Codice di Procedura Civile art. 429 - Pronuncia della sentenza 1 2 .[I]. Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo [437 1] e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza 3. [II]. Se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza. [III]. Il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale [1284 1 c.c.], il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto [150 att.] 4.
[1] Articolo modificato dall'art. unico, comma 1, r.d. 20 aprile 1942, n. 504 e successivamente sostituito dall'art. 1. comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [3] Comma così sostituito dall'art. 53 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. Il testo precedente recitava: «Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo». A norma dell'art. 56 , dello stesso decreto legge, la modifica si applica ai giudizi instaurati dalla sua entrata in vigore. [4] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost. InquadramentoL'art. 429, comma 1, c.p.c., riformato dall'art. 53, comma 2, del d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni nella l. n. 133/2008 – dispone che nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo – che costituisce il nucleo essenziale della sentenza – e dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. L'art. 429 c.p.c. norma del rito speciale del lavoro – richiamata nell'art. 447-bis c.p.c. – prevedeva originariamente che il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo. Indipendentemente dalla collocazione della suddetta norma in un sistema processuale volto a pervenire nel tempo più breve possibile alla decisione definitiva, attesa la rilevanza sociale della materia e degli interessi facenti capo alle parti del rapporto di lavoro, la scissione operata dall'art. 429 c.p.c. tra il momento della pronuncia e quello del deposito della sentenza, da effettuare – come previsto dall'art. 430 c.p.c. – entro quindici giorni dalla pronuncia, era funzionale all'attribuzione ex lege dell'efficacia di titolo esecutivo al mero dispositivo di condanna, letto in udienza, pur in pendenza del termine per il deposito della sentenza ai sensi dell'art. 431, comma 2, c.p.c., mentre rimaneva ferma la disciplina della pubblicazione della sentenza – che doveva presentare i requisiti di validità prescritti dall'art. 132, comma 1 e 2, c.p.c., e dall'art. 118 disp. att. c.p.c. – mediante il deposito in cancelleria ex art. 133, comma 1, c.p.c., momento assunto come rilevante dall'art. 327, comma 1, c.p.c., anche ai fini del dies a quo di decorrenza del termine lungo per la proposizione dell'impugnazione avverso la sentenza. La norma soddisfa così le esigenze di celerità e concentrazione che contraddistinguono il processo del lavoro, in quanto, come si è osservato in dottrina, il giudice non può riservarsi la decisione (De Angelis, 1797; Verde, Olivieri, 245) come invece normalmente avviene nel rito civile ordinario. Soltanto in caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza. L'art. 429, comma 2, c.p.c. prevede invece che se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza. Tale facoltà, costituisce dunque l'esercizio di un potere discrezionale del giudice. La pronuncia della decisione senza la preventiva discussione orale, ove non sia riconducibile ad una scelta discrezionale delle parti, comporta la nullità della sentenza, per effetto della violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio (Cass. VI, n. 8441/2017). Nel rito locatizio, l'art. 447-bis c.p.c. richiama l'art. 429, commi 1 e 2 c.p.c. – in quanto l'ultima disposizione contenuta nella norma in esame riguarda la condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro – e, ciò comporta, che nel rito locatizio, al pari che nel rito del lavoro, il dispositivo della sentenza va letto in udienza e la mancata lettura produce nullità, che può essere fatta valere come motivo di impugnazione (Cass. III, n. 4620/1999). L'art. 429, comma 3, c.p.c. stabilisce che il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. Il coordinamento degli artt. 429 e 430 c.p.c.Nell'interpretazione giurisprudenziale, la mancata modifica dell'art. 430 c.p.c., è coerente con il mantenimento dello schema bifasico di pubblicazione della sentenza, fondato sulla lettura del solo dispositivo in udienza – contenente l'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione – ed il differimento – ad un termine successivo, non superiore a giorni sessanta – del deposito della sentenza, nei casi in cui la causa si palesi particolarmente complessa ex art. 429, comma 1, c.p.c., trovando applicazione in via sussidiaria