fa obbligo di prendere posizione circa i fatti affermati dal ricorrente a fondamento della domanda, tenendo presente che per “fatti” devono intendersi i dati fattuali, interessanti la domanda del ricorrente, che siano stati tutti esplicitati in modo esaustivo nel ricorso introduttivo del giudizio.

Infatti, i dati fattuali, interessanti sotto diverso profilo la domanda giudiziale introdotta dalla parte ricorrente, devono tutti essere esplicitati in modo esaustivo, o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio, o in quanto volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria, non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova attestata dal combinato disposto dell'art. 414, nn. 4) e 5 c.p.c., e dall'art. 416, comma 3, c.p.c., da cui deriva l'impossibilità di contestare o richiedere la dimostrazione – oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito – su fatti non allegati in ricorso, nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti od elementi condizionanti il diritto azionato, non siano però stati esplicitati in modo espresso e specifico nello stesso ricorso introduttivo del giudizio.

Del resto, nel sistema italiano, la ratio legis sottostante al principio della “non contestazione” viene ad accreditarsi per la tendenziale irreversibilità degli effetti promananti dall'applicazione di quest'ultimo, dovendosi fare salvi unicamente i casi di contestazione rimessi ad atti successivi a quelli introduttivi del giudizio, in piena coerenza con la struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all'udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto ed ad esigenze istruttorie, secondo un modello non estraneo neanche al rito processuale ordinario, improntato, dopo la riforma della l. n. 353/1990, a finalità di chiarezza e semplificazione rese palesi dal concatenamento fra la fase diretta alla chiarificazione della posizione delle parti e la fase della formulazione delle richieste istruttorie.

Ciò spiega perché nel processo del lavoro, le parti concorrono a delineare la materia controversa, in modo che la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto rende inutile provare il fatto stesso, in quanto lo rende incontroverso, mentre la mancata contestazione dei fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria opera unicamente sulla formazione del convincimento del giudice.

Conseguentemente, si è affermato il principio che la rilevabilità d'ufficio della nullità non può incidere, nel rito del lavoro, sulle preclusioni e decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., laddove, attraverso l'exceptio nullitatis, si introducano tardivamente in giudizio questioni di fatto ed accertamenti nuovi o diversi, in contrasto col costituzionalizzato principio della ragionevole durata del processo (Cass., sez. lav., n. 7751/2012).

Pertanto, nel rito del lavoro, applicabile, ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c. anche alle controversie locatizie, l'omessa indicazione nella memoria difensiva del resistente, dei documenti, nonché il loro mancato deposito unitamente al suddetto atto, anche se in questo espressamente indicati, determinano la decadenza dal diritto alla produzione dei documenti stessi, con impossibilità della sua reviviscenza in un successivo grado di giudizio.

La memoria difensiva

Gli artt. 167, comma 1, e 416, comma 3, c.p.c., imponendo al convenuto-resistente l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto, posti dall'attore-ricorrente a fondamento della domanda, fanno della “non contestazione” un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti.

In altri termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto.

Si tratta di affermazioni rese ben prima della formale introduzione, ad opera dell'art. 45, comma 14, della l. 18 giugno 2009, n. 69, del principio di non contestazione oggi consacrato nell'art. 115 c.p.c., a norma del quale il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Tale principio era comunque già insito nel nostro ordinamento proprio con riferimento al rito del lavoro per effetto di una nota pronuncia delle Sezioni unite (Cass. S.U., n. 761/2002).

A norma dell'art. 416 c.p.c. nel rito del lavoro, non diversamente dall'art. 167 c.p.c. nel rito ordinario, il resistente nella memoria di costituzione scritta, deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dal ricorrente a fondamento della propria domanda avanzata con il ricorso ex art. 414 c.p.c., proponendo tutte le sue difese in fatto ed in diritto in quanto, nel caso in cui il medesimo resistente nulla abbia eccepito in relazione a tali fatti, gli stessi devono considerarsi come pacifici, sicchè lo stesso ricorrente è esonerato da qualsiasi prova al riguardo (Cass., sez. lav., n. 2832/2016; Cass.III, n. 19896/2015; Cass. III, n. 18202/2008).

A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 noto come Correttivo alla riforma Cartabia, recante disposizioni integrative e correttive al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a sua volta recante l'attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, recante la delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata, i comma 1 e 2, dell'art. 416 c.p.c. attualmente prevedono che il convenuto debba costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza. La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito di una memoria difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio.

È opportuno precisare che sia nel rito del lavoro, sia in quello civile, la costituzione del convenuto richiede il deposito in cancelleria di uno scritto difensivo, perché in mancanza di tale adempimento, la comparizione del difensore all'udienza, munito soltanto della procura, non è idonea ad impedire la contumacia della parte evocata in giudizio (Cass., sez. lav., n. 3586/2006; Cass. III, n. 2213/1989).

La dottrina intende per contumacia l'assenza legale dal giudizio di una parte, determinata dalla sua omessa, o irrituale, costituzione e correlativamente per contumace si intende la parte che non pone in essere quella formalità necessarie e sufficienti per determinare la propria presenza legale nel processo che è la costituzione. In tale ottica, non è possibile una costituzione effettuata mediante dichiarazioni orali rese in udienza (Luiso 1992, 146).

Inoltre, poiché la costituzione del convenuto si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva, il suo originale, al pari degli scritti difensivi successivi, facendo parte del fascicolo d'ufficio e non di quello di parte, deve essere esaminato dal giudice anche nella eventualità in cui, per sua libera scelta, la parte convenuta dopo avere ritirato il proprio fascicolo, abbia ritenuto di non depositarlo nuovamente, essendo custodita in detto fascicolo la copia degli scritti difensivi (Cass. III, n. 9697/2008).

Nel rito del lavoro, il suddetto onere di contestazione tempestiva deriva da tutto il sistema processuale ed in primis, dal sistema di preclusioni, che comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo all'art. 111 Cost.

Ciò è peraltro coerente con lo scandirsi delle reciproche contestazioni che il convenuto, rispetto ai fatti dedotti dal ricorrente, deve sollevare subito con la comparsa di risposta ex art. 416, comma 3, c.p.c., così come il ricorrente, rispetto ai fatti dedotti dal convenuto, deve muovere le contestazioni a pena di decadenza nell'ambito delle attività regolate dall'art. 420 c.p.c.

Le suddette disposizioni sono infatti strettamente collegate al principio di concentrazione, al quale è ispirato il processo del lavoro – e, di conseguenza, quello locatizio – e l'obbligo della preventiva indicazione dei mezzi di prova a carico di entrambe le parti risponde all'esigenza pubblicistica di consentire al giudice fin dalla udienza di discussione, tendenzialmente prevista come unica della legge, di decidere sulla loro ammissibilità e rilevanza.

Tuttavia, a differenza dell'eccezione di incompetenza per territorio, che deve essere proposta necessariamente nel primo atto difensivo, pena il radicalmente della competenza del giudice adito, e, quindi, deve essere dedotta – esclusivamente con la memoria di costituzione in giudizio e non anche con altri scritti difensivi posteriori ad essa, ancorché depositati tempestivamente prima dell'udienza di discussione (Cass., sez. lav., n. 4014/1982), tutte le altre eccezioni nonché le deduzioni delle prove possono essere proposte anche con memorie integrative, purché depositate entro il termine previsto per la costituzione del convenuto di cui all'art. 416 c.p.c., in quanto tale deduzione in atto separato non viene in alcun modo a ledere i principi del contraddittorio e della concentrazione del processo.

La disposizione dell'art. 416 c.p.c. indica, dunque, il termine ultimo entro il quale possono essere utilmente dedotte tutte le difese del convenuto, ma una volta che tale termine venga rispettato, non ha alcun rilievo il fatto che tali difese siano contenute, come normalmente avviene, in un unico atto ovvero in più atti, se comunque sono depositati nel rispetto dell'anzidetto termine (Cass., sez. lav., n.5629/1997).

Infatti, quanto precede costituisce espressione del generale principio che nel rito del lavoro le decadenze e le preclusioni operano inderogabilmente e possono essere rilevate d'ufficio, mentre i poteri d'ufficio del giudice nell'ambito della proposizione delle prove non possono essere esercitati quando si siano verificate decadenze o preclusioni in danno delle parti onerate, ritualmente eccepite dalle controparti (Cass., sez. lav., n. 14404/2003).

L'applicazione del suddetto principio in materia di decadenza del convenuto ex art. 416, comma 2, c.p.c. dal diritto di proporre eccezioni processuali e di merito non rilevabili l'ufficio presuppone l'osservanza da parte dell'attore delle prescrizioni dell'art. 414 c.p.c., tra cui, in particolare, quelle contenute nell'art. 414, n. 4) c.p.c. ragione per cui, qualora a causa di un'incompleta od inesatta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda attorea, il convenuto non abbia avuto modo od interesse a sollevare una eccezione in senso proprio, questa può essere sollevata anche oltre il limite precisato dal citato art. 416 c.p.c. e, quindi, con la prima difesa successiva alla deduzione od all'acquisizione in giudizio del fatto od elemento omesso la cui cognizione è essenziale ai fini della proposizione dell'eccezione stessa.

Nel rito del lavoro, il convenuto ha l'onere della specifica contestazione della sussistenza del credito in ogni sua parte anche con riferimento alla sua esatta quantificazione ai sensi degli artt. 167 comma 1 e 416 comma 3 c.p.c., poiché la negazione del titolo non implica necessariamente l'affermazione dell'erroneità della quantificazione, mentre la contestazione dell'esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, sia pure subordinata, in relazione alle caratteristiche generali del rito del lavoro, fondato su un sistema di preclusioni diretto a consentire all'attore di conseguire rapidamente la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato (Trib . Roma 21 maggio 2021).

Trattasi di un principio che può definirsi ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v., ex multis, Cass., sez. lav., n. 4877/1986).

Rito locatizio e principio di “non contestazione”

L'art. 416 c.p.c., per il rito del lavoro e l'art. 167, comma 1, c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione nell'atto di costituzione sui fatti posti a fondamento della domanda ex art. 414 c.p.c., configurano la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato, e dovrà ritenerlo sussistente proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti.

Il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti pacifici e a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l'esigenza dell'istruzione probatoria, operando in un ambito soggettivamente ed oggettivamente dominato dalla disponibilità delle parti, al quale resta estranea la legitimatio ad causam, che attiene al contraddittorio e deve essere verificata anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, con il solo limite del giudicato interno (Cass. lav., n. 23721/2021).

Pertanto, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal legislatore, rappresenta l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto, e quindi rende inutile provarlo perchè non controverso (Cass. S.U., n. 12065/2014).

Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza hanno poi precisato che la “non contestazione” è esclusa solo in caso di contestazione “chiara e specifica”.

La contestazione, infatti, serve a mettere il ricorrente prima, ed il giudice poi, in condizione di sapere quali siano i fatti controversi – che quindi dovranno essere provati – e, quali invece quelli incontroversi, come tali esclusi dal thema probandum (Cass., sez. lav., n.7784/2017).

Infatti il principio che esclude dal tema di indagine il fatto costitutivo della domanda per effetto della sua mancata contestazione, giusta l'art. 416, comma 3, c.p.c., incontra l'unica deroga nella possibilità che il giudice ne accerti, d'ufficio, l'esistenza o l'inesistenza in base alle risultanze ritualmente acquisite (Cass. VI, n. 26395/2016).

La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che al mutare delle circostanze che hanno comportato la mancata contestazione dei fatti costitutivi del diritto deve però essere consentita la possibilità di negare i fatti precedentemente non contestati, purché la modifica dell'atteggiamento difensivo avvenga con modalità coerenti con la dinamica processuale propria del rito del lavoro, per cui, come i fatti sopravvenuti devono essere allegate nella prima occasione processuale utile, anche la conseguente contestazione dovrà essere tempestivamente operata nella prima difesa (Cass., sez. lav., n. 21675/2018).