l'art. 430 c.p.c., in quanto diretto a supplire all'omessa determinazione da parte del giudice del termine di differimento. In ogni caso, resta fermo il principio che la sentenza è formata essenzialmente dal dispositivo e dalla motivazione che, nella loro intima compenetrazione, concorrono indissolubilmente a creare la forza imperativa della decisione del giudice, ragione per cui, mancando l'uno o l'altra, la sentenza stessa è giuridicamente inesistente e non soltanto affetta da vizio di nullità emendabile con gli ordinari mezzi di impugnazione (Cass., sez. lav., n. 4881/1985; contra, Cass., sez. lav., n. 5277/2012, in cui si è affermato che qualora il giudice di primo grado abbia letto in udienza il dispositivo della sentenza e non possa redigerne la motivazione per sopravvenuto impedimento, non si ha inesistenza della sentenza, ma nullità della stessa per mancanza di motivazione, trattandosi di un vizio che, ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.c., può essere fatto valere nei limiti e secondo le regole dei mezzi di impugnazione). In dottrina (Consolo, 395; Costantino, 1174), si è osservato che l'art. 429 c.p.c. sebbene non contenga alcun riferimento all'art. 281-sexies, comma 2, c.p.c. secondo cui la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria, possa ugualmente applicarsi anche nel rito del lavoro. La questione della compatibilità della disciplina del rito speciale relativa alla lettura del dispositivo ed al successivo deposito della sentenza, con l'applicazione della norma dell'art. 281-sexies c.p.c., inserita nel capo III bis del titolo I del codice di procedura civile, introdotto dall'art. 68 del d.lgs. n. 51/1998, che prevede la facoltà attribuita al giudice del Tribunale in composizione monocratica di definire il giudizio alla stessa udienza di discussione, mediante la pronuncia della sentenza, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, intendendosi in tale caso, la sentenza pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene, fatto salvo l'immediato deposito in cancelleria ex art. 281-sexies, comma 2, c.p.c., è stata risolta positivamente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., n. 13708/2007; Cass., sez. lav., n. 9235/2006) che, sul presupposto della differente disciplina prevista dall'art. 429 c.p.c. – implicante la scissione della fase della lettura del dispositivo in udienza da quella del deposito in cancelleria della motivazione della sentenza – e dall'art. 281-sexies c.p.c., che tale scissione non contempla, attesa la compresenza già al momento della lettura in udienza di tutti gli elementi costitutivi della sentenza ex art. 132 c.p.c., e specificamente dell'apparato logico a fondamento del decisum, ha ritenuto applicabile quest'ultima norma anche al rito del lavoro, evidenziandone l'analogia in funzione del medesimo scopo acceleratorio sotteso alle due norme processuali, e rilevando che nel rito del lavoro, essendo vietate le udienze di mero rinvio e non essendo prevista un'udienza di precisazione delle conclusioni, ogni udienza, a cominciare dalla prima, è destinata, oltre che all'ammissione ed assunzione di eventuali prove, alla discussione orale e, quindi, alla pronuncia della sentenza ed alla lettura del dispositivo. Conseguentemente, dopo la modifica introdotta dalla riforma del 2008 all'art. 429, comma 1, c.p.c., gli elementi differenziali delle due norme che giustificavano la diversa disciplina degli effetti della lettura in udienza della sentenza debbono ritenersi venuti meno, in quanto in entrambi i casi il giudice definisce il giudizio mediante la lettura in udienza del dispositivo e della esposizione delle ragioni in diritto e fatto della decisione, non assumendo in contrario alcuna valenza discriminante l'aggettivo della “concisa esposizione” che compare soltanto nell'art. 281-sexies c.p.c., tanto più in considerazione della modifica dell'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c., e dell'art. 118, comma 1, disp. att., c.p.c., disposta, rispettivamente, dall'art. 45, comma 17, e 52, comma 5, della l. n. 69/2009 che ha previsto, in via generale, che le sentenze debbono riportare la concisa esposizione delle ragioni in fatto e di diritto della decisione consistente – come puntualizzato nella norma di attuazione – nella – succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine lungo di decadenza per la proposizione dell'impugnazione, previsto dall'art. 327 c.p.c., con riferimento alla pubblicazione della sentenza, deve essere individuato alla stessa data della udienza in cui è stato definito il giudizio, dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, con la conseguente conoscenza legale del provvedimento, ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., per le parti presenti o che avrebbero dovuto comparire alla stessa udienza (Cass. III, n. 14724/2018). Sentenza non definitiva Secondo la giurisprudenza di legittimità, anche nel rito del lavoro sono ammissibili sentenze non definitive per risolvere questioni preliminari di merito, atteso che la decisione parziale, oltre a non pregiudicare i diritti delle parti e a non potersi inquadrare in nessuna delle nullità previste dalla legge, assolve una funzione connaturale al processo, attivando in modo rapido ed economico le finalità di esso, trovando fondamento nell'art. 420, comma 4, c.p.c., che nel prevedere per l'emissione di sentenze non definitive l'ipotesi di altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, non può essere inteso in senso limitativo, cioè riferito alle sole questioni processuali. Pertanto, i vizi relativi alla pronuncia non definitiva possono essere fatti valere solo con un gravame che la investa direttamente e tempestivamente, non con l'impugnazione avverso la decisione definitiva (Cass., sez. lav., n. 9265/2003; Cass., sez. lav., n. 640/1998). Il deposito di note difensiveIl deposito delle note difensive nel processo del lavoro non è un diritto delle parti, ma una facoltà riservata all'apprezzamento discrezionale del giudice, per la cui attivazione serve però l'istanza di parte, anche una sola fra quelle costituite nel giudizio, non essendo prevista nell'art. 429, comma 2, c.p.c. la possibilità che il suddetto termine per note venga concesso d'ufficio. Il deposito di atti in momento successivo alla memoria di costituzione non è un elemento di per sé ostativo alla relativa acquisizione se la produzione abbia ad oggetto circostanze decisive e allegate negli atti introduttivi. Infatti nel rito del lavoro occorre contemperare il principio dispositivo con quello di ricerca della verità e, in questa prospettiva, si colloca l'esercizio del potere istruttorio officioso previsto in primo grado dall'art. 421 c.p.c. e dall'art. 437, comma 2, c.p.c. in appello, atteso quindi che, il deposito di atti non prodotti tempestivamente non è precluso in via assoluta. Il giudice può sempre ammetterli ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, ovvero idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione (Cass., sez. lav., n. 22907/2024). La dottrina (Luiso, 239; Tarzia, Dittrich, 277; Montesano, Vaccarella, 264) è infatti concorde sotto tale aspetto, volto a considerare necessaria l'istanza di parte al fine di consentire al giudice la decisione se concedere o meno il suddetto termine per note. La concessione, nello speciale procedimento del lavoro, ispirato ai principi dell'oralità e concentrazione processuale, all'udienza prevista dall'art. 429 c.p.c., di un termine per note difensive, è rimessa all'apprezzamento del giudice, la cui valutazione è del tutto discrezionale e non abbisogna di motivazione (Cass., sez. lav., n. 1091/1982; Cass., sez. lav., n. 4325/1981). Allo stesso modo, il deposito di memorie difensive eseguito in violazione del disposto di cui all'art. 429, comma 2, c.p.c. – richiamato, per il giudizio d'appello dall'art. 437 c.p.c. – non è causa di nullità, in mancanza di una previsione ad hoc, fermo restando il potere del giudice di non tenere conto degli scritti difensivi non autorizzati (Cass., sez. lav., n. 3310/1985). La lettura del dispositivoGli artt. 429, comma 1, c.p.c. e 437, comma 1, c.p.c. – rispettivamente per il giudizio di primo grado e per quello d'appello – dispongono che il giudice pronunci la sentenza dando lettura del dispositivo nell'udienza di discussione. Secondo l'orientamento consolidato di legittimità, nell'ambito del processo del lavoro, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha una rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale, i quali non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, e non è suscettibile di interpretazione per mezzo della motivazione medesima, sicché le proposizioni contenute in quest'ultima, contrastanti col dispositivo, devono considerarsi come non apposte e non sono suscettibili di passare in giudicato od arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (Cass. lav., n. 25406/2021; Cass. lav., n. 10238/2019; Cass. lav., n. 23463/2015; Cass. lav., n. 21885/2010). È opportuno precisare che non può parlarsi di formazione del dispositivo prima dell'udienza di discussione, qualora, esaurita la discussione, il giudice abbia dato lettura del dispositivo