L'onere contemplato dall'art. 416 c.p.c., che impone al resistente l'onere di prendere subito immediata e precisa posizione, a pena di decadenza, in ordine ai fatti asseriti dal ricorrente, con la conseguenza che la mancata contestazione dei fatti costitutivi della domanda vincola il giudice a ritenerli sussistenti, riguarda i fatti primari, cioè costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio dal medesimo ricorrente o dal resistente che agisca in riconvenzionale, mentre i fatti secondari – vale a dire quelli dedotti in mera funzione probatoria – possono contestarsi in ogni momento (Cass. VI, n. 26395/2016).

Infatti nel rito del lavoro, il compito di contribuire alla fissazione del thema decidendum opera identicamente rispetto all'una e all'altra delle parti in causa, sicché l'onere di contestazione in ordine ai fatti costitutivi del diritto si coordina con l'allegazione dei medesimi e vale a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione e quelli per i quali sussiste una relevatio dell'avversario dall'onere probatorio (Cass. III, n.21075/2016).

L'oggetto della lite è quindi individuato non solo dal fatto costitutivo della domanda del ricorrente ma anche dalle eccezioni del resistente sul fatto costitutivo, anch'esse oggetto di accertamento principale nel giudizio e non di mero accertamento incidenter tantum, ragione per cui, l'efficacia del giudicato investe non solo la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall'effetto giuridico ma anche ogni altro effetto giuridico derivante nell'ambito dello stesso rapporto obbligatorio dal fatto accertato (Cass., sez. lav., n. 28415/2017).

Ovviamente, l'onere di specifica contestazione, nelle controversie di lavoro, dei fatti allegati dall'attore, previsto dall'art. 416, comma 3, c.p.c., al cui mancato adempimento consegue l'effetto dell'inopponibilità della contestazione nelle successive fasi del processo e, sul piano probatorio, quello dell'acquisizione del fatto non contestato ove il giudice non sia in grado di escluderne l'esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, si riferisce ai fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, ovvero ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende, perciò, alle circostanze che implicano un'attività di giudizio (Cass. VI, n. 16970/2018; Cass., sez. lav., n.20768/2017).

Ciò essendo consolidato il principio di diritto secondo cui l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli che siano estranei alla sua sfera di conoscibilità (Cass. lav., n. 2174/2021).

Inoltre, è altrettanto chiaro che la contestazione da parte del resistente dei fatti già affermati o già negati nell'atto introduttivo del giudizio non ribalta sul ricorrente l'onere di contestare l'altrui contestazione, dal momento che egli ha già esposto la propria posizione al riguardo (Cass., sez. lav., n. 6183/2018).

Le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotto dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione od alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Cass. VI, n. 10640/2021).

In tale ottica, deve a esempio escludersi la validità del preavviso orale dell'intenzione, della parte conduttrice, di recedere dal contratto di locazione, in quanto la risoluzione consensuale di un contratto può avvenire anche con una manifestazione tacita di volontà, salvo che per il contratto da risolvere non sia richiesta la forma scritta ad substantiam, visto che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della I. n. 431/1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti ed anche d'ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale sottostante alla sopra richiamata disposizione normativa. Pertanto, il contratto di locazione ad uso abitativo soggetto all’obbligo di forma scritta deve essere risolto con una comunicazione scritta, non potendo in questo caso trovare applicazione il principio di libertà delle forme. E ciò a maggiore ragione se le parti avevano contrattualmente ribadito, con apposita clausola, che il recesso del conduttore fosse comunicato per iscritto, atteso che ai sensi dell’art.1352 c.c. le forme convenzionalmente stabilite anche per le singole clausole contrattuali si intendono volute per la validità delle stesse. Infatti costituendo il recesso un atto negoziale unilaterale dal contenuto negativo, nel senso che pone fine agli effetti sostanziali della permanenza del contratto rispetto al quale si esplica, sussiste, anche in tale fattispecie, la presunzione che l'art. 1352 c.c. trae dall'adozione negoziale della forma scritta (Cass. III, 13 giugno 2022, n. 18971).

La contumacia

Il convenuto che all'apertura dell'udienza di discussione non risulti essersi ancora costituito è dichiarato contumace.

In tale senso si esprime la dottrina, che ritiene preliminare l'accertamento della validità del ricorso sotto il profilo della vocatio in jus e della regolarità della notifica unitamente al decreto di fissazione dell'udienza al convenuto (Tarzia, Dittrich, 124; Luiso 1992, 147).

L'art. 416 c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore, postula che in quanto incompatibile con la negazione del fatto, la non contestazione debba assumere un'evidenza inequivocabile, necessaria a legittimarne il fondamento e giustificarne le conseguenze sul piano giuridico, la quale, pertanto, non sussiste nell'ipotesi in cui la stessa parte evocata nel giudizio risulti essere contumace, in quanto, alcuna volontà può emergere da un comportamento assente, considerato sul duplice piano del diritto sostanziale e processuale come di colorazione “neutra”.

Infatti a dimostrazione che la contumacia integra un comportamento neutrale cui non può essere attribuita valenza confessoria e, comunque non contestativa, dei fatti allegati dalla controparte, che resta onerata della prova relativa, sovviene la nuova formulazione dell'art. 115 c.p.c. che consente al giudicante di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita, precisazione quest'ultima, che diversamente argomentando non avrebbe alcun senso.

In buona sostanza, posto che anche nella disciplina del processo del lavoro si applicano le normali regole del procedimento contumaciale, la mancata costituzione di una parte – in primo grado od in appello – non equivale ad ammissione della esistenza dei fatti dedotti dall'attore a fondamento della propria domanda e non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se da parte dell'attore sia stata data dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa.