avvalendosi di uno scritto preparato in precedenza e predisposto come semplice sua annotazione o puntuazione delle vicende processuali e dei temi affrontati anche nel corso della discussione medesima, in funzione eventualmente strumentale proprio alla formazione dell'atto decisionale, il cui contenuto di rilevanza esterna è, perciò, direttamente ed in via esclusiva collegato alla lettura, la quale ne costituisce ad un tempo il fattore genetico ed il momento di acquisizione al processo (Cass. III, n. 4012/2001). L'avvenuta lettura del dispositivo non deve necessariamente risultare dalla sentenza, potendo essere documentata da un qualsiasi altro atto processuale, ed anche desumersi per implicito (Cass., sez. lav., n. 1615/1998), non essendo necessaria l'espressa specificazione del compimento di tale attività nel verbale di causa (Cass., sez. lav.,n. 1615/1998), essendo altresì irrilevante che la lettura sia avvenuta in assenza del difensore di una delle parti (Cass., sez. lav., n. 16312/2002). Nelle materie in cui trova applicazione il rito del lavoro, in seguito alla modifica dell'art. 429, comma 1, c.p.c., la lettura in udienza del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione equivale a pubblicazione della sentenza, con esonero della comunicazione di cancelleria, analogamente a quanto previsto dall'art. 281-sexies, comma 2, c.p.c., essendo identica la funzione acceleratoria del processo cui entrambe le norme di legge risultano preordinate in funzione attuativa del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost., non ostandovi la diposizione dell'art. 430 c.p.c. – secondo cui la sentenza deve essere depositata entro quindici giorni dalla pronuncia – atteso che la stessa deve essere coordinata con l'art. 429, comma 1, c.p.c., che mantiene la struttura bifasica della pubblicazione della sentenza nel caso di controversie di particolare complessità per le quali il giudice, letto il dispositivo in udienza, disponga il differimento del deposito della motivazione al termine stabilito, operando l'art. 430 c.p.c., in via meramente sussidiaria nel caso in cui venga omessa la indicazione del termine di differimento (Cass. III, n. 14724/2018). Dispositivo e motivazione della sentenzaLa pronuncia della sentenza nella stessa udienza di discussione, con immediata lettura del dispositivo, realizza la concentrazione processuale, che costituisce il principio informatore del processo del lavoro e delle locazioni, e determina anche il momento in cui si determina la immutabilità della decisione rispetto alla successiva pubblicazione della sentenza, dato che le parti vengono a conoscenza della statuizione adottata dal giudice proprio in virtù della lettura medesima. Pertanto, dovendo il dispositivo essere giustificato dalla motivazione, allorché quest'ultima sia completamente contraria al dispositivo, la contraddittorietà tra dispositivo e motivazione porta inevitabilmente all'annullamento della sentenza. In tale ottica, si è però affermato che la difformità tra il dispositivo letto in udienza e quello trascritto in calce alla motivazione della sentenza non è causa di nullità di quest'ultima, giacché, nel contrasto tra i due dispositivi, prevale quello portato a conoscenza delle parti mediante lettura in udienza (Cass., sez. lav., n. 11668/2008). Tale nullità non si verifica, tuttavia, allorché il contrasto tra dispositivo e motivazione è solo apparente perché può essere risolto attraverso la interpretazione del dispositivo, a prescindere dalle improprietà terminologiche utilizzate, ed alla luce della motivazione offerta dal giudice (Cass., sez. lav., n. 4304/2000; Cass., sez. lav., n. 9528/1998). Al riguardo, è stato recentemente affermato che se è vero che nel rito del lavoro il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza, da fare valere mediante l'impugnazione, in difetto della quale prevale il dispositivo, tale insanabilità deve nondimeno escludersi quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda inoltre sia àncorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmente la sostenga, sì da potersi escludere l'ipotesi di un ripensamento del giudice. In tale caso, infatti, è configurabile l'ipotesi legale del mero errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, è consentito l'esperimento del relativo procedimento di correzione e, dall'altro, deve qualificarsi come inammissibile l'eventuale impugnazione diretta a fare valere la nullità della sentenza asseritamente dipendente dal contrasto tra dispositivo e motivazione (Cass., sez. lav., n.6947/2020; Cass., sez. lav., n. 2860/2020; Cass., sez. lav., n. 