La spiegazione è semplice, laddove si consideri che la previsione dell'obbligo del convenuto di formulare nella memoria difensiva di primo grado, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonchè di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, da un lato, non esclude il potere – dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano state o meno proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato, e dall'altro, non impedisce alla stessa parte di sollevare – ciò che correlativamente impone al giudice di esaminare – in qualunque momento del processo tutte le difese in senso lato, e le questioni rilevabili d'ufficio che possano incidere sul rapporto controverso.

La posizione assunta dalla giurisprudenza è nettamente favorevole nel senso che la contumacia della parte evocata in giudizio non può assumere alcun significato probatorio in favore della domanda dell'attore (Cass., sez. lav., n. 24885/2014; Cass. III, n. 14623/2009; Cass. III, n. 15777/2006).

Analoga la posizione assunta dalla dottrina sullo stesso thema specifico qui considerato (Picardi, 2179).

Le eccezioni in “senso proprio” e le eccezioni “improprie”

Le eccezioni in “senso proprio” si concretano in quei fatti i quali determinano la inefficacia, la modificazione o la estinzione di un diritto fatto valere dalla controparte ed a queste sole eccezioni si riferisce la preclusione di cui all'art. 416 c.p.c., mentre le eccezioni “improprie” si concretano in qualsiasi attività difensiva, volta a contrastare le condizioni di fondatezza della domanda, condizioni che il giudice è tenuto ad accertare anche di ufficio, e fra le quali rientrano le deduzioni dirette alla interpretazione delle norme di legge applicabili al caso concreto, che, in quanto tali, esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 416 c.p.c.

Infatti, anche nel rito del lavoro, non è precluso al resistente o parte convenuto di dedurre in qualunque momento delle mere difese volte a contestare i fatti costitutivi della pretesa di parte ricorrente o attorea, in quanto la decadenza di cui all'art. 416 c.p.c. è limitata ai soli mezzi di prova di cui il primo intenda avvalersi nonché alle domande riconvenzionali ed alle eccezioni in senso stretto.

Al riguardo, può in particolare, distinguersi il potere di allegazione da quello di rilevazione.

Il primo compete esclusivamente alla parte ed è di norma esercitabile, nel rito del lavoro, e, quindi, anche in quello locatizio, entro il limite temporale massimo del tempestivo deposito della memoria difensiva ex art. 416 c.p.c., posto che, ipotizzare l'allegabilità di fatti nuovi anche oltre tale termine, per la sola ragione che la rilevanza dei loro effetti non si iscrive nel novero delle eccezioni riservate alla parte, significherebbe compromettere il sistema delle preclusioni sul quale si fonda l'adozione del rito speciale, nonché la sua funzione di affidare alla fase degli atti introduttivi del giudizio la cristallizzazione dei temi controversi e delle relative istanze istruttorie.

Il secondo dei suddetti poteri, una volta che i fatti siano stati tempestivamente allegati ed anche l'acquisizione processuale sia corretta, indipendentemente dall'iniziativa dell'acquisizione, è, invece, quello legittimamente esercitabile anche oltre il suddetto limite temporale, ove però i fatti stessi siano anche rilevabili ex officio e, quindi, tali da fare sorgere il potere-dovere del giudice di tenerne conto ai fini della decisione sulla domanda.

A ben vedere, questo spiega perché con riguardo all'esame dei fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi, viga il principio assoluto dell'allegazione, la quale, per alcuni di essi, peraltro, è condizione necessaria, ma non sufficiente, per dare loro rilevanza ai fini della decisione, richiedendosi altresì l'espressa istanza della parte interessata intesa ad ottenere che i loro effetti, se riscontrati sul piano sostanziale, siano utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda.

Il solo potere legittimamente esercitabile dalla parte oltre il limite temporale segnato, di norma, dal tempestivo deposito della memoria difensiva ex art.416 c.p.c., è dunque soltanto quello di rilevazione degli stessi fatti che siano anche rilevabili “ex officio”.

La preclusione posta dall'art. 416 c.p.c. riguarda quindi soltanto le eccezioni in senso proprio, e non si estende alle deduzioni – come tali, integranti una “mera difesa” – concernenti il difetto di un requisito di fondatezza della domanda, la cui sussistenza deve invece essere verificata d'ufficio dal giudice (Cass., sez. lav., n. 10121/1998; Cass. S.U., n. 1099/1998; Cass. III, n. 6466/1996; Cass., sez. lav., n. 5335/1987).

L'onere del resistente di chiedere lo spostamento della prima udienza nel caso di proposizione di domanda riconvenzionale

Ciò premesso, nel cd. rito locatizio, modellato su quello lavoristico, si è quindi affermato il principio che mentre il potere di dedurre le eccezioni c.d. in senso stretto si preclude con lo scadere del termine per il deposito della memoria ai sensi dell'art. 416 c.p.c., l'esercizio del potere di proposizione della domanda riconvenzionale è regolato dall'art. 418, comma 1, c.p.c., con l'imposizione al resistente di un onere ulteriore rispetto a quello dell'allegazione della domanda nella detta memoria, che è rappresentato dalla formulazione, a pena di inammissibilità, della richiesta al giudice di spostare l'udienza ai sensi dell'art. 420 c.p.c., al fine di garantire la preservazione del contraddittorio su di essa del ricorrente.

La giurisprudenza ha quindi chiarito che poiché quando un fatto che, nel contempo, è suscettibile di assumere carattere di fatto estintivo, impeditivo o modificativo, e, dunque, di eccezione rispetto alla fattispecie di costitutiva di un diritto e, quindi, della relativa domanda, e di essere fatto valere anche come fondamento della domanda relativa ad altro diritto, l'esistenza del potere di farlo valer come eccezione è – secondo l'opinione della dottrina, condivisa dalla giurisprudenza di legittimità – regolato come eccezione c.d. in senso stretto, risulta palese che, se quel fatto è stato introdotto nella memoria ai sensi dell'art. 416 c.p.c.non solo come eccezione ma anche come fondamento di una domanda riconvenzionale, ed il resistente non abbia richiesto lo spostamento dell'udienza, l'inosservanza di questo requisito formale concerne solo la proposizione della riconvenzionale, mentre sotto il profilo dell'osservanza delle forme la regola che le eccezioni in senso stretto debbono proporsi con la memoria ai sensi dell'art. 416 c.p.c. risulta pienamente osservata (Cass. III, n.11679/2014).

Nel rito del lavoro, l'inosservanza da parte del convenuto, che abbia ritualmente proposto, ai sensi dell'art. 416 c.p.c., domanda riconvenzionale, del disposto di cui dell'art. 418, comma 1, c.p.c. – il quale impone, a pena di decadenza dalla domanda riconvenzionale medesima, di chiedere al giudice, con apposita istanza contenuta nella memoria di costituzione in giudizio, di emettere ulteriore decreto per la fissazione della nuova udienza – non determina la decadenza stabilita ex lege qualora l'attore-ricorrente compaia all'udienza originariamente stabilitaex art. 415 c.p.c., ovvero alla nuova udienza di cui all'art. 418 c.p.c., eventualmente fissata d'ufficio dal giudice, senza eccepire l'irritualità degli atti successivi alla riconvenzione ed accettando il contraddittorio anche nel merito delle pretese avanzate con la stessa domanda riconvenzionale.

Infatti, secondo la giurisprudenza, osta ad una declaratoria di decadenza sia la rilevanza da riconoscere, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c., alla realizzazione della funzione dell'atto, sia il difetto di eccezione della sola parte che, in forza dell'art. 157, comma 2, c.p.c., sarebbe legittimata a far valere il vizio, essendo appunto quella nel cui interesse è stabilita la decadenza stessa, dovendosi inoltre escludere che l'istanza di fissazione dell'udienza rappresenti un elemento costitutivo della domanda riconvenzionale – tanto che in suo difetto non possa neppure reputarsi proposta la domanda stessa – giacchè l'istanza di fissazione concerne la vocatio in jus ed è, perciò, “esterna” rispetto alla proposizione della riconvenzionale, la quale, nel rito locatizio modellato sul rito lavoristico, ai sensi dell'art. 416, comma 2, c.p.c., si realizza con l'editio actionis (Cass. III, n. 2334/2019).

Nel rito locatizio, la domanda riconvenzionale formulata con la memoria ex art. 416 c.p.c. senza richiesta, ex art. 418 c.p.c., di spostamento dell'udienza è inammissibile, ma non preclude la valutazione, da parte del giudice, del fatto integratore della stessa che assuma valore di eccezione, quale fatto impeditivo, estintivo o modificativo del fatto costitutivo della pretesa dell'attore, ai fini della decisione sulla domanda principale, risultando rispettata la relativa preclusione fissata dall'art. 416 c.p.c.

Espressione della stessa logica è il principio di diritto, secondo cui nell'ipotesi in cui il convenuto chieda, in via riconvenzionale, accertarsi l'esistenza di un rapporto contrattuale diverso da quello prospettato dall'attore, sull'assunto che da ciò ne deriverebbe la nullità o l'inefficacia, totale o parziale, o comunque un effetto estintivo, impeditivo o modificativo dei diritti fatti valere dall'attore medesimo, domandando anche l'eventuale condanna di quest'ultimo al pagamento di quanto dovuto in base a tale differente prospettazione, qualora una siffatta domanda riconvenzionale risulti inammissibile per motivi processuali, la stessa può e deve comunque essere presa in considerazione come eccezione, con il solo e più limitato possibile esito del rigetto delle richieste di parte attrice (Cass. sez. III, n. 20309/2024).

La produzione irrituale di documenti

Gli artt. 74 ed 87 disp. att. c.p.c. relativi alla produzione dei documenti sono finalizzati a garantire il diritto di difesa della parte contro la quale tali documenti sono prodotti, ragione per cui la irrituale produzione di documenti preclude alla parte la possibilità di utilizzarla come fonte di prova, ed al giudice di esaminarla, ma laddove non sussista alcuna tempestiva opposizione alla loro produzione irrituale, da effettuarsi nella prima istanza o difesa successive all'atto od alla notizia di esso, non è dato apprezzare alcuna violazione del principio del contraddittorio.

A ciò aggiungasi che la decadenza del diritto alla produzione dei documenti non opera quando la produzione sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione.

Ciò posto, nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti probatori nell'atto di costituzione in giudizio, imposta dall'art. 416, comma 3, c.p.c., e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che i documenti si siano formati successivamente ovvero la loro produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo ex art. 420, comma 5, c.p.c., conseguendo che, ove tali documenti siano stati prodotti in udienza, il giudice potrà dichiarare la decadenza della parte ovvero, in alternativa, disporne l'ammissione d'ufficio ai sensi dell'art. 421, comma 2, c.p.c., dovendosi ritenere, in tale ultima ipotesi, che il silenzio della controparte – a cui spetta la facoltà, entro il termine perentorio assegnato dal giudice, di dedurre proprie istanze istruttorie – comporti l'accettazione del provvedimento giudiziale di ammissione.

In tali termini, depone l'orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass., sez. lav., n. 19810/2013; Cass., sez. lav., n. 16781/2011; Cass., sez. lav., n. 16337/2009).

In giurisprudenza, si è quindi affermato il principio che la ritualità e tempestività degli atti processuali per la costituzione in giudizio, in mancanza di prova contraria ad opera della parte interessata o, comunque, di opposte risultanze processuali, possa desumersi presuntivamente da qualsiasi elemento obiettivamente valutabile che emerga dagli stessi atti di causa, in quanto la legge non impone alle parti alcun onere di munirsi di particolari certificazioni positive al riguardo, nè esige che i requisiti stessi risultino da atti formali ed insostituibili.