21618/2019). Un caso ulteriore di nullità della sentenza può dunque ravvisarsi nell'ipotesi di contrasto tra il dispositivo letto in udienza e la motivazione della sentenza medesima, poiché il dispositivo della sentenza, non costituisce un atto interno, ma integra un vero e proprio atto di rilevanza esterna, che assume un autonomo rilievo, e, che viene necessariamente ad esistenza mediante la manifestazione esterna della lettura, dalla quale le parti presenti all'udienza hanno l'immediata conoscenza del contenuto della decisione, e, di cui le parti stesse possono valersi come titolo esecutivo autonomo, sicchè, dovendo il dispositivo essere giustificato dalla motivazione, quando quest'ultima sia contraria al dispositivo, la contraddittorietà tra dispositivo e motivazione porta inevitabilmente all'annullamento della sentenza per la sua inidoneità a consentire l'individuazione del comando concreto del giudice (Cass., sez. lav., n. 23463/2015; Cass., sez. lav., n. 2958/2001; Cass., sez. lav., n. 1369/2004). La questione si propone anche nel caso dell'errore materiale, atteso che il giudice laddove ritenga errata la decisione espressa nel dispositivo, non può porvi rimedio adottando una motivazione contraria, ancorché con l'indicazione delle ragioni che lo hanno indotto, sia pure per mero errore, a leggere un dispositivo diverso da quello deliberato, atteso che la contraddittorietà nel senso precisato comporterebbe l'annullamento della sentenza (Cass., sez. lav.,n. 3528/1997). Infatti, anche recentemente, è stato affermato che il dispositivo della sentenza nel rito del lavoro è un atto a rilevanza esterna ed autonoma poichè racchiude gli elementi del comando giudiziale, con la conseguenza che la contraddittorietà dello stesso non può essere sanata, nè facendo applicazione del principio dell'integrazione del dispositivo con la parte motivazionale, nè con il procedimento di correzione degli errori materiali, e, determina pertanto la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., difettando l'atto, considerato nella sua unità, dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo cui è destinato (Cass., sez. lav., n.10218/2020; Cass. VI, n.3024/2016). Ciò importa, altresì, che nel rito del lavoro, ove sussista un contrasto tra la parte motiva della sentenza ed il dispositivo letto in udienza non trova applicazione il principio di integrazione del dispositivo con la motivazione, e, neppure può essere adottato il procedimento di correzione di cui all'art. 287 c.p.c. (Cass., sez. lav.,n. 3528/1997). Nel rito del lavoro, in particolare, la contraddittorietà della sentenza, per l'insanabile contrasto fra il dispositivo letto in udienza e la motivazione depositata in cancelleria, dà luogo ad un'ipotesi di nullità a norma dell'art. 156, comma 2, c.p.c. che si converte in motivo di gravame ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.c., essendo inapplicabile la procedura di correzione degli errori materiali o di calcolo, questi consistendo in una mera svista del giudice e non in un vizio del ragionamento, e, prevalendo, in difetto d'impugnazione, il dispositivo, che, acquistando pubblicità con la lettura fattane in udienza, cristallizza stabilmente la statuizione emanata, salvo che non si configuri un caso di inesistenza della sentenza (Cass. III, n. 1335/2000). Infatti, la regola della non assoggettabilità della fattispecie di contrasto tra dispositivo letto in udienza e motivazione della sentenza ad una interpretazione correttiva del dispositivo o ad una sua correzione ex art 287 c.p.c.non è una regola di portata assoluta e generale, subendo una doverosa deroga – anche nel processo del lavoro – ogni qualvolta le parti possano riscontrare agevolmente che si sia in presenza di un errore materiale dalla mera lettura del dispositivo, avendo riguardo all'intero suo contenuto e ponendolo in relazione agli atti processuali a conoscenza delle parti stesse, e privilegiando, altresì, una opzione coerente con lo svolgimento dell'intera istruttoria svolta ad altra che comporti invece una soluzione che, oltre a non trovare riscontro di alcun genere negli atti di causa, si appalesi priva di qualsiasi fondamento giuridico per porsi al di fuori dell'assetto ordinamentale in cui è destinata ad incidere. L'errore – a cui è equiparata l'omissione e l'errore di calcolo – per essere estraneo al processo formativo della volontà decisoria deve riguardare unicamente atti involontari, condotte disattente o sviste materiali nella redazione del documento, tutti riconoscibili ictu oculi (Cass., sez. lav., n. 7706/2003, in cui si è osservato che non risponde al generale criterio di lealtà e di buona fede, che deve permeare il processo, potendo finanche concretizzare un comportamento gravemente colposo, la condotta della parte che, pur potendo agevolmente rendersi conto, anche per la attiva partecipazione avuta in giudizio, che il dispositivo letto in udienza sia frutto di una svista materiale del giudice, utilizzi detto dispositivo, nel suo contenuto documentale, come titolo esecutivo). In maniera ancora più esplicita (Cass., sez. lav., n. 6786/2002; Cass., sez. lav., n. 13839/2001; Cass., sez. lav., n.11336/1998; Cass., sez. lav., n. 6855/1996) nel rito del lavoro si è affermato il principio secondo cui l'interpretazione del dispositivo della sentenza mediante la motivazione non può estendersi fino all'interpretazione del contenuto precettivo del primo con statuizioni desunte dalla seconda, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo che, acquistando pubblicità con la lettura in udienza, cristallizza la statuizione emanata nella fattispecie concreta, con la conseguenza che le enunciazioni contenute nella motivazione che siano con esso incompatibili sono da considerarsi come non apposte ed inidonee a costituire il giudicato. La procedura di correzione di errore materiale ex art. 287 c.p.c., può essere adottata, ricorrendone i presupposti, anche nei confronti del dispositivo di sentenza pronunciata con il rito del lavoro, in quanto la possibilità di procedere ad esecuzione con la sola copia del dispositivo, prevista dall'art. 431, comma 2, c.p.c. evidenzia l'interesse della parte ad ottenere la correzione dell'errore materiale ancora prima del deposito della sentenza (Cass., sez. lav., n. 7748/2003). Inoltre, la circostanza che il dictum giudiziale risieda nel dispositivo, impedisce che le enunciazioni incompatibili contenute nella motivazione siano suscettibili di passare in giudicato ed arrecare alla parte un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (Cass., sez. lav., n. 23463/2015; Cass., sez. lav., n. 21885/2010; Cass. lav. n. 10376/2004; Cass. III, n. 8912/2002). Al riguardo, nel rito speciale del lavoro si è affermato che, in caso di contrasto tra motivazione e dispositivo, deve attribuirsi prevalenza a quest'ultimo che, acquistando pubblicità con la lettura in udienza, cristallizza stabilmente la decisione assunta nella fattispecie concreta. Conseguentemente, il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza, poiché non consente di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, non può essere eliminato con il rimedio della correzione degli errori materiali, determinando, sul punto, la nullità della pronuncia ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c. In particolare, sussiste un contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza solo nel caso in cui il provvedimento risulti inidoneo a consentire l'individuazione del concreto comando giudiziale, non essendo possibile ricostruire la statuizione del giudice attraverso il confronto tra motivazione e dispositivo, mediante valutazioni di prevalenza di una delle affermazioni contenute nella prima su altre di segno opposto presenti nel secondo (Cass. I, n. 11794/2021; Cass. VI, n. 26074/2018; Cass. VI, n. 16014/2017; Cass. VI, n. 15990/2014; Cass. I, n. 14966/2007). Tale insanabilità può escludersi soltanto quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda, inoltre, sia ancorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmente la sostenga (Cass. lav., n. 12716/2020; Cass. lav., n. 21618/2019). Una più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio in base al quale, se è vero che nel rito del lavoro il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza, da fare valere mediante l'impugnazione, in difetto della quale prevale il dispositivo, tale insanabilità deve nondimeno escludersi quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda inoltre sia àncorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmente la sostenga, sì da potersi escludere l'ipotesi di un ripensamento del giudice. In tale caso, infatti, è configurabile l'ipotesi legale del mero errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, è consentito l'esperimento del relativo procedimento di correzione della sentenza, e, dall'altro, deve qualificarsi come inammissibile l'eventuale impugnazione diretta a fare valere la nullità della sentenza asseritamente dipendente dal contrasto tra dispositivo e motivazione (Cass.,sez. lav., n. 6947/2020; Cass., sez. lav., n.2860/2020; Cass., sez. lav., n.21618/2019). Omessa lettura del dispositivoNelle