Ne consegue che, pur in difetto di una certificazione ad hoc, da parte del cancelliere, circa la data di deposito della memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c., la costituzione del convenuto può essere dal giudice considerata regolarmente avvenuta, qualora dagli atti di causa risulti la presenza di entrambe le parti all'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., ovvero un contegno difensivo del ricorrente che necessariamente presupponga la conoscenza del contenuto di detta memoria, come la mancanza, durante l'intero corso del giudizio di primo grado di qualsiasi contestazione relativa alla regolarità della costituzione, od ancora, l'inesistenza di rilievi del cancelliere ai sensi dell'art. 74, ultimo comma, disp. att. c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 5230/2001)

Domanda riconvenzionale ed eccezione riconvenzionale

In ogni caso, nelle cause locatizie rette dal rito lavoristico, l'inammissibilità della domanda riconvenzionale per omessa formulazione dell'istanza di spostamento di udienza non esclude che il fatto posto a fondamento della stessa possa essere apprezzato come eccezione, ai soli fini di paralizzare l'accoglimento della domanda di parte ricorrente, qualora rispetto ad essa assuma il carattere di fatto estintivo, impeditivo o modificativo del diritto fatto valere dalla stessa parte istante (Cass. III, n. 15359/2017).

Occorre distinguere nell'ambito della memoria di costituzione e risposta, l'attività difensiva diretta alla mera negazione della pretesa – intesa come mera contestazione dell'esistenza in concreto degli stessi fatti integranti gli elementi costitutivi della pretesa, dalla attività difensiva volta alla allegazione di fatti diversi ritenuti rilevanti – se provati – a determinare l'inefficacia dei fatti addotti dal ricorrente integranti gli elementi costitutivi della pretesa in conformità al parametro legale di riferimento, ed operando quindi sul piano dell'impedimento, della modificazione o della estinzione degli effetti giuridici della fattispecie normativa invocata dallo stesso ricorrente, anche attraverso un ampliamento delle situazioni giuridiche oggetto dell'accertamento richiesto dal medesimo ricorrente, ovvero la insussistenza dei fatti costituivi della pretesa, operando quindi sul piano probatorio della elisione della efficacia dimostrativa dei fatti addotti dal ricorrente.

A tale attività di allegazione, è strettamente connessa quella della argomentazione giuridica diretta alla individuazione degli effetti che si intendono attribuire ai fatti allegati ed alla illustrazione delle ragioni in diritto a sostegno della propria tesi difensiva. In buona in sostanza il factum demonstrandum che viene allegato deve essere qualificato quanto alla sua rilevanza giuridica rispetto alla pretesa che va a contestare, dovendo quindi trovare collocazione sul piano processuale nella mera difesa od eccezione semplice o nella proposizione di eccezioni di rito in senso improprio o pregiudiziali o di eccezioni sostanziali o di merito o in senso proprio, che possono eventualmente assumere carattere preliminare, articolandosi in quest'ultimo caso in eccezioni cd. in senso stretto proponibili soltanto ad iniziativa della parte interessata, ed in eccezioni c.d. in senso lato, rilevabili anche ex officio.

Accanto poi alla predetta attività di allegazione ed argomentazione giuridica, si pone l'attività di deduzione probatoria, che attiene alla indicazione delle fonti e dei mezzi di prova da assumere nel processo, che, per quanto concerne le prove precostituite si articola nelle fasi della indicazione e della produzione del documento mediante deposito.

Tale attività è logicamente subordinata alla precedente, in quanto direttamente funzionale a fornire il mezzo di rappresentare nel processo dei fatti storici rilevanti allegati a contrasto di quelli dedotti dal ricorrente.

Pertanto, la produzione documentale non supplisce l'attività di allegazione che logicamente deve precedere, ma la integra, in quanto l'allegazione dei fatti giuridicamente rilevanti è ex se insufficiente a convincere il giudice della prevalenza delle ragioni in fatto e diritto esposte dal resistente in difetto di una verifica probatoria che consenta di considerare quei fatti come processualmente – veri.

Al riguardo, la parte che produca in giudizio dei documenti a sostegno d'una eccezione in senso stretto ha altresì l'onere di precisare a quale scopo sia avvenuta quella produzione documentale, la quale, in difetto di tale allegazione, non potrà essere invocata nei gradi successivi del giudizio (Cass. III, n. 9154/2013) e tale omissione difensiva non consente evidentemente al giudice di utilizzare comunque la prova documentale prodotta, in virtù dei poteri istruttori di ufficio che il rito speciale gli riconosce ai sensi dell'art. 447-bis, comma 3, c.p.c., ed ex art. 437, comma 1, c.p.c., così sostituendosi alla parte, atteso che il potere di ammissione d'ufficio dei mezzi di prova necessari non può che essere delimitato ai soli fatti che siano stati dedotti dalla parte quali allegazioni difensive (Cass. I, n. 13643/2013), in quanto, diversamente, la supplenza del difetto originario di allegazione verrebbe a determinare un indebito ampliamento del thema decidendum (v. Cass. III, n. 7115/2013; Cass. III, n. 8377/2009, secondo cui la produzione di un documento non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo se alla produzione non si accompagni la necessaria attività di allegazione diritta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato).

Ciò che distingue l'eccezione riconvenzionale, la cui prima formulazione è ammissibile anche in appello, dalla domanda riconvenzionale, esperibile soltanto in primo grado, è costituito dalle conseguenze giuridiche che il deducente intende trarre dal fatto nuovo allegato, e, cioè, dal provvedimento che egli chiede al giudice in base a tale fatto: si ha, cioè, eccezione riconvenzionale, allorché l'istanza resti contenuta nell'ambito dell'attività strettamente difensiva e, pure eventualmente ampliando la sfera dei poteri cognitori, lasci immutati i limiti di quelli decisori del giudice, quali determinati dalla domanda del ricorrente, mentre si ha, invece, domanda riconvenzionale quando il convenuto chieda un provvedimento positivo, autonomamente attributivo di una determinata utilità, cioè tale che vada oltre il mero rigetto della domanda avversaria, ampliando, così, la sfera dei poteri decisori come sopra determinati.

A tale ricostruzione, che è stata anche criticata, sul rilievo che essa non attribuisce alla qualificazione di cd. eccezione riconvenzionale alcuna conseguenza sul piano del regime giuridico applicabile, che resta integralmente quello dell'eccezione, consegue comunque quanto meno che l'eventuale inammissibilità della domanda riconvenzionale non impedisce al giudice di considerare i fatti od i rapporti giuridici dedotti a suo fondamento nella più limitata ottica dell'eccezione, al limitato effetto di impedire l'accoglimento della domanda avversaria.

La giurisprudenza ha quindi affermato il principio che la distinzione tra domanda riconvenzionale ed eccezione non dipende dal titolo posto a base della difesa del resistente, e cioè dal fatto o dal rapporto giuridico invocato a suo fondamento, ma dal relativo oggetto, e cioè dal risultato processuale che il medesimo resistente intende con essa ottenere, che è limitato al rigetto della domanda proposta del ricorrente, ragione per cui di conseguenza non sussistono limiti al possibile ampliamento del tema della controversia da parte del resistente a mezzo di eccezioni, purché vengano allegati a loro fondamento fatti o rapporti giuridici prospettati come idonei a determinare l'estinzione o la modificazione dei diritti fatti valere dal ricorrente, ed in base ai quali, si chieda la refezione delle domande da questo proposte e non una pronuncia di accoglimento di ulteriori e diverse domande (Cass. III, n. 21472/2016).

Pertanto, laddove il resistente invochi un rapporto contrattuale diverso da quello posto dal ricorrente a fondamento delle sue pretese, sull'assunto che da esso deriverebbe la nullità o la totale o parziale inefficacia di quest'ultimo, o comunque un effetto estintivo, impeditivo o modificativo dei diritti fatti valere dal medesimo ricorrente, e ne chieda in via riconvenzionale l'accertamento, anche con la eventuale conseguente condanna del ricorrente al pagamento di quanto dovuto in base a tale prospettazione, nell'ipotesi in cui tale domanda riconvenzionale risulti inammissibile per motivi processuali, ciò nonostante la medesima difesa può e deve essere presa in considerazione come eccezione, con il solo e più limitato possibile esito del rigetto delle domande di parte ricorrente.

La perdita del fascicolo di parte.

Nell'ipotesi di smarrimento del proprio fascicolo e dei documenti in esso allegati, fattispecie analoga a quella della perdita del fascicolo d'ufficio in cui è contenuto il fascicolo di parte, la parte resistente – al pari di quella ricorrente – ha l'onere di richiedere al giudice il termine per ricostruirlo, e, disposte infruttuosamente le opportune ricerche tramite la cancelleria, può depositare nuovamente i documenti, mentre il giudice può pronunciare sul merito della causa sulla base degli atti a sua disposizione soltanto in caso di inosservanza di detto termine.

Pertanto, il mancato rinvenimento, al momento della decisione della causa, di documenti che la parte invoca, se il fascicolo risulta depositato per tale momento, comporta per il giudice l'obbligo di disporre la ricerca di essi con i mezzi a sua disposizione e la possibilità per la stessa parte di ottenere di depositarli nuovamente ovvero di ricostruirne il contenuto, e di controllare, prima del passaggio in decisione della causa, che il proprio fascicolo ricostruito sia depositato e allegato a quello di ufficio nel termine stabilito dall'art. 169 c.p.c.

In tali termini, depone l'orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass., sez. lav., n. 3055/2013; Cass., sez. lav., n. 21937/2004).

Il termine di costituzione

Ai sensi dell'art. 416, comma, 1 c.p.c. il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito.

Al riguardo, è ormai ius receptum, nella consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità che ai fini della verifica della tempestività della costituzione della parte resistente, che nelle controversie soggette al rito del lavoro – e, quindi, anche per quelle locatizie – deve avvenire, ai sensi dell'art. 416, comma 1, c.p.c., almeno dieci giorni prima dell'udienza, è da considerare come dies a quo non computatur in termino il giorno dell'udienza che pertanto dev'essere escluso dal computo secondo il principio generale stabilito dall'art. 155, comma 1, c.p.c., e come dies ad quem il decimo giorno anteriore all'udienza stessa, che invece dev'essere computato, non essendo espressamente previsto dalla norma che si tratti di termine libero (Cass., sez. lav., n. 6263/2006; Cass., sez. lav., n. 26/1995; contra, soltanto Cass. III, n. 2739/1988).

La prevalente opinione formatasi nella dottrina (Montesano, Vaccarella 1996, 116; Tarzia, Dittrich, 122; Pozzaglia, 102; Luiso 1992, 146) è conforme alla posizione assunta dalla prevalente giurisprudenza sulla natura non libera del termine di costituzione e sulla relativa modalità di calcolo a ritroso.

Nel rito del lavoro, l'art. 416 c.p.c. deve essere interpretato nel senso che il convenuto, il quale non abbia proposto le eccezioni processuali e di merito, non rilevabili d'ufficio, con la memoria difensiva tempestivamente depositata almeno dieci giorni prima dell'udienza, incorre nella decadenza prevista dalla stessa norma, a nulla rilevando la circostanza che l'udienza di discussione non si sia tenuta nel giorno fissato e sia stata rinviata ad altra data (Cass., sez. lav., n. 22230/2006).

L'art. 155, comma 4, c.p.c. – diretto a prorogare al primo giorno seguente non festivo il termine che scada in giorno festivo – opera con esclusivo riguardo ai termini cosiddetti a decorrenza successiva, non già con riguardo ai termini che si computano “a ritroso” con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività processuale, come quello di cui all'art. 416 c.p.c., giacché, diversamente opinando, si produrrebbe l'effetto di contrarre l'intervallo di tempo stabilito dal legislatore a tutela delle esigenze di difesa della controparte destinataria dell'iniziativa processuale, e garantite con la previsione del medesimo.