controversie soggette al rito del lavoro, l'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., la nullità insanabile della sentenza, per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, in quanto si traduce nel difetto di un requisito correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio che connotano tale rito, e, soprattutto, di immutabilità della decisione rispetto alla successiva stesura della motivazione (Cass. II, n. 72/2018; Cass. VI, n. 25305/2014; Cass. III, n. 5659/2010; Cass., sez. lav., n. 13165/2009; Cass., sez. lav., n. 10869/2006). Trattasi quindi di una formalità sottratta a qualsiasi potere dispositivo delle parti, ancorché queste concordino nell'ometterla (Cass. III, n. 3360/1987), i cui effetti non si comunicano agli atti precedenti, nè all'attività istruttoria compiuta (Cass., sez. lav., n. 1244/1987). Ciò premesso, la stessa giurisprudenza di legittimità ha statuito che nel rito del lavoro non determina nullità della decisione e del procedimento la lettura del dispositivo in altra udienza successiva a quella di discussione della causa, in quanto non preclude all'atto di raggiungere il suo scopo, né comporta una violazione insanabile dei diritti di difesa, come nel diverso caso di omessa lettura del dispositivo che determina, invece, la nullità insanabile della sentenza per la mancanza di un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto (Cass. III, n.16114/2006), costituendo una mera irregolarità con riguardo alla prevista concentrazione delle attività di discussione e decisione della causa (Cass. I, n. 5877/2004). Rivalutazione monetariaLa ratio della disposizione in commento contenuta nell'art. 429, comma 3, c.p.c. applicabile in ordine a tutti i rapporti elencati nell'art. 409 c.p.c., è stata ravvisata nella natura privilegiata dei crediti dei lavoratori, atteso che i crediti di lavoro ex art. 429, comma 3, c.p.c., come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo l'ampia accezione della suddetta disposizione normativa, si riferiscono a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva (Cass. VI, n. 5344/2016). La norma ha in questo caso natura sostanziale non processuale, atteso che il credito per interessi e rivalutazione non è dovuto ad un provvedimento del giudice ma alla statuizione concernente l'esistenza del credito principale di lavoro a cui esse accedono (Luiso, 249). L'automatismo della rivalutazione ex art. 429, comma 3, c.p.c. è conseguente al duplice presupposto che si tratti sul piano soggettivo di un credito del lavoratore e su quello oggettivo del ritardo nell'adempimento. Pertanto, nel caso in cui le somme dovute dal datore di lavoro siano erogate al lavoratore da un terzo, con la surrogazione nel correlativo credito di lavoro già maturato del lavoratore, non ne deriva per detto terzo, allorché agisce nei confronti del datore di lavoro per conseguire il rimborso del suo credito, il diritto alla rivalutazione monetaria ex art. 429, comma 3, c.p.c. difettando il presupposto soggettivo di applicabilità di tale norma, e, dunque, trovando ingresso la disciplina generale di cui all'art. 1224 c.c. (Cass., sez. lav., n. 6214/1987). Gli interessi e la rivalutazione sui crediti di lavoro tardivamente corrisposti vanno liquidati d'ufficio dal giudice, non occorrendo una domanda ad hoc del lavoratore (Cass. S.U., n. 16036/2010). La statuizione del giudice, positiva o negativa, sulla rivalutazione del credito si pone come capo della sentenza munito di piena autonomia e suscettibile di autonomo passaggio in giudicato, per cui è necessario proporre sul punto uno specifico motivo di impugnazione, anche quando quest'ultima verta sull'esistenza stessa del credito per la somma capitale (Cass., sez. lav., n. 6938/2003). In tale ottica si è quindi affermato che la rivalutazione dei crediti di lavoro, in quanto costituisce una proprietà intrinseca ed indissolubile di tali crediti, come tale riconducibile alla causa petendi stessa della domanda con cui il credito è fatto valere, deve essere operata d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo, senza necessità di una specifica domanda del lavoratore, fermo restando che, nell'ambito del processo civile, il potere-dovere del giudice di conoscere ex officio di determinate questioni non determina la completa elisione del principio dispositivo, ma va coordinato con esso, ed in particolare, con la sua tipica manifestazione costituita dalla disciplina dell'acquiescenza e dalla formazione del giudicato, con la conseguenza che il suddetto potere viene meno se sulla questione sia intervenuta una pronuncia, ancorchè