In tali casi, secondo la giurisprudenza, la fissazione del termine è invece diretta ad assicurare alla parte che subisce l'iniziativa processuale un adeguato e inderogabile margine temporale per approntare le proprie difese, sicché lo spostamento in avanti della scadenza, producendo l'abbreviazione del termine, verrebbe a pregiudicare la esigenza di un'adeguata garanzia difensiva (Cass., sez. lav., n. 11163/2008; Cass. I, n. 19041/2003; Cass., sez. lav., n. 7331/2002; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Bari 18 aprile 2011, laddove afferma che l'art. 155, comma 4,, c.p.c., diretto a prorogare al primo giorno seguente non festivo il termine che scada in giorno festivo, opera con esclusivo riguardo ai termini c.d. a decorrenza successiva, e non anche per quelli che si computano a ritroso, quali sono, pacificamente, i termini per la tempestiva costituzione del convenuto ex artt. 166 e 416 c.p.c., con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività processuale, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione di quell'intervallo, in pregiudizio delle esigenze di difesa della controparte destinataria dell'iniziativa processuale e garantite con la previsione del medesimo).

Aggiungasi che una siffatta esigenza non sembra possa venire meno nel rito lavoristico, e, segnatamente, in relazione al termine fissato dagli artt. 416 e 436 c.p.c. per la costituzione del convenuto in primo grado e per la proposizione dell'appello incidentale, atteso che, al contrario, in tali casi il termine precede l'udienza di discussione, nella quale sono concentrate, per la peculiare caratteristica del rito del lavoro, tutte le attività processuali preordinate alla decisione della controversia, sì che l'esigenza di garantire alla controparte un sufficiente intervallo di tempo appare addirittura rinforzata, piuttosto che indebolita.

Nel caso della reconventio reconventionis, con specifico riguardo al rito locatizio modellato su quello lavoristico, il convenuto in riconvenzionale non ha diritto ad ottenere di un nuovo termine per la formulazione dei mezzi di prova, oltre la nuova udienza prevista dall'art. 418 c.p.c., in quanto, l'attore nei cui confronti sia proposta domanda riconvenzionale ha in sostanza gli stessi poteri, e correlativamente incorre, quanto al loro esercizio, nelle stesse preclusioni, che l'art. 416 c.p.c., prevede per il convenuto, con l'unica differenza, sul piano formale, che il termine di riferimento è, per il convenuto in riconvenzione, non già l'udienza fissata ex art. 415 c.p.c., bensì la nuova udienza, la cui fissazione deve essere richiesta contestualmente alla proposizione della riconvenzionale, in base al peculiare meccanismo apprestato dall'art. 418 c.p.c. (Cass. III, n. 22289/2009).

La chiamata in causa del terzo

Nel rito del lavoro, la tardività dell'istanza di chiamata in causa del terzo, non formulata nella memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. deve essere rilevata d'ufficio, in quanto, non può ritenersi conciliabile con il rito speciale la disciplina dettata dall'art. 269 c.p.c.. per il rito ordinario, stante il particolare sistema della vocatio in ius da attuare con ricorso, non essendo possibile la citazione diretta a comparire alla prima udienza prevista dall'art. 269, comma 1, c.p.c., dovendo la chiamata del terzo essere necessariamente autorizzata dal giudice alla prima udienza, con fissazione di una successiva udienza per consentire la costituzione del terzo chiamato ex art. 420, comma 9, c.p.c.

Non sembra neppure conciliabile con la specialità del rito la possibilità di avanzare l'istanza di chiamata alla prima udienza, stante la struttura del processo del lavoro, perché a quella stessa udienza si procede alla immediata trattazione della causa ed all'ammissione dei mezzi di prova, ragione per cui, l'istanza di chiamata avanzata a tale udienza produrrebbe l'effetto di alterare il normale meccanismo processuale, introducendo una questione pregiudiziale inaspettata dalla controparte e dal giudice, tale da incidere significativamente sul thema in relazione al quale si è già formato il contraddittorio, e le relative conclusioni determinate dagli scritti difensivi già depositati dalle parti.

Inoltre, in relazione alla posizione del convenuto, se nella memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. si deve prendere una posizione precisa e non generica in ordine ai fatti affermati dall'attore, e se in essa devono essere contenute tutte le difese, tra queste non può non essere compresa anche quella riguardante l'istanza di chiamata del terzo, atteso che solo in detta memoria il convenuto può esporre compiutamente le proprie ragioni a sostegno, prendere le conclusioni nei confronti del terzo, ed indicare prove e documenti a dimostrazione della fondatezza della relativa istanza.

Inoltre, solo se la istanza è contenuta nella memoria di costituzione depositata dieci giorni prima dell'udienza, la controparte ha la possibilità di rispondere tempestivamente ed il giudice può altrettanto celermente prendere una decisione, autorizzando alla prima udienza la chiamata del terzo, ovvero rigettandola, mentre, viceversa, una richiesta avanzata direttamente alla prima udienza costringerebbe necessariamente il giudice adito a fissare un'altra udienza per consentire la difesa del ricorrente e la successiva delibazione giudiziale, così vanificando l'obiettivo di concentrazione del processo perseguito dal legislatore nella trattazione delle controversie soggette al rito locatizio modellato su quello del lavoro.

Nel rito del lavoro, la tardività dell'istanza di chiamata in causa del terzo, non formulata nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c. deve essere rilevata d'ufficio, onde il giudice di appello, al quale sia stata proposta dal chiamato, rimasto contumace in primo grado, la relativa eccezione di irritualità della propria chiamata, non può ritenere preclusa tale eccezione soltanto perché non sollevata dalla parte o non rilevata dal giudice nel precedente grado di giudizio (Cass., sez. lav., n. 19480/2008).

La dottrina, sulla chiamata in causa e sulle modalità di proposizione della relativa istanza, ritiene che l'istanza deve essere richiesta dal convenuto nella memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. (Proto Pisani 1993, 97; Montesano, Vaccarella 1996, 176; Luiso 1992, 160), e dall'attore nel corso della prima udienza, soltanto quando l'esigenza della chiamata in causa sorga a seguito delle difese svolte dal convenuto (Proto Pisani 1993, 97; Montesano, Vaccarella 1996, 176), ovvero in ogni momento del giudizio di primo grado se disposta ex art. 107 dal giudice (Proto Pisani 1993, 97; Montesano, Vaccarella 1996, 176).

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