solo implicita, non contestata dalla parte soccombente con apposito gravame. La necessità di tale coordinamento si pone anche con riferimento alla disciplina dell'art. 429, comma 3, c.p.c. e si risolve nel principio di diritto che la pronuncia con cui il giudice, sia pure implicitamente, neghi la rivalutazione presuppone un accertamento negativo circa la sussistenza del maggior danno, con la conseguenza che, in difetto di impugnazione sul punto, si forma il giudicato, e l'esame della questione stessa resta preclusa nelle successive fasi processuali (Cass., sez. lav., n. 7395/2010; conforme, Cass., sez. lav., n. 16484/2009; Cass., sez. lav., n. 2768/1995). Infatti, come capo autonomo della pronuncia giudiziale deve intendersi soltanto quella statuizione idonea a conservare la propria efficacia precettiva anche ove vengano meno le altre, essendo indubbio che la statuizione sugli accessori – interessi e rivalutazione monetaria – non può sopravvivere senza quella avente ad oggetto il credito principale, ragione per cui, l'applicabilità d'ufficio della rivalutazione monetaria ex art. 429, comma 3, c.p.c., trova il proprio limite nell'acquiescenza e nella conseguente formazione del giudicato sulla questione non investita da apposito mezzo di gravame, e ciò quindi, presuppone che si sia verificata ex art. 329 c.p.c. l'acquiescenza sul relativo capo autonomo della sentenza emessa dal giudice di prime cure. Quanto sopra, rappresenta un caso diverso da quello in cui il creditore risulta vittorioso in primo grado, ma soccombente riguardo alla rivalutazione monetaria, avendo l'onere di appellare specificamente, in via principale od incidentale, tale capo sfavorevole, sia che il giudice di primo grado investito ex art. 429, comma 3, c.p.c. del dovere di rivalutare il credito anche d'ufficio, abbia pronunciato in senso negativo sulla rivalutazione sia che abbia omesso di pronunciarsi su quest'ultima, non potendo il giudice del gravame attribuire all'appellato la rivalutazione ormai esclusa per effetto dell'intervenuto giudicato interno, laddove non impugnato (Cass., sez. lav., n. 19312/2016). La rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro deve essere determinata a norma dell'art. 150 disp. att. c.p.c., in base all'indice dei prezzi calcolato dall'Istat per la scala mobile per i lavoratori dell'industria. In ordine alle spese di lite, opera il generale principio della soccombenza, anche virtuale, atteso che ai sensi dell’art. 92 c.p.c. il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, e la sua scelta, discrezionale, sia che sia nel senso di non compensarle, sia che sia nel senso di compensarle, in tutto od in parte, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione. Nel caso in cui il giudice decida di non compensare le spese di lite o di compensarle solo in parte si pone il problema dell’individuazione della parte cui addossare le spese per intero in caso di mancata compensazione o per la parte non compensata, in caso di compensazione solo parziale. Ebbene, ove trattasi di piena soccombenza reciproca a tale fine non soccorre il principio di causalità, essendosi infatti, osservato che mentre l'applicazione pura e semplice del principio di causalità, cioè la responsabilità dell’introduzione della domanda, implicherebbe che essa debba riferirsi per ognuna a chi l'ha proposta e che, dunque, dovrebbe farsi luogo a due contrapposte condanne, l'art. 92, comma 2, c.p.c. implica invece il potere del giudice di regolare le spese o facendo luogo alla compensazione totale o facendo luogo ad una compensazione parziale. In questo secondo caso, la condanna parziale alle spese può avere luogo a carico di quella parte la cui domanda, pur accolta, si presenta sostanzialmente di minore valore rispetto a quella accolta a favore dell'altra parte. Ciò significa che nell'ipotesi di pluralità di domande, le due causalità ricollegate all'introduzione delle due domande possono dal giudice in sostanza essere confrontate fra loro ed allo stesso giudice è commesso di individuare quella più importante in relazione al valore della domanda. Lo stesso criterio, necessariamente e specularmente riferito però non al valore delle domande parzialmente accolte ma a quello delle domande rigettate, consente di individuare la parte maggiormente soccombente cui vanno addebitate le spese - per intero, in caso di mancata compensazione, o nella parte non compensata – posto che questa, cioè, sarà la parte le cui domande interamente rigettate erano di maggiore valore (Cass. III, 7 giugno 2022, n. 